Primarie Usa: il New Hampshire riapre la corsa
di Alessandro Marrone
[09 gen 08]

Dopo le primarie nel New Hampshire la corsa per le nomination presidenziali iniziata in Iowa è sempre più incerta, sia nel campo democratico che in quello repubblicano. Nell’ultimo appuntamento elettorale, tra i principali candidati democratici Hillary Clinton ha ottenuto il 39 per cento dei voti, Barack Obama il 37 per cento e John Edwards il 17. In campo repubblicano John McCain ha vinto con il 37 per cento dei voti, mentre al secondo posto si è piazzato Mitt Romney con il 32, ed al terzo Mike Huckabee con l’11 per cento. Paragonando i risultati dello Stato dell’East Coast di orientamento liberal e con una significativa quota di elettori “indipendenti”, non iscritti né al Partito repubblicano né a quello democratico, con quelli dell’Iowa, Stato nel cuore del MidWest dall’elettorato prevalentemente bianco, rurale e conservatore, si possono trarre alcuni indizi su come si sta caratterizzando e dove si sta dirigendo la corsa per le due nomination. Il campo democratico è quello che ha attirato maggiormente le attenzioni dei media, in America come in Europa, perché vede correre un afro-americano ed una donna che per la prima volta hanno serie possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti. Hillary Clinton era stata data a lungo come candidata favorita grazie alla sua popolarità di ex first lady, al forte sostegno dell’establishment democratico ancora legato alla presidenza del marito e ad una campagna elettorale iniziata con largo anticipo e grande cura. Tuttavia in Iowa il 38 per cento dei voti è andato al senatore dell’Illinois, che con i suoi 46 anni ed il colore della sua pelle incarna la bandiera del cambiamento politico che molti americani, specie democratici ma non solo, vorrebbero. Al secondo posto, con il 30 per cento dei voti, si è piazzato il self-made man del Sud Edwards, già in ticket con John Kerry nelle elezioni presidenziali del 2004, che dà voce gli istinti più populisti e pacifisti dell’elettorato democratico. Così Hillary ha raggiunto “solo” il 29 per cento, piazzandosi terza.
 

In molti hanno sopravvalutato il primo test dell’Iowa, alimentando il coro di coloro che vedevano un “effetto domino” a favore di Obama e prevedevano un prossimo ritiro della Clinton. Ma Hillary ha fatto capire che non si sarebbe data per vinta ed ha giocato fino in fondo tutte le sue carte, compresa qualche lacrima per far vedere che batte anche un cuore sotto la sua corazza da donna in carriera. Così in barba ai sondaggi sfavorevoli nel New Hampshire ha vinto sul suo principale rivale pareggiando (quasi) il conto del l’Iowa, e inoltre ha “doppiato” Edwards. E’ difficile dire quanto abbiano pesato nella corsa i programmi politici dei due candidati, in fondo non molto diversi, quanto l’enfasi posta da lei sul binomio affidabilità-esperienza e da lui su quello cambiamento-idealismo, e quanto i diversi appeal dei due front-runner. Si può però affermare che entrambi sono candidati forti e popolari, e che ognuno può unire dietro di sé tutto il Partito democratico ed attirare anche gli elettori indipendenti. Il discorso cambia completamente per il Partito repubblicano. Il Grand Old Party da otto anni alla guida della Casa Bianca non candida né il presidente uscente Bush, per il limite dei due mandati, né il vice presidente in carica Cheney, per motivi di età e di immagine. Si trova inoltre a gestire l’eredità di una politica estera, in particolare la guerra in Iraq, che ha lasciato un segno prevalentemente negativo nell’opinione pubblica interna. Tuttavia, complici i positivi risultati raggiungi in Iraq dalla strategia del “surge” attuata da Petraeus ed il parziale e graduale ritiro dei soldati già deciso dall’Amministrazione Bush, la questione dell’Iraq è stata quasi assente dal dibattito elettorale. Anche perché il Partito democratico ha clamorosamente perso la battaglia in Congresso per imporre un ritiro immediato delle truppe, con metà dei senatori democratici che prima di Natale ha votato con i repubblicani il rifinanziamento della guerra senza alcun caveat temporale. I repubblicani non sono quindi eccessivamente gravati dall’eredità della presidenza Bush, ma piuttosto alle prese con l’ardua impresa di creare ex novo un’altra leadership forte e vincente.
 

I risultati delle primarie in Iowa e New Hampshire testimoniano in primo luogo la frammentazione del campo repubblicano. Tra i principali candidati, il pastore battista espressione della destra religiosa Huckabee è arrivato primo in Iowa con il 34 per cento ma solo terzo nel New Hampshire con un misero 11 per cento. Il milionario mormone Romney, ex governatore del Massachusetts ed alfiere dell’establishment repubblicano non ha vinto in nessuno dei due Stati pur ottenendo rispettivamente un quarto e un terzo dei consensi. L’eroe del Vietnam e senatore dell’Arizona McCain, critico di Bush e di diverse posizioni politiche del GOP sulla politica interna, ha vinto in New Hampshire dopo aver raccolto solo il 13 per cento in Iowa. L’incertezza nel campo repubblicano è determinata anche dalla scelta dell’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani di non fare campagna elettorale né in Iowa né in New Hampshire, concentrandosi invece sui più popolosi e decisivi Stati chiamati al voto nelle prossime settimane. Giuliani gode di una buona popolarità nell’opinione pubblica americana per il suo operato come sindaco della Grande Mela e per come ha gestito la situazione creatasi in città dopo l’11 Settembre, ma al tempo stesso è inviso alla parte più tradizionalista e religiosa del Partito repubblicano per le sue posizioni su temi come l’aborto, e soprattutto per le sue vicende personali che l’hanno visto divorziare ed adottare uno stile di vita più vicino ai liberal newyorkesi che ai conservatori dell’America profonda. L’italo-americano che ha ristabilito la sicurezza a New York con la politica della “tolleranza zero” e che promette di continuare la guerra al terrorismo fino alla vittoria, si trova forse nella paradossale situazione di trovare più arduo vincere le primarie nel suo partito piuttosto che il successivo scontro con il candidato democratico. Di fronte a questo rischio, Giuliani ha deciso una strategia azzardata che poche volte è stata tentata con successo nella storia delle primarie: non fare campagna nei primi piccoli Stati, rinunciando quindi all’effetto domino che una serie di vittorie potrebbe innescare, per cercare di vincere i round decisivi che si giocheranno in stati come Michigan, New York, Florida, Texas, California. La scelta finora sembra averlo premiato, perché nel campo repubblicano non è emerso un chiaro vincitore quanto piuttosto dei candidati che rappresentano posizioni consistenti ma minoritarie nel partito, e che si presentano alle prossime sfide elettorali con una popolarità pari se non minore rispetto a quella di Giuliani e con molti meno fondi a disposizione. Tuttavia si avvicina il momento per Rudy di dimostrare il suo consenso con i voti e non solo con i sondaggi, e soprattutto di tornare al centro della campagna elettorale repubblicana, perché altrimenti rischia di arrivare troppo tardi e di perdere così il treno per la Casa Bianca.


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