Tutte le variabili della crisi kosovara
di Rodolfo Bastianelli
[12 dic 07]

Come era ampiamente prevedibile la data del 10 Dicembre è trascorsa senza che nessuna intesa venisse raggiunta sul futuro assetto del Kosovo ed appare quantomai difficile che Belgrado e Pristina possano riprendere i colloqui vista l’inconciliabilità delle loro posizioni. Dopo l’intervento effettuato dalla NATO nella primavera del 1999 in risposta alla repressione compiuta da Milosevic contro la popolazione albanese, la regione si trova in uno status giuridico particolare, essendo ancora formalmente, come stabilito dalla Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite, parte integrante della Serbia ma sottoposta ad un regime di amministrazione internazionale. Ed è proprio da questo paradosso che bisogna partire per comprendere gli sviluppi attuali ed i possibili scenari che potrebbero aprirsi per tutta la regione balcanica.  

Fin dall’inizio, è apparso evidente infatti che, se per gli albanesi l’amministrazione delle Nazioni Unite significava il primo passo verso il raggiungimento della piena indipendenza, per Belgrado il Kosovo restava una parte integrante dello Stato serbo il cui valore era reso ancora più importante dal significato storico che la regione riveste agli occhi della popolazione. In questi anni, il governo serbo è quindi sempre rimasto fermo sulle sue posizioni, dichiarando di essere pronto a concedere alla regione una larga autonomia all’interno della Serbia ma di non essere assolutamente disposto ad accettare la prospettiva di un Kosovo indipendente, sottolineando non solo come questa ipotesi costituisca una violazione di quanto affermato nella Risoluzione 1244 dove si dichiara il rispetto dell’integrità territoriale serba, ma rappresenti una stessa minaccia per la stabilità dei Balcani. 

Per tentare di risolvere questo rebus, la comunità internazionale nel piano presentato dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Marti Ahtisaari aveva avanzato per la regione il progetto di “indipendenza monitorata”, nel quale si prevedeva di affidare all’esecutivo kosovaro una larga serie di prerogative sotto la supervisione di un rappresentante internazionale, garantendo comunque allo stesso tempo alla Chiesa ortodossa il rispetto della sua organizzazione interna ed alla minoranza serba il diritto di esercitare alcune prerogative autonome. Questa soluzione è apparsa fin dall’inizio la sola praticabile, in quanto né la prospettiva di un ritorno alla Serbia, né il proseguimento dell’attuale missione appaiono essere delle soluzioni credibili. Un ritorno della regione sotto la sovranità serba solleverebbe le proteste violente della popolazione albanese, ponendo a rischio lo stesso contingente internazionale, mentre analoghi sentimenti contrari susciterebbe tra i kosovari la prospettiva di un proseguimento del mandato dell’UNMIK. Belgrado ha però fin dall’inizio rigettato il piano Ahtisaari, ritenendo inammissibile che la comunità internazionale privi la Serbia del 15 per cento del suo territorio.  

Ora la situazione è quanto mai complessa. Nel caso il Parlamento di Pristina, stando a quanto dichiarato dal leader del Partito Democratico del Kosovo e futuro Premier Hashim Thaci, dovesse proclamare la sua piena sovranità prima di maggio, gli scenari che si aprono per gli equilibri regionali si profilano preoccupanti, perché in questo caso il rischio è che Belgrado riapra la questione bosniaca finendo per rimettere in discussione gli equilibri sanciti dagli accordi di Dayton. Recentemente, il rappresentante internazionale per la Bosnia–Erzegovina Miroslav Lajcak ha avanzato un progetto di riforma che abbasserebbe il quorum con il quale ogni gruppo etnico all’interno del Parlamento e del governo può esercitare il suo diritto di veto. Una proposta duramente contestata dal premier serbo Kostunica e dagli esponenti radicali e socialisti per i quali la Serbia dovrebbe immediatamente riconoscere l’indipendenza della Republika Srpska.  

Qualora questo scenario dovesse concretizzarsi, l’intera struttura istituzionale bosniaca finirebbe per frantumarsi dato che nell’altra entità, la Federazione della Bosnia–Erzegovina, la componente croata finirebbe per distaccarsi e proclamare il suo mini–Stato nell’Erzegovina occidentale, che tacitamente conterebbe anche sul sostegno di Zagabria. Remota appare invece la prospettiva di un risveglio delle minoranze albanesi in Macedonia, Grecia e Montenegro. Nessuno aspira ad una “Grande Albania” e gli stessi leader kosovari non avrebbero nessuna intenzione di sollevare delle rivendicazioni territoriali puntando al contrario proprio su un’immagine di responsabilità per guadagnarsi il sostegno internazionale. In Serbia, la perdita del Kosovo potrebbe mettere a rischio gli equilibri politici e far cadere il governo riformista che dallo scorso maggio guida il paese. E’ possibile che il Partito Democratico Serbo di Kostunica rompa l’alleanza con Tadic ed i liberali del G17 per formare una coalizione nazionalista con i radicali ed i socialisti, ma in questo caso Belgrado si troverebbe isolata sul piano internazionale e con un Kosovo ormai comunque irrecuperabile.  

Resta da vedere infine quali reazioni susciterà in Russia, negli Stati Uniti ed in Europa l’eventuale proclamazione dell’indipendenza kosovara. Washington, anche per ringraziare l’Albania del suo sostegno alla guerra in Iraq, ha già dichiarato che riconoscerà il nuovo Stato, mentre Mosca, da sempre storica alleata di Belgrado, ha ribadito che ogni soluzione dovrà ricevere il sostegno di entrambe le parti, anche se diversi analisti ritengono comunque improbabile che la Russia sia disposta ad arrivare alla rottura completa con l’Unione Europea e gli Stati Uniti. L’idea di un Kosovo indipendente trova poi alquanto critici Romania, Grecia, Slovacchia, Cipro e Spagna, preoccupate di creare un precedente che in seguito possa essere rivendicato anche in altre situazioni. Tutti questi paesi o sono legati alla Serbia dai comuni vincoli religiosi ortodossi oppure all’interno dei loro confini ospitano delle minoranze nazionali che proprio da quanto accade in Kosovo potrebbero ricevere una spinta alle loro istanze autonomiste, qual è il caso dei turco–ciprioti e dei baschi.


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