Georgia, una crisi interna con sfumature sovietiche
di Stefano Magni
[09 nov 07]
Il tumulto in Georgia
ha già un nome e un colore: Rivoluzione Bianca. Come nella tradizione delle
ribellioni nelle repubbliche ex sovietiche degli ultimi quattro anni, i
ribelli hanno scelto il loro colore. Dal primo novembre, decine di migliaia
di manifestanti si sono radunati a Tbilisi per protestare contro il
presidente Saakashvili, accusandolo di autoritarismo, corruzione e violenza
nei confronti dell’opposizione. La Rivoluzione Rosa del novembre 2003 fu la
prima sommossa contro il potere dei post-comunisti in uno Stato indipendente
dell’area ex sovietica. Quattro anni fa era al potere Eduard Shevardnadze,
il penultimo ministro degli Esteri dell’Urss, famoso quasi quanto il suo
ultimo presidente Michail Gorbachev. Shevardnadze era subentrato al
presidente Gamsakhurdia, dissidente indipendentista, nazionalista e nemico
dell’influenza che la Russia ancora intendeva mantenere nel nuovo Stato.
Dopo dieci anni di governo, l’ex ministro degli Esteri sovietico non aveva
portato a termine le riforme necessarie per rendere la Georgia un paese
realmente autonomo e aperto al libero mercato: nel 2003 era ancora un regime
post-comunista, con un’economia in crisi e una classe dirigente autoritaria,
i media controllati e l’opposizione perseguitata. La Georgia scoppiò
letteralmente nel novembre del 2003, quando le elezioni furono truccate a
favore di Shevardnadze. La protesta di piazza, non violenta, portò
all’allontanamento del presidente post-comunista e all’ascesa di Mikheil
Saakashvili, liberale, formatosi culturalmente negli Stati Uniti. L’agenda
della nuova classe dirigente era chiara: smarcarsi dalla Russia portando la
Georgia nel campo occidentale (Nato e Unione Europea), liberalizzare
l’economia, garantire i diritti di proprietà, difendere la libertà di
espressione.
Sembra incredibile vedere che la storia si sta ripetendo a quattro anni di
distanza. Mikheil Saakashvili è generalmente considerato come il riformatore
che ha avuto più successo in tutta l’ex Urss. Le sue riforme in campo
economico hanno dato origine ad anni di crescita. Eppure il programma
dell’attuale opposizione intende raggiungere gli stessi obiettivi dei
rivoluzionari del 2003, come se negli ultimi quattro anni non fosse cambiato
nulla. Il manifesto delle opposizioni, riunitesi sotto il cartello
elettorale del Consiglio Nazionale, pubblicato lo scorso 17 ottobre, punta
prima di tutto a un processo elettorale più trasparente. L’anno scorso il
presidente Saakashvili aveva deciso di posporre le elezioni parlamentari
all’autunno del 2008, in modo da farle coincidere con le prossime elezioni
presidenziali (che tecnicamente si possono tenere anche all’inizio del
2009). L’opposizione teme che questo rinvio serva a Saakashvili per
preparare il terreno a una sua vittoria completa e inoltre chiede che venga
creata una nuova commissione elettorale, perché l’attuale è stata
monopolizzata dai membri del Movimento dell’Unione Nazionale fedele al
presidente. Gli altri punti del programma del Consiglio Nazionale permettono
di capire come i problemi del sistema politico georgiano siano praticamente
gli stessi del 2003.
L’opposizione, infatti, chiede che: si crei un vero sistema di “checks and
balances” tra potere esecutivo, legislativo e giudiziario; si assicuri
l’indipendenza della magistratura; si restauri l’integrità territoriale
della Georgia (attualmente le regioni dell’Abkhasia e dell’Ossezia sono, di
fatto, indipendenti e contese con la Russia); dare reale autonomia ai poteri
locali, attualmente retti da rappresentanti del presidente; liberare i
prigionieri incarcerati per motivi politici; rilanciare le inchieste per gli
omicidi eccellenti (l’assassinio di Gamsakhurdia nel 1993 e quello dell’ex
primo ministro Zurab Zhvania nel 2005); garantire la libertà ai media;
rafforzare la tutela dei diritti di proprietà e risarcire coloro i cui beni
sono stati espropriati da Saakashvili; liberalizzare l’economia per attirare
investitori stranieri; porre fine all’interferenza statale negli affari
della Chiesa ortodossa; ritirare la Georgia dalla Comunità degli Stati
Indipendenti post-sovietica egemonizzata dalla Russia. Sembra strano,
dunque, che il filo-occidentale Saakashvili accusi l’opposizione di essere
filo-russa: perché il Consiglio Nazionale ha un programma ancor più liberale
di quello dei rivoluzionari del 2003. L’accusa alla Russia è dovuta
soprattutto alla tensione cronica che intercorre tra la Russia e la Georgia,
per il destino delle regioni russofone, l’Ossezia e l’Abkhasia. Attualmente
la situazione è più intricata che mai e non priva di momenti di tensione,
quasi di guerra. L’Ossezia è amministrata da due governi paralleli, uno
filo-russo e uno (ufficiale) filo-georgiano, entrambi convinti di
rappresentare l’interesse reale della regione. L’Abkhasia è ancora
sorvegliata dalle truppe russe, giunte alla testa di una missione di
peacekeeping della Comunità degli Stati Indipendenti. Proprio alla vigilia
della rivolta contro Saakashvili, il 31 ottobre il presidente georgiano era
stato al centro di uno scontro fra le sue guardie di scorta ed elementi
delle truppe russe, in un villaggio al confine tra l’Abkhasia e la Georgia.
La Russia, comunque, nega di essere alle spalle delle manifestazioni di
Tbilisi contro il presidente. Alla decisione di Saakashvili di espellere tre
diplomatici russi dalla Georgia, con l’accusa di aver fomentato i disordini
di questi giorni, Mosca ha replicato annunciando l’espulsione di diplomatici
georgiani.
Questa volta la Russia (che ha sempre cercato di controllare la vita
politica degli Stati ex sovietici) potrebbe non essere la causa della crisi
politica georgiana. La crisi è, molto più probabilmente, tutta interna alla
classe dirigente georgiana. L’opposizione è divisa al suo interno, ma il
leader che sta emergendo più di tutti gli altri è l’ex ministro della difesa
Irakli Okruashvili, anch’egli vicino al presidente Saakashvili durante la
Rivoluzione Rosa, poi suo principale accusatore. In un discorso televisivo,
tenuto alla fine dello scorso settembre, aveva puntato il dito contro il
presidente giudicandolo colpevole di aver assassinato gli oppositori
politici. Finito in carcere con l’accusa di corruzione, è stato scarcerato
lo scorso 6 ottobre dopo aver confessato in televisione di essersi inventato
tutte le accuse mosse a Saakashvili. Tuttora è incerto se questa smentita
sia un retaggio delle pratiche staliniane di autocritica o sia reale. Fatto
sta che, una volta fuori dal carcere, Okruashvili è tornato ad animare
l’opposizione, ma alla vigilia delle manifestazioni di piazza si è
allontanato dal paese. Gli oppositori affermano che sia stato esiliato, le
autorità ritengono che si sia recato in Francia per “motivi di salute”
(altro retaggio staliniano?). Nel pieno delle manifestazioni di Tbilisi, il
6 novembre, Okruashvili ha lanciato un messaggio televisivo in cui afferma
che: tutte le sue accuse a Saakashvili erano reali, la sua smentita
televisiva (che gli ha consentito di uscire dal carcere) è stata ottenuta
con l’intimidazione, il presidente ha i giorni ormai contati. Queste
dichiarazioni hanno incoraggiato gli oppositori a proseguire le
manifestazioni con rinnovato slancio, finché il 7 novembre il presidente ha
proclamato lo stato di emergenza e ha fatto caricare i manifestanti dalla
polizia.
Molti osservatori si domandano se Okruashvili agisca da solo o sia solo
l’interfaccia politica di un personaggio dal passato oscuro, l’oligarca
Badri Patarkatsishvili. Questi, negli anni Novanta, era in buoni rapporti
d’affari con Berezhovskij (l’oligarca russo nemico di Putin), per cui
difficilmente si può considerare come una longa manus del Cremlino. Però,
nei primi anni 2000, si fece proteggere dal governo di Shevardnadze, che
negò sempre la sua estradizione alla Russia: quindi è sempre stato nemico
politico di Saakashvili. Dopo la Rivoluzione Rosa, Patarkatsishvili non è
affatto caduto in disgrazia. Anzi, è diventato il presidente della
“confindustria” locale. E’ entrato apertamente in attrito con il presidente
georgiano solo nel 2006, proclamando la sua forte delusione per la mancata
realizzazione di un disegno riformatore decisivo in Georgia. Attualmente
Patarkatsishvili sta finanziando apertamente i partiti di opposizione,
promuovendo un suo disegno politico: abolizione del potere presidenziale,
indipendenza economica, restaurazione dell’integrità territoriale georgiana,
più autonomia della società civile, una politica estera bilanciata tra gli
interessi russi e quelli statunitensi.
Tuttavia è difficile considerare l’ondata di manifestazioni di questi giorni
(70.000 manifestanti solo nella giornata del 2 novembre) come un complotto
di un oligarca. Il disagio è diffuso nel paese perché le riforme economiche
liberali avviate da Saakashvili, benché abbiano generato una forte crescita
economica, non hanno ancora risollevato il tenore di vita del grosso della
popolazione. Il risultato della sua politica riformatrice è ancora di là da
vedere. E la tensione con la Russia contribuisce a creare incertezza e paura
anche nella popolazione. Il presidente della Rivoluzione Rosa, comunque, non
si sta comportando da tiranno. Lo stato di emergenza è ben presto rientrato,
anche per le forti pressioni diplomatiche esercitate da Stati Uniti e Unione
Europea. E Saakashvili ha fissato il prossimo calendario elettorale: il 5
gennaio si voterà per le presidenziali e verrà indetto un referendum per
decidere quando votare per le parlamentari. Finora il protagonista della
Rivoluzione Rosa è stato sostenuto dalla maggioranza assoluta del suo
popolo. Ora è deciso a rimettersi in gioco, con metodi democratici, per
evitare che la rivoluzione scoppi di nuovo.
Proprio oggi, però, il parlamento georgiano ha esteso lo stato di emergenza
fino al 22 novembre. Il voto ha sbalordito tutti poiché la calma era tornata
per le strade di Tbilisi. Ma la crisi, evidentemente, non è ancora
rientrata.
(c)
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