Ankara-Baghdad, il fragile accordo sul Kurdistan iracheno
di Alessandro Marrone
[24 ott 07]

I governi di Ankara e Baghdad sembrano aver trovato un accordo quando sembrava ormai prossima un’incursione militare turca nel Kurdistan iracheno. Domenica 21 ottobre almeno dodici soldati turchi sono stati uccisi in un agguato dai guerriglieri del Partito dei lavoratori curdi (Pkk), organizzato nella cittadina di Hakkari capoluogo delle provincia omonima a poche decine di chilometri dal confine con il Kurdistan iracheno. Il contrattacco turco avrebbe ucciso ventitre miliziani curdi, ma una nota dello Stato maggiore di Ankara ha riferito che otto suoi soldati risultano dispersi nella provincia di Hakkari. Pochi giorni prima, il 17 ottobre, il Parlamento turco ha ratificato quasi all’unanimità, 507 deputati su 526, l’autorizzazione data dal governo all’esercito per “l’adozione di ogni misura, incluse le operazioni oltre confine se necessarie, per porre fine all’esistenza di organizzazioni terroristiche nei paesi vicini”. Secondo l’International Herald Tribune del 22 ottobre, prima dell’ultimo attacco curdo “ufficiali turchi sottolineavano che l’autorizzazione non sarebbe stata immediatamente eseguita, e molti esperti in sicurezza affermavano che la risoluzione sarebbe stata usata principalmente come leva politica per premere sugli Stati Uniti ed i loro alleati iracheni per agire contro i militanti curdi”. La tensione è salita poi in modo repentino, e negli ultimi giorni l’aviazione turca ha bombardato oltre 60 villaggi curdi anche oltre confine uccidendo almeno trentadue miliziani, mentre 60mila soldati turchi sono pronti a entrare nel Kurdistan iracheno per eseguire i piani di incursione preparati già da settimane.

Da diversi mesi la Turchia accusa il governo di Baghdad e gli Stati Uniti di non fare abbastanza contro i terroristi del Pkk stanziati nel Kurdistan iracheno, e minacciano di agire con la forza nel nord dell’Iraq. Tale retrovia logistica ha infatti permesso al Pkk di rinnovare con una lunga serie di sanguinosi attentati una guerriglia che sembrava ormai sconfitta sul campo dall’esercito turco, e superata dalle aperture politiche del governo di Erdogan. Attacchi come quello dello scorso 30 settembre, che in un villaggio ad appena 25 chilometri dal confine iracheno ha ucciso tredici soldati turchi, hanno riportato indietro le lancette della storia. Di nuovo una folla di turchi ha manifestato davanti alla sede del Pkk ad Ankara e nelle altre principali città turche, mentre tutto il paese si è stretto attorno alle proprie forze armate ed ha invocato a gran voce un intervento militare. È significativo il fatto che una campagna per la raccolta di fondi intitolata “Sosteniamo gli eroi della lotta contro il terrorismo”, lanciata dall’allenatore della squadra nazionale di calcio Terim a favore delle famiglie dei soldati inviati al confine con l’Iraq, ha raccolto in una settimana circa 45 milioni di euro. Come nota il Financial Times del 22 ottobre, “l’attacco è stato uno dei peggiori degli ultimi anni” e i militari e l’opinione pubblica chiedono al primo ministro di inviare l’esercito oltre il confine con l’Iraq.

Secondo l’Associated Press il presidente dell’Iraq Talabani, anch’egli di etnia curda, si è appellato il 21 ottobre al Pkk affinché interrompa gli attacchi e diventi una forza politica come le altre. Il presidente ha aggiunto che se il Pkk vuole continuare la sua lotta armata deve lasciare il Kurdistan iracheno e non crearvi più problemi. Lo stesso Talabani ha però riconosciuto che le forze irachene possono fare ben poco contro i ribelli del Pkk, ed ha messo in guardia sul fatto che persino l’efficiente esercito turco avrebbe difficoltà nel Kurdistan iracheno: non solo perché le forze di sicurezza locali sono composte da curdi che difficilmente rivolgerebbero le armi contro i loro compatrioti più “agguerriti”, ma anche perché nelle città e sugli edifici pubblici della regione non sventola la bandiera dell’Iraq ma quella del (finora mai nato) Stato curdo. Si tratta insomma di una comunità coesa nella sua identità e nel suo autogoverno, che ha un atteggiamento ambiguo verso i guerriglieri del Pkk: nota in proposito l’International Herald Tribune del 21 ottobre che “i curdi del nord dell’Iraq non hanno partecipato alle attività dei gruppi ribelli dei curdi della Turchia, ma non hanno neanche fatto ricorso alla forza per cacciare quei ribelli”. Se i leader locali del Kurdistan iracheno non decideranno di fermare le frange più estremiste difficilmente potrà farlo il governo centrale.

La Turchia è consapevole di tale situazione, ed ha coscientemente deciso di fare pressione sugli iracheni e soprattutto sugli americani predisponendo il terreno legale e logistico per una vasta azione militare oltre confine, opzione che viene considerata come estrema ratio ma che non è affatto esclusa. Gli Stati Uniti dal canto loro hanno finora dissuaso la Turchia dall’attaccare l’unica regione irachena relativamente tranquilla, ma l’influenza americana è stata duramente indebolita dalla risoluzione non vincolante approvata dal Commissione esteri della Camera dei rappresentanti statunitense che condanna il genocidio turco degli armeni avvenuto tra il 1915 ed il 1923. Tale risoluzione, voluta dai democratici, ha sollevato unanimi e dure proteste in Turchia, tanto nelle piazze che nel Parlamento, ha dato fuoco al nazionalismo turco e aumentato la diffidenza verso gli americani. Anche Gran Bretagna, Germania, Italia ed il responsabile della Pesd Solana hanno messo in guardia Ankara dal compiere incursioni in Kurdistan, ma anche l’Europa al pari degli Stati Uniti si è messa nella posizione peggiore per dare consigli alla Turchia: il negoziato di adesione è in stallo da mesi, e il Parlamento francese ha preceduto quello americano nel votare una risoluzione sul genocidio armeno che sembra fatta apposta per esacerbare i sentimenti nazionalisti e anti-occidentali già forti nell’opinione pubblica turca.

Dopo che le tensioni hanno raggiunto un livello molto pericoloso, e che Washington si è mossa con molta determinazione per una soluzione pacifica della crisi, sembra che Turchia e Iraq abbiano trovato un accordo. Il sito della Bbc ha annunciato il 23 ottobre che i governi dei due paesi “hanno raggiunto un accordo per affrontare insieme il problema dei ribelli curdi del Pkk nel nord dell’Iraq”. Il ministro degli Esteri turco Babacan ha affermato che “Ankara darà la priorità ai mezzi diplomatici per risolvere la crisi”, e che non si vogliono “sacrificare le relazioni culturali ed economiche con l’Iraq”. Sempre secondo la Bbc, il ministro degli Esteri iracheno Zebari ha affermato che il suo paese vuole aiutare attivamente la Turchia contro la minaccia del Pkk, e che i due paesi “adotteranno una posizione comune per combattere il terrorismo ovunque, e che non permetteremo a nessun partito o gruppo, incluso il Pkk, di avvelenare le nostre relazioni bilaterali”.

Per questa volta sembra dunque che un’invasione turca dell’Iraq sia stata scongiurata, ma il premier Erdogan ha già ammonito che la Turchia “non può aspettare per sempre, e può usare la forza contro il Pkk in qualsiasi momento”. Se le autorità di Ankara, Baghdad e soprattutto del Kurdistan iracheno falliranno nel fermare i guerriglieri curdi le conseguenze saranno tanto imprevedibili quanto pericolose. E non solo per l’Iraq. 


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