I silogarchi alla corte di Putin
di Stefano Grazioli
[31 ott 07]

Una volta al Cremlino c’erano gli oligarchi. Erano i tempi di Boris Eltsin. Un gruppo ristretto di uomini d’affari, i magnifici sette, governava alle spalle del presidente russo, badando piú al proprio profitto che non a quello del paese. Per perpetuare il loro potere, i robber barons usciti trionfatori dal primo decennio del turbo-capitalismo postcomunista, scelsero Vladimir Putin come custode dei loro tesori. Alcuni di loro credevano di poter fare con lui il bello e cattivo tempo in economia e politica come quando a Mosca regnava, piú di nome che di fatto, tra problemi di cuore e di alcool, il vecchio Corvo Bianco. Ma fecero i conti, appunto, senza l’oste. Il patto tra Putin e gli oligarchi, (“Io mi occupo di politica, voi degli affari, senza mettere il naso dalle mie parti”) non fu rispettato da certi, che preferirono farsi spedire in Siberia (Khodorkovski) o rassegnarsi all’autoesilio (Berezovski, Gussinski), che mollare l’osso.

Fu cosí che al Cremlino e dintorni spuntarono i siloviki. Gli uomini di potere, dell’apparato, cooptati da Vladimir Vladimirovic tra le conoscenze fidate del suo passato, quello del Kgb. Il mezzo piú sicuro per tenere saldamente le redini e riportare ordine dopo l’anarchia eltsiniana: una questione pratica, non tanto una missione ideologica. Gli oligarchi superstiti e piú accondiscendenti (“Perché volersi occupare direttamente di politica? Ci basta continuare a riempire le nostre casse”, Potanin, Aven, Friedman e gli altri) si trassero un po’ da parte, lasciando la gestione del potere alla squadra del nuovo zar. Ora, dopo quasi otto anni di presidenza Putin, anche i siloviki non sono piú gli stessi. Al Cremlino adesso ci sono i silogarchi. Possono forse cosí essere definiti, con un azzardato neologismo, gli uomini che governano la Russia. Costituiscono l’architrave sulla quale si regge il sistema Putin e rappresentano le diverse facce di una stessa medaglia.

Il comune denominatore dei “pietroburghesi”, la maggior parte di loro proviene infatti dalla ex Leningrado, dove Putin inizió la sua carriera politica come vice del sindaco Sobchack, è proprio la lealtà al presidente. Si possono distinguere in base ai legami, piú o meno diretti, con i vari settori dell’economia, dell’industria, della finanza o dell’amministrazione: ci sono i silogarchi del gas (Medvedev, Miller, la Matvienko), quelli del petrolio (Sechin, Fradkov, Narishkin, V. Ivanov), delle telecomunicazioni (Reiman), i finanzieri (Kovalchuk, Kogan, Kostin, Dmitriev), gli industriali (Yakunin, Chemesov, Cherkesov, Poltavchenko, Kirienko), dei servizi (Patrushev, Grislov). Senza dimenticare le vecchie volpi come Chubais o i nomi piú conosciuti come Deripaska o Abramovic. Tanto per citarne solo alcuni. Tra di loro ci sono quelli che sono piú oligarchi alla vecchia maniera, (gli ultimi due, ad esempio) e quelli invece che da buoni “pietroburghesi” (da S. Ivanov a Medvedev) sono davvero legati con doppio filo a Putin.

I silogarchi hanno in mano le leve dell’economia russa, attraverso le grandi aziende statali, da Gazprom a Rosneft, a Rosoboronexport. Con loro l’economia, non solo quella parte legata all’energia, è cresciuta a grandi passi, con loro i grandi gruppi occidentali sono abituati a fare affari e la lista di chi vuole entrare nel mercato ex sovietico è lunga e non si è certo accorciata dopo il caso Khodorkovski. Ultimo esempio la Total che ha bussato alla porta di Gazprom. Con i silogarchi al Cremlino anche il russo medio ci ha guadagnato. Ecco perché il sistema Putin sará prolungato nei prossimi anni, anche se avrá bisogno di qualche assestamento, tra le luci e le ombre odierne.

 


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