Tutti pazzi per il Belpaese
di Domenico Naso
[ 09 ott 07]

Altro che American Dream! Sulle rive dell’Hudson è l’Italia a dettare i ritmi della moda e delle abitudini (soprattutto culinarie) dei newyorkesi. La Grande Mela è letteralmente pazza del Bel Paese: ad ogni angolo di strada una pizzeria (magari gestita da sudamericani o asiatici) si vanta di usare solo ingredienti italiani; lungo la Fifth Avenue i negozi più belli (e affollati) sono quelli delle grandi griffe del made in Italy. E poi pasta in grandi quantità sui tavoli dei ristoranti, espresso italiano venduto a un prezzo di gran lunga più alto rispetto a quello del petrolio, persino la tanto vituperata musica italiana riecheggia all’interno di grattacieli e palazzi famosi. Per non parlare, poi, di una nota acqua minerale che ormai ha scalzato le più blasonate rivali francesi dopo essere stata immortalata nel fashion cult “Il Diavolo veste Prada”. E’ tutta una folle corsa al made in Italy che colpisce e fa piacere al turista italiano arrivato fin qui inseguendo l’American way of life. Finalmente quando incontrano un italiano i newyorkesi non dicono più “Mafia” ma “Armani, Prada, Bocelli e Ferrari”. E’ il segno che il Ventesimo secolo è ormai archiviato, e non solo sui calendari.

Il paradosso, tuttavia, è che proprio i pochi italoamericani rimasti a Little Italy sembrano i più legati al passato. I negozi di souvenir di Mulberry Street, stretti nell’ormai letale morsa di una Chinatown in arrembante espansione, sfoggiano magliette inneggianti al Padrino di Mario Puzo e Francis Ford Coppola o ai gangster (purtroppo non cinematografici) del tempo che fu. E poi magneti, portachiavi, le caratteristiche plates (l’equivalente delle nostre targhe automobolistiche): tutto griffato “mafia”, quasi a simboleggiare un legame non ancora reciso con le pittoresche ma funeste caratteristiche degli immigrati italiani nella Grande Mela di inizio Novecento. Ma si tratta di residuali e insignificanti, pur se fastidiosi, rimasugli di un passato che non c’è più. Come non c’è più, però, lo spirito vivace di Little Italy. I discendenti dei nostri connazionali vivono ormai a Brooklyn o nel New Jersey e la zona di Manhattan che va da Mulberry Street ad Elizabeth Street è ormai simile a quei villaggi fantasma tipici del Far West. Qualcuno tenta di mantenere in vita un briciolo di tradizione italiana, come il signor Arturo, arzillo ottantacinquenne di Potenza che non vede l’ora di metterci al corrente dei preparativi per l’imminente processione di San Rocco per le vie del quartiere.

Nello Stato di New York vivono ancora oggi più di due milioni di italoamericani, ormai perfettamente inseriti nel tessuto sociale locale. E’ proprio questa la differenza rispetto alla comunità cinese che ha fatto scomparire Little Italy a vantaggio di Chinatown. Gli italiani non si sono chiusi a riccio all’interno del loro gruppo nazionale, si sono mischiati alle altre etnie, alle altre innumerevoli culture del melting pot a stelle e strisce. I cinesi, al contrario, rimangono ancorati alla loro idea di gruppo chiuso e impermeabile, il che permette di mantenere pressoché intatto il bagaglio culturale di un gruppo che si espande, cresce, si moltiplica e “occupa” zone prima appartenenti alle comunità di immigrati provenienti dal Vecchio Continente. Fa un po’ tristezza vedere le strade che un tempo videro crescere italoamericani famosi come Martin Scorsese (nato e cresciuto a Elizabeth Street) ormai impregnate di uno spirito cinese che poco ha a che spartire con la nostra cultura. Ma anche questo è il segno dei tempi. Forse gli italoamericani hanno dovuto rinunciare alla loro pittoresca presenza a vantaggio del crollo definitivo dei vecchi e fastidiosi stereotipi. E ad essere sinceri va bene così. Non siamo più i paladini della Mafia ma del buongusto e del saper vivere.


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