L'American dream corre sul taxi
di Domenico Naso
[14 set 07]

Sui taxi di New York scorre la vita della metropoli. Ma con un ritmo assai diverso dal resto dell’ambiente circostante. Salire su un taxi e chiudere la portiera isola, ovatta, culla e istruisce. Le yellow cabs sono piccole isole in movimento nel mare della Grande Mela. L’immaginario collettivo ci ha sempre presentato il tassista newyorkese quasi come un “saggio”, un uomo che ne ha viste talmente tante che non ha problemi a dispensare consigli e vaticini al cliente di turno. Non è un cliché infondato. Chiacchierare con un taxi driver è un’esperienza da non perdere, perché questi uomini conoscono ogni angolo di una città grandissima e piena di storie assurde e quasi inverosimili. Il tassista, si sa, è ciarliero per antonomasia a qualsiasi latitudine. Ma in nessun altro posto al mondo i guidatori di taxi formano un così variegato e splendido affresco multietnico, diventando così il simbolo più evidente del melting pot a stelle e strisce. Pakistani, indiani, maghrebini o dell’Africa subsahariana che siano, ognuno di loro racconta una storia, un viaggio lungo e tortuoso che arriva dritto al cuore del sogno americano. E questo catalogo affascinante di varia umanità è composto idealmente dalle tessere di riconoscimento attaccate al vetro che divide guidatore e passeggeri. Si susseguono nomi impronunciabili apparentemente distanti tra loro eppure accomunati da quella piccola repubblica indipendente che è il loro taxi.

E poi le chiacchiere, i discorsi su quanto è difficile ma al tempo stesso affascinante vivere a New York, le loro odissee prima di arrivare nella terra delle opportunità. C’è chi arriva dallo Sri Lanka e si commuove parlando dei figli ancora a Colombo; oppure c’è Muhammad, un giovane pakistano che in un inglese incerto ti racconta il suo orgoglio di avere un lavoro onesto e gratificante negli Stati Uniti, paese che considera amico e straordinario, fregandosene dei cupi scenari di politica internazionale. Pochi gli europei, come Laszlo, quarantenne ungherese che ha nostalgia dell’Europa e che si lancia in un discorso un po’ superficiale sull’antiamericanismo italiano: “Metà fascisti e metà comunisti, ecco perché odiate gli Usa”. Proviamo a controbattere, a dire che non è così, che l’Italia non è solo terra di estremismi. E’ quasi grottesco spiegarlo ad un cittadino di uno Stato che per decenni è stato parte integrante della mortifera galassia del socialismo reale. Ma poi ci si accorge che per lui la democrazia è una conquista recente e forse per questo apprezza più degli italiani gli Stati Uniti d’America e quello che rappresentano. Poi scendiamo dal taxi e ci immergiamo nelle mille luci di Times Square, mentre una miriade di api gialle ronzano attorno a noi festose e orgogliose di essere un simbolo multietnico e globale della città che non dorme mai.

 


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