La via francese alla soluzione della crisi iraniana
di Alessandro Marrone
[25 set 07]

Ha destato scalpore l’invito della Columbia University di New York ad Ahmadinejad al “World Leaders Forum”, convegno che mette a confronto gli studenti e i presidenti di una decina di Stati del mondo. Negli stessi giorni, infatti, a Teheran sfilavano i nuovi missili Qadr in grado di colpire Israele. Ma nell’ultimo periodo le novità più rilevanti per l’Iran non sono venute dall’America, bensì dalla Francia. “Dobbiamo prepararci per il peggio, ed il peggio potrebbe essere la guerra”. Queste parole non sono state pronunciate da un neo-con americano, ma un socialista francese. Precisamente da Bernard Kouchner, scelto da Sarkozy come ministro degli Esteri della Francia. Il regime iraniano ha risposto alle parole di Kouchner semplicemente sostituendo il termine “francesi” a quello “americani” nei suoi consueti comunicati stampa che bollano il nemico di turno come guerrafondaio, crociato, Satana, ecc. Il mondo anglosassone ha reagito con soddisfazione alla nuova posizione di Parigi, mentre nell’Europa continentale si è aperto un acceso dibattito. Tanto che Kouchner ha subito precisato, come riporta l’International Herald Tribune (IHT) del 18 settembre, che “la peggiore situazione potrebbe essere la guerra, e per evitare il peggio la posizione francese è molto chiara: negoziare, negoziare, negoziare. E lavorare con i nostri amici europei su sanzioni credibili”.

L’importanza della nuova posizione francese infatti riguarda soprattutto il tema delle sanzioni. Al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, negli ultimi anni, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno sempre fatto pressione per introdurre sanzioni molto dure nei confronti di Teheran, mentre la Russia e in misura minore la Cina hanno sempre frenato. La Francia di Chirac era tendenzialmente più vicina a Mosca che all’Atlantico, mentre ora sotto la guida del tandem Sarkozy-Kouchner appoggia la proposta anglo-americana per una terza risoluzione che imponga sanzioni più dure ed efficaci soprattutto nel campo finanziario. Considerato lo stallo al Palazzo di vetro dovuto alla forte resistenza russa, per la prima volta Parigi ha lanciato l’idea di ignorare l’Onu sul tema delle sanzioni. Come spiega il Financial Times del 18 Settembre, “se gli sviluppi per una nuova risoluzione fallissero, la Francia crede che gli Stati dell’Unione Europea dovrebbero agire fuori dall’ambito Onu”. Che non si tratti di un fuoco di paglia lo dimostra il fatto che Kouchner ha ribadito ufficialmente la proposta francese durante una visita a Mosca, quando nella conferenza stampa di fronte al pietrificato ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha affermato: “Contrariamente al mio amico Sergei, io credo che sia necessario lavorare a precise sanzioni per dimostrare che facciamo sul serio, e se non ci sarà la risoluzione Onu probabilmente dovremo adottarle noi”.

Acquisito l’appoggio inglese, contatti in tal senso sono già stati avviati da Parigi con il governo tedesco, che non ha commentato ufficialmente le parole di Kouchner sulla guerra ma non ha neanche preso la distanze, ed anzi ha ufficiosamente fatto trapelare il suo cauto appoggio alla nuova linea francese. Sarkozy e Merkel hanno infatti operato una netta rottura con l’antiamericanismo dei loro predecessori, e ritengono che l’Europa possa agire più efficacemente sui grandi temi dell’agenda mondiale se dialoga e coopera con l’America. Come commenta il Financial Times del 18 settembre, “l’inasprimento della posizione francese sull’Iran riflette il desiderio di Sarkozy di esercitare un ruolo più forte sul piano internazionale e una funzione di guida in Europa, riavvicinandosi contemporaneamente agli Stati Uniti”. Non è un caso che nelle stesse settimane il ministro della Difesa Morin abbia aperto il dibattito su un tema finora tabù a Parigi: il pieno reintegro della Francia nel dispositivo militare Nato, dal quale De Gaulle l’aveva fatta uscire nel 1966 rimanendo solo nel Consiglio politico. Tempi e modi di tale processo sono ancora incerti, ma se fosse portato a termine avrebbe una grande importanza simbolica, oltre che sostanziale, nel rafforzare coesione e capacità di azione del fronte transatlantico.

Mentre i grandi paesi europei si muovono realisticamente per cercare una linea di azione comune, spicca il provincialismo del ministro D’Alema, e di molti giornali italiani, che hanno fermato la loro analisi della posizione francese alla sola lettura della parola “guerra”, e hanno quindi automaticamente dato fiato alla retorica pacifista allineandosi dietro l’ovvietà che “la guerra non è una soluzione”. È chiaro che la Francia, come tutti sull’Atlantico, non vuole una guerra con l’Iran, ma il conflitto è una eventualità che va presa in considerazione di fronte al rischio di un Iran dotato di armi atomiche, va posta sul tavolo negoziale con l’Iran per esercitare maggiore pressione, e può essere evitata solo da misure realmente efficaci. Proprio sull’efficacia delle diverse strategie si è aperto un dibattito all’interno dell’Amministrazione americana. L’ala che fa capo al segretario di Stato Rice è favorevole anche a colloqui diretti con i diplomatici iraniani, sperando in un cambio della linea di Teheran. Il gruppo di falchi guidati dal vice presidente Cheney vorrebbe invece il completo isolamento dell’Iran, ed ha proposto di includere l’intera Guardia Rivoluzionaria iraniana nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, cui l’America applica sanzioni finanziarie ed altre misure di controterrorismo. Il problema è complesso perché, oltre al programma nucleare, preoccupa il sostegno dell’Iran alle milizie radicali sciite in Iraq, Afghanistan, Libano e Gaza. Tanto che, come riporta l’Internatioal Herald Tribune del 17 settembre, “i militari americani in Iraq trattengono ancora in prigione diversi funzionari iraniani accusati di fornire aiuti alle milizie sciite”.

  In questo contesto si rincorrono le voci di un’incursione aerea americana contro gli impianti nucleari iraniani, specie dopo quella compiuta di recente dall’aviazione israeliana contro le istallazioni siriane e perfettamente riuscita. Prima di decidere un attacco contro l’Iran andrebbe però considerata con attenzione la situazione interna al regime di Teheran. Poche settimane fa è stato eletto alla guida del Consiglio degli esperti, organo in grado di censurare l’operato del supremo ayatollah Kamenei, il moderato Rafsanjani, che sfidò al ballottaggio per le presidenziali del 2005 proprio Ahmadinejad. È questa una dura sconfitta per il fronte radicale del presidente, in costante calo di popolarità tra gli iraniani. Un altro segnale importante è la ripresa quest’estate, dopo anni di sospensione, delle fustigazioni in piazza dei colpevoli di reati contro il costume, come il consumo di alcool o il sesso fuori dal matrimonio. Esso testimonia come il regime ultra-conservatore debba ricorrere al pugno di ferro contro una società in cui diminuisce sempre più il consenso verso il suo impianto repressivo, specie tra i giovani sempre più insofferenti verso divieti anacronistici. In questo momento è possibile in Iran un’alleanza di convenienza tra i conservatori pragmatici di Rafsanjani e i giovani riformisti, che potrebbe portare nei prossimi anni un cambio di leadership e di linea del vertice del paese. Un’azione di forza da parte occidentale la renderebbe politicamente impossibile, ricompattando sotto la bandiera del nazionalismo tutto il paese dietro Ahmadinejad e il suo establishment ultra-conservatore. È dunque il momento per Europa e Stati Uniti di dimostrare la loro abilità sul piano internazionale, perché mantenere una strategia ferma volta ad impedire un Iran con l’atomica non vuol dire adottare una tattica dura quanto sbagliata.  


(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006