Il movimento
non fa sconti. “Chiediamo a Prodi quello che chiedevamo a
Berlusconi. Per noi non cambia nulla”: è questo il refrain che ha
accompagnato il Gay Pride nazionale del 16 giugno scorso. Ed è un
refrain motivato da un cambiamento storico, quasi epocale, del
movimento omosessuale. La piazza di San Giovanni non era soltanto di
sinistra: per la prima volta, infatti, migliaia di gay e lesbiche di
centrodestra, fino ad oggi ai margini del movimento per scelta o per
necessità, si sono esposti, chiedendo finalmente uno spazio di
rappresentanza sempre negato. Se ne sono accorti anche i leader
storici del movimento, che adesso parlano meno di “collateralismo
alla sinistra” e pongono l’accento sugli obiettivi politici più
generali. In piazza c’erano i Riformatori Liberali di Taradash e
Della Vedova, c’era Alessandro Cecchi Paone, c’erano migliaia di
giovani che si sentono di centrodestra e per la prima volta non
hanno paura di ammetterlo pubblicamente, anche a costo di irritare
la classe politica da cui si sentono bene o male rappresentati. È un
duro colpo ai teorici dell’equazione diritti civili/sinistra,
confermato anche dalla tiepida reazione all’evento del governo
dell’Unione. Erano 500.000; forse di meno, forse di più. Ma c’erano.
Gay, lesbiche, bisessuali e transessuali italiani hanno
letteralmente invaso Roma al grido di “Parità, dignità, laicità”.
Dalla Piramide Cestia a San Giovanni in Laterano, quaranta carri in
rappresentanza di tutte le realtà del mondo omosessuale hanno
formato il colorato e chiassoso serpentone del Pride nazionale. In
strada c’è un’umanità varia: da discinti transessuali (per la verità
meno degli anni scorsi) a famiglie “tradizionali”, da variopinte
drag queens a bambini figli di coppie omosessuali. E poi musica,
balli, canti, voglia di esternare la propria sessualità senza remore
o paure.È una manifestazione politica, non c’è dubbio, e gli
organizzatori non hanno la minima intenzione di negarlo.
Il Gay Pride, ormai giunto alla quattordicesima edizione nel nostro paese, ha origini antiche: nasce, infatti, come commemorazione della rivolta dello Stonewall, noto locale di New York che fu teatro degli scontri tra omosessuali e polizia il 28 giugno 1969. Fu l’inizio della visibilità, la fine dello “sguardo ferito” di chi era costretto a nascondere le proprie inclinazioni sessuali all’interno di bar e discoteche più simili a bunker che a luoghi di divertimento e svago. Da Stonewall ad oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata davvero tanta e il Pride di Roma ne è significativa testimonianza. L’evento di sabato scorso aveva assunto un significato particolare: prima i DiCo proposti dal governo, poi la ribellione dei teodem del centrosinistra, fino a giungere al Family Day, manifestazione che poco tempo fa aveva riempito proprio piazza San Giovanni in Laterano, al grido di “Difendiamo la famiglia”. Ma una delle cause scatenanti più importanti è stata la mole di dichiarazioni delle gerarchie ecclesiastiche contro qualsivoglia progetto di riconoscimento dei diritti alle persone omosessuali. Da questo tumultuoso background non poteva che nascere una parata allegra ma rabbiosa, spensierata ma indignata. E se durante il percorso quest’indignazione si era manifestata solo con qualche striscione irridente nei confronti di Chiesa e politica, la rabbia vera si è materializzata sul palco di piazza San Giovanni, con interventi al vetriolo da parte dei leader del movimento Glbt (acronimo che racchiude gay, lesbiche, bisessuali e transessuali). La prima notizia di un certo rilievo è che i gay italiani dei DiCo non sanno che farsene. Hanno alzato il tiro e vogliono il matrimonio alla spagnola: lo comunica con fervore e fermezza Aurelio Mancuso, presidente dell’Arcigay nazionale. E giù la piazza dagli applausi. La nuova parola d’ordine è: “Non si tratta più con il governo”.
Tasto dolente, quello del governo. La piazza di San Giovanni in Laterano sembra non apprezzare più l’esecutivo di Prodi. Il Professore è più volte oggetto di cori ironici durante la parata e sul palco ci pensa Imma Battaglia, leader storico del movimento e organizzatrice del World Pride del 2000, a sferrare il doloroso pugno finale. “Prodi, dove sei?”, e poi via a una serie di offese, per la verità anche piuttosto volgari, nei confronti del presidente del Consiglio. Ma non va meglio al Vaticano. Obiettivi preferiti: Ratzinger e Bagnasco, rei, secondo i gay italiani, di influenzare le scelte della politica e di mettere in pericolo, dunque, la laicità dello Stato. Sono in tanti a parlare sul palco, a testimonianza di un mondo omosessuale composito e plurale. Ma la chiusura è affidata a Vladimir Luxuria, osannata dalla piazza e fortemente critica nei confronti di chi si ostina a non capire la “normalità” delle persone omosessuali che “sanno benissimo cos’è la famiglia, visto che provengono, come tutti gli altri, da una famiglia tradizionale”. Peccato, però, che Rifondazione Comunista abbia dimostrato poco attaccamento al riconoscimento dei diritti alle persone omosessuali, sacrificando i DiCo sull’altare della stabilità di governo. “Parità, dignità, laicità”, dunque: questi gli obiettivi a lungo termine di un movimento omosessuale che non si nasconde più e non ha la minima intenzione di tornare nella clandestinità.
(c)
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