Scuola, c'è bisogno di disciplina per superare il '68
di Valentina Aprea
[28 mag 07]


La recente campagna elettorale per l’elezione del presidente della Repubblica francese ha riservato non poche sorprese per l’esito finale, non certamente scontato per Sarkozy, ma soprattutto per le grandi questioni politiche e sociali affrontate. Non vi è dubbio, in ogni caso, che per chi si occupa di educazione e di scuola, le provocazioni di Sarkozy, che stanno diventando in questi giorni azioni di governo, relative ad una maggiore disciplina nelle classi per riaffermare l’autorità nel rapporto tra docenti ed alunni, siano state delle vere novità. Per troppo tempo – esattamente a partire dal ‘68 – ci siamo abituati, infatti, a tener fuori dalle impostazioni pedagogiche quelle parole che attraverso l’autorità e la disciplina rimandano al rigore e alla severità degli studi, al riconoscimento del merito, insomma, a ciò che nella pedagogia tradizionale veniva indicato più semplicemente con le efficaci parole “premi e castighi”. Che l’era Sarkozy si annunci anche con l’intento di superare definitivamente le derive sessantottine in educazione, è davvero una buona notizia. La nuova educazione europea post sessantottina può ripartire, dunque, dal rispetto per l’insegnante e per il suo ruolo e, quindi, dal ripristino di quelle formalità che in questi casi diventano sostanza. E nella nostra scuola cosa succede? Siamo sicuri che gli studenti delle superiori si rivolgano con il “lei” ai docenti e si alzino in piedi al loro ingresso? Non possiamo escludere che in qualche scuola gli studenti si comportino così, ma giudicherei assolutamente prioritario indicare questi “buoni e sani comportamenti” nello statuto delle studentesse e degli studenti. Al contrario, da noi quello statuto è diventato lo strumento di tutela corporativa per eccellenza degli studenti e ha limitato le sanzioni anche per comportamenti molto trasgressivi.

Lavorando alla Riforma degli ordinamenti nella scorsa legislatura, d’altra parte, avevamo già anticipato il problema e avanzato alcune proposte concrete per risolverlo. Il problema generale rimandava, anzitutto, proprio al tema educativo dell’autorità. Seguendo una ricca tradizione pedagogica italiana che ha avuto picchi esemplari nel Risorgimento (da Capponi a Lambruschini) abbiamo tentato di recuperare il nesso strutturale tra libertà e autorità. Non è possibile, infatti, avanzare qualsiasi discorso credibile sull’autorità, soprattutto se non si vuole far decadere questo valore nel disvalore dell’autoritarismo, senza allargare per ciascuno, in particolare nell’istituzione scuola, si tratti di studenti o docenti o genitori, gli spazi della libertà. Che poi vuol anche dire gli spazi della propria responsabilità: scegliere ma sapendo che le conseguenze di una scelta implicano un impegno e una rendicontazione da parte di chi la compie. Per questo avevamo introdotto in un sistema organizzativo scolastico come il nostro, bloccato dalla rigidità e dall’uniformità, molti spazi di libertà: scelta delle discipline opzionali obbligatorie e facoltative del piano degli studi; scelta di percorsi formativi diversi (di istruzione liceale e di istruzione e formazione professionale) per giungere a far maturare il medesimo Profilo educativo, culturale e professionale dello studente come persona a 18 anni; scelta delle ore aggiuntive a quelle obbligatorie; scelta di gruppi di livello, di compito ed elettivi per rompere l’idea burocratica della classe; scelta da parte dei docenti degli obiettivi formativi collegati agli obiettivi specifici di apprendimento nazionali; scelta di percorsi formativi in alternanza scuola lavoro; scelta degli studenti e delle famiglie dei materiali da inserire nel Portfolio delle competenze e che i docenti avrebbero poi dovuto certificare; scelta tra i docenti del docente tutor; scelta tra scuole pubbliche statali e non statali.

Il problema così impostato aveva un’immediata ricaduta culturale ed educativa. Contro le tendenze maturate negli ultimi vent’anni del secolo scorso, si trattava, infatti, di recuperare nei comportamenti educativi di tutti gli attori della scuola il principio dell’inseparabilità tra logica ed etica, tra conoscenza ed azione, tra studio e comportamento. In nome del principio di questa inseparabilità, ad esempio, avevamo correlato il profitto degli studenti con il loro comportamento (la tradizionale condotta). Non a caso avevamo introdotto la valutazione del comportamento degli alunni sia nella legge n. 53/03 sia a maggior ragione nei decreti attuativi, e avevamo disposto che tale valutazione facesse media con tutti gli altri giudizi o voti. Si era deciso tutto questo soprattutto per tre ordini di ragioni, già ben precisate agli Stati generali del dicembre 2001, che hanno poi innervato i successivi interventi normativi. La prima, culturale, era che, dai filosofi greci fino a Gentile, Husserl, Heidegger e a tutti i grandi del Novecento, nessuno ha potuto negare l’unità inscindibile di logica ed etica: non esiste conoscenza umana possibile (a meno che sia mera comunicazione informatica: ma è umana, questa?) che non implichi sempre, allo stesso tempo, una responsabilità, un giudizio, un impegno, un coinvolgimento personale; e viceversa. Distinguere, in questo senso, tra istruzione ed educazione, tra conoscenze e valori, tra profitto e condotta, tra titoli professionali formali e azione professionale come si è fatto spesso in questi ultimi anni, può essere un buon esercizio di logica analitica, ma è impossibile nella realtà intrinseca delle vicende umane. 

La seconda ragione, pedagogica, era che, per educare, bisogna ritornare a riflettere insieme, docenti, studenti, genitori, attori sociali, sul ruolo dell’autorità e della libertà nei comportamenti personali e in quelli implicati dalle relazioni interpersonali. L’autorità non è autoritarismo e la libertà non è permissivismo. Soprattutto la scuola dell’autonomia, quella che si dà norme da sola e che agisce in base ad esse, non può fare a meno di tematizzare in maniera sempre più profonda questa antinomia e soprattutto non può non praticarla ogni giorno. Se la evacua, rischia la degenerazione nell’anarchia e nel nichilismo. Assumerla con la consapevolezza dei rischi e delle contraddizioni che la possono accompagnare è già un modo per comporla in maniera positiva. Il voto di condotta è uno degli strumenti utili a questo scopo. La terza ragione aveva a che fare con un sondaggio che il governo Berlusconi aveva promosso attraverso l’Istat, per conoscere il punto di vista di docenti genitori, studenti su quelli che sarebbero stati i cambiamenti introdotti dalla Riforma Moratti. In quell’occasione, fra ottobre e novembre del 2001 l’Istat, interpellando un campione di 3445 docenti delle scuole di ogni ordine e grado, di 1791 studenti delle scuole secondarie e di 4071 genitori, aveva scoperto che il comportamento e la responsabilità degli studenti doveva essere oggetto di valutazione scolastica per il 97 per cento dei genitori, il 94 per cento dei docenti e l’89 per cento degli studenti e che doveva addirittura contare per una bocciatura per il 59,1 per cento dei docenti, per il 62,4 per cento degli studenti e per il 65,4 per cento dei genitori. L’inchiesta dell’Istat era stata commissionata per verificare se le ipotesi già messe a punto dal gruppo di lavoro per la riforma avessero o meno, e fino a che punto, consenso tra i diretti destinatari.

Del resto, che le famiglie siano ancora in sintonia con quanto noi avevano proposto nella scorsa legislatura (decisioni che il ministro Fioroni e la nuova maggioranza hanno invece rinnegato per mero calcolo politico) è confermato dal Rapporto 2006 della Fondazione per la Sussidiarietà. I dati ci dicono che sei famiglie su dieci ritengono l’educazione la prima emergenza italiana, danno della scuola una valutazione complessivamente negativa e si aspettano per i propri figli più istruzione di qualità, più libertà di scelta e più preparazione degli insegnanti, chiedono per i loro figli veri e propri “maestri”. Anche di fronte ai sempre più numerosi casi di bullismo, contrastati dal ministro solo a suon di verbosa retorica moralistico-politica e con iniziative tanto spettacolari quanto strutturalmente risibili, la nostra idea del “tutor” forse avrebbe dato risposte più concrete ed esaurienti.

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