La recente
campagna elettorale per l’elezione del presidente della Repubblica
francese ha riservato non poche sorprese per l’esito finale, non
certamente scontato per Sarkozy, ma soprattutto per le grandi
questioni politiche e sociali affrontate. Non vi è dubbio, in ogni
caso, che per chi si occupa di educazione e di scuola, le
provocazioni di Sarkozy, che stanno diventando in questi giorni
azioni di governo, relative ad una maggiore disciplina nelle classi
per riaffermare l’autorità nel rapporto tra docenti ed alunni, siano
state delle vere novità. Per troppo tempo – esattamente a partire
dal ‘68 – ci siamo abituati,
infatti, a tener fuori dalle impostazioni pedagogiche quelle parole
che attraverso l’autorità e la disciplina rimandano al rigore e alla
severità degli studi, al riconoscimento del merito, insomma, a ciò
che nella pedagogia tradizionale veniva indicato più semplicemente
con le efficaci parole “premi e castighi”. Che l’era Sarkozy si
annunci anche con l’intento di superare definitivamente le derive
sessantottine in educazione, è davvero una buona notizia. La nuova
educazione europea post sessantottina può ripartire, dunque, dal
rispetto per l’insegnante e per il suo ruolo e, quindi, dal
ripristino di quelle formalità che in questi casi diventano
sostanza. E nella nostra scuola cosa succede? Siamo sicuri che gli
studenti delle superiori si rivolgano con il “lei” ai docenti e si
alzino in piedi al loro ingresso? Non possiamo escludere che in
qualche scuola gli studenti si comportino così, ma giudicherei
assolutamente prioritario indicare questi “buoni e sani
comportamenti” nello statuto delle studentesse e degli studenti. Al
contrario, da noi quello statuto è diventato lo strumento di tutela
corporativa per eccellenza degli studenti e ha limitato le sanzioni
anche per comportamenti molto trasgressivi.
Lavorando alla Riforma degli ordinamenti nella scorsa
legislatura, d’altra parte, avevamo già anticipato il
problema e avanzato alcune proposte concrete per risolverlo.
Il problema generale rimandava, anzitutto, proprio al tema
educativo dell’autorità. Seguendo una ricca tradizione
pedagogica italiana che ha avuto picchi esemplari nel
Risorgimento (da Capponi a Lambruschini) abbiamo tentato di
recuperare il nesso strutturale tra libertà e autorità. Non
è possibile, infatti, avanzare qualsiasi discorso credibile
sull’autorità, soprattutto se non si vuole far decadere
questo valore nel disvalore dell’autoritarismo, senza
allargare per ciascuno, in particolare nell’istituzione
scuola, si tratti di studenti o docenti o genitori, gli
spazi della libertà. Che poi vuol anche dire gli spazi della
propria responsabilità: scegliere ma sapendo che le
conseguenze di una scelta implicano un impegno e una
rendicontazione da parte di chi la compie. Per questo
avevamo introdotto in un sistema organizzativo scolastico
come il nostro, bloccato dalla rigidità e dall’uniformità,
molti spazi di libertà: scelta delle discipline opzionali
obbligatorie e facoltative del piano degli studi; scelta di
percorsi formativi diversi (di istruzione liceale e di
istruzione e formazione professionale) per giungere a far
maturare il medesimo Profilo educativo, culturale e
professionale dello studente come persona a 18 anni; scelta
delle ore aggiuntive a quelle obbligatorie; scelta di gruppi
di livello, di compito ed elettivi per rompere l’idea
burocratica della classe; scelta da parte dei docenti degli
obiettivi formativi collegati agli obiettivi specifici di
apprendimento nazionali; scelta di percorsi formativi in
alternanza scuola lavoro; scelta degli studenti e delle
famiglie dei materiali da inserire nel Portfolio delle
competenze e che i docenti avrebbero poi dovuto certificare;
scelta tra i docenti del docente tutor; scelta tra scuole
pubbliche statali e non statali.
Il
problema così impostato aveva un’immediata ricaduta
culturale ed educativa. Contro le tendenze maturate negli
ultimi vent’anni del secolo scorso, si trattava, infatti, di
recuperare nei comportamenti educativi di tutti gli attori
della scuola il principio dell’inseparabilità tra logica ed
etica, tra conoscenza ed azione, tra studio e comportamento.
In nome del principio di questa inseparabilità, ad esempio,
avevamo correlato il profitto degli studenti con il loro
comportamento (la tradizionale condotta). Non a caso
avevamo introdotto la valutazione del comportamento degli
alunni sia nella legge n. 53/03 sia a maggior ragione nei
decreti attuativi, e avevamo disposto che tale valutazione
facesse media con tutti gli altri giudizi o voti. Si era
deciso tutto questo soprattutto per tre ordini di ragioni,
già ben precisate agli Stati generali del dicembre 2001, che
hanno poi innervato i successivi interventi normativi. La
prima, culturale, era che, dai filosofi greci fino a
Gentile, Husserl, Heidegger e a tutti i grandi del
Novecento, nessuno ha potuto negare l’unità inscindibile di
logica ed etica: non esiste conoscenza umana possibile (a
meno che sia mera comunicazione informatica: ma è umana,
questa?) che non implichi sempre, allo stesso tempo, una
responsabilità, un giudizio, un impegno, un coinvolgimento
personale; e viceversa. Distinguere, in questo senso, tra
istruzione ed educazione, tra conoscenze e valori, tra
profitto e condotta, tra titoli professionali formali e
azione professionale come si è fatto spesso in questi ultimi
anni, può essere un buon esercizio di logica analitica, ma è
impossibile nella realtà intrinseca delle vicende umane.
La
seconda ragione, pedagogica, era che, per educare, bisogna
ritornare a riflettere insieme, docenti, studenti, genitori,
attori sociali, sul ruolo dell’autorità e della libertà nei
comportamenti personali e in quelli implicati dalle
relazioni interpersonali. L’autorità non è autoritarismo e
la libertà non è permissivismo. Soprattutto la scuola
dell’autonomia, quella che si dà norme da sola e che agisce
in base ad esse, non può fare a meno di tematizzare in
maniera sempre più profonda questa antinomia e soprattutto
non può non praticarla ogni giorno. Se la evacua, rischia la
degenerazione nell’anarchia e nel nichilismo. Assumerla con
la consapevolezza dei rischi e delle contraddizioni che la
possono accompagnare è già un modo per comporla in maniera
positiva. Il voto di condotta è uno degli strumenti utili a
questo scopo. La terza ragione aveva a che fare con un
sondaggio che il governo Berlusconi aveva promosso
attraverso l’Istat, per conoscere il punto di vista di
docenti genitori, studenti su quelli che sarebbero stati i
cambiamenti introdotti dalla Riforma Moratti. In quell’occasione,
fra ottobre e novembre del 2001 l’Istat, interpellando un
campione di 3445 docenti delle scuole di ogni ordine e
grado, di 1791 studenti delle scuole secondarie e di 4071
genitori, aveva scoperto che il comportamento e la
responsabilità degli studenti doveva essere oggetto di
valutazione scolastica per il 97 per cento dei genitori, il
94 per cento dei docenti e l’89 per cento degli studenti e
che doveva addirittura contare per una bocciatura per il
59,1 per cento dei docenti, per il 62,4 per cento degli
studenti e per il 65,4 per cento dei genitori. L’inchiesta
dell’Istat era stata commissionata per verificare se le
ipotesi già messe a punto dal gruppo di lavoro per la
riforma avessero o meno, e fino a che punto, consenso tra i
diretti destinatari.
Del resto, che le famiglie siano ancora in sintonia con
quanto noi avevano proposto nella scorsa legislatura
(decisioni che il ministro Fioroni e la nuova maggioranza
hanno invece rinnegato per mero calcolo politico) è
confermato dal Rapporto 2006 della Fondazione per la
Sussidiarietà. I dati ci dicono che sei famiglie su dieci
ritengono l’educazione la prima emergenza italiana, danno
della scuola una valutazione complessivamente negativa e si
aspettano per i propri figli più istruzione di qualità, più
libertà di scelta e più preparazione degli insegnanti,
chiedono per i loro figli veri e propri “maestri”. Anche di
fronte ai sempre più numerosi casi di bullismo, contrastati
dal ministro solo a suon di verbosa retorica
moralistico-politica e con iniziative tanto spettacolari
quanto strutturalmente risibili, la nostra idea del “tutor”
forse avrebbe dato risposte più concrete ed esaurienti.
(c)
Ideazione.com (2006)
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