"La Cina mette in pericolo gli equilibri globali"
intervista a Carlo Pelanda di Elisa Borghi
[21 mag 07]


C’è un preciso momento, nella storia contemporanea delle relazioni internazionali, in cui la Cina passa dall’essere percepita come alleato strategico dell’Occidente nella guerra contro il terrorismo a diventare lei stessa il nemico numero uno delle democrazie. Un nemico più potente della jihad perché potenzialmente in grado di sovvertire l’ordine mondiale e creare un blocco di potere geoeconomico che detti le nuove regole del mercato e della convivenza tra le nazioni. Per scongiurare l’ascesa del Dragone e permettere all’Occidente di mantenere una posizione di dominio all’interno della comunità internazionale, Carlo Pelanda, editorialista, docente ed economista, nel suo ultimo libro “La grande alleanza. L’integrazione globale delle democrazie” edito da Franco Angeli, auspica appunto la creazione di una forte alleanza tra i paesi democratici. Una nuova costruzione politica all’interno della quale l’Europa è chiamata a riscoprire la propria vocazione imperialista. E gli Stati Uniti hanno una lezione da imparare.

Professor Pelanda, in un’intervista rilasciata ad Emporion all’indomani dell’11 settembre lei auspicava la creazione di una grande alleanza contro il fondamentalismo islamico in cui la Cina facesse fronte unico con l’Occidente. Quando Pechino passa dall’essere alleato all’essere nemico?
Quando si capisce che l’offensiva jihadista è pericolosa per i colpi che può infliggere ma non costituisce un pericolo sistemico. Nel 2001 sembrò che il grande califfato avesse una maggiore chance di realizzarsi in tempi storici non lunghissimi. Dieci, quindici anni al massimo. Allora i cinesi venivano considerati degli alleati importanti perché potevano fare quello che l’Occidente non poteva.

Ad esempio?
Condizionare il prezzo del petrolio.

Perché considera Pechino un pericolo maggiore della Jihad per le democrazie?
L’emergere della Cina è pericoloso per fatti oggettivi, di scala. Fatti che muovono le grandi dimensioni della storia. La Cina è più pericolosa dello jihadismo perché ha la capacità di modificare gli equilibri mondiali. Già oggi Pechino spacca l’America tra chi vuole mantenere il criterio finanziario di comando del pianeta e chi pragmaticamente sostiene che sia meglio riconoscere la realtà ed allearsi con i cinesi.

Quando si arriva a vedere con chiarezza questo pericolo?
Nel momento stesso in cui l’amministrazione Clinton regalava alla Cina l’accesso al mercato globale senza condizioni, il Pentagono teorizzava che intorno al 2025 la Cina avrebbe raggiunto una forza militare ed economica maggiore di quella americana. Nel 2002 diventa evidente che l’America è ormai troppo piccola per garantire da sola l’ordine mondiale. Ma già prima, tutte le iniziative di politica estera avviate da Clinton falliscono perché il presidente crede che la superpotenza, semplicemente perché rimasta l’unica del pianeta, possa governare il mondo. Allora come oggi manca la consapevolezza del rapporto fra mezzi e fini. Bush scoprirà sulla sua pelle di non avere i mezzi ed il consenso internazionale sufficiente a mantenere una posizione egemonica.

Cosa spinge i paesi democratici a procedere verso l’integrazione che lei auspica?
Le nazioni si muovono per interesse e oggi americani, europei, russi, giapponesi e indiani hanno un interesse latente a convergere, e in certe occasioni lo manifestano. Quando la Germania si è sentita pressata da Putin ha cercato la convergenza economica con gli Stati Uniti, proponendo di unire i due mercati. Mentre l’America ha capito subito il valore dell’India come bilanciamento della Cina, ha concesso a Nuova Dheli il riarmo nucleare e promosso l’idea che investire in India sia meglio che investire in Cina, sabotando simbolicamente l’immagine di Pechino.

Come fanno a convergere in base al principio di democrazia nazioni come la Russia, che di democratico hanno ben poco? Non è piuttosto il nemico a creare la missione?
Quando si muovono i blocchi della storia, a livello geopolitico, valgono le dimensione della fisica. Cioè la quantità e i rapporti di forza. Non si può essere troppo eleganti. L’alleanza tra democrazie non serve a difendere le democrazie ma a fornire un denominatore comune a questi paesi per fare un’alleanza. Per quanto riguarda il nemico, le nazioni tendono a reagire. Quando una si espande, come la Cina di oggi, che deve conquistare il globo per rifornirsi di energia, le altre sono interessate a bilanciarne il potere. La Cina non è un nemico ideologico come lo fu l’Unione Sovietica ma è un problema da contenere creando qualcosa di più grande, e per essere più grande questo blocco deve comprendere anche la Russia.

La Russia potrebbe scegliere di allearsi con la Cina.
La Russia oggi collabora con la Cina perché vende grandi sistemi poco raffinati ma robusti che vengono comprati solo dai cinesi. E perché considera gli americani, che gli hanno piazzato la difesa antimissile sotto casa e hanno conquistato l’Asia centrale, poco affidabili. Ma Mosca sa che una Cina che emerge punta alla Siberia, alla sua energia, e ne è terrorizzata.

Il suo libro contiene anche una critica all’America. La può formulare?
Io critico il modo in cui gli americani fanno impero. L’America fa impero secondo un modello stellare: si pone al centro e poi instaura relazioni bilaterali con i partner. Crea degli accordi di scambio privilegiato ma non un’area di libero scambio, non c’è fusione. Questo modello di impero non vincola l’America, non la costringe a fare cedimenti di sovranità e non è troppo gravoso economicamente. Ma produce alleanze instabili. Per reggere il confronto con la Cina serve invece creare un’alleanza molto stabile. E questa deve basarsi sul modello europeo delle fusione economica.

L’imperialismo europeo è meglio di quello americano?
Sì. Non a caso è stata Angela Merkel a chiedere a Bush di stabilire delle regole comuni per il mercato europeo e quello americano. Questo è un modo europeo di pensare perché è un modo imperiale, e gli imperi hanno la preoccupazione di essere stabili nel tempo. Bisogna convincere l’America a cedere un poco di sovranità e a creare uno spazio economico comune, perché nei prossimi trent’anni si decide chi governa il mondo. L’Europa deve riprendere la propria cultura imperiale, che peraltro non ha mai messo da parte. Sono passate due generazioni da quando l’Europa è stata sconfitta. Oggi comincia a riaffiorare un po’ di sano imperialismo. Anche la sinistra parla dell’Europa come di una “potenza etica”, la parola “potenza” testimonia che anche nella sinistra esiste questa meravigliosa malattia europea che è il senso occidentale del dominio e dell’imperialismo. Qua c’è il cuore dell’Occidente, nella capacità di governare per un’idea.

Ritiene dunque maturi i tempi per voltare pagina e lasciarci alle spalle le guerre mondiali e il periodo postbellico?
Bisogna trovare il modo per dichiarare la fine del periodo di punizione seguito alla seconda guerra mondiale. E per chiudere il conflitto fra l’America e l’Europa che si è aperto alla fine di quella guerra, quando l’Europa è stata costretta dagli Usa a mollare la presa sui suoi imperi. Bisogna trovare una soluzione, dire che ormai ci siamo perdonati e siamo legittimati a riprendere il comando del pianeta.

Una volta preso il comando l’Occidente cosa dovrebbe fare?
Salvaguardare il mercato globale, che favorisce le economie più forti, e mantenerlo omogeneo e senza frammentazioni. La Cina vuole costituire un blocco geoeconomico e geopolitico che sia più grande degli altri. Ma questo progetto di Great China produce un sistema multilaterale per blocchi, ognuno chiuso e avverso all’altro, che sabota il mercato globale. E i cinesi non capiscono che alla lunga questo si ritorce anche contro i loro interessi.

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