Mediaset-Endemol, cronaca di un matrimonio annunciato
di Paola Liberace
[17 mag 07]


La notizia dell’acquisizione di Endemol da parte di Mediaset potrà forse aver colto di sprovvista alcuni sedicenti esperti di economia (ma è stato davvero così, specialmente per chi abbia seguito con un minimo di acume la vicenda Telecom-Telefonica?), ma non ha certo sorpreso gli addetti ai lavori. L’integrazione tra contenuti e reti è stata la carta privilegiata da giocare nella partita internazionale dei mass media, almeno da dieci anni a questa parte; molto più che la convergenza tra le varie reti, che – come dimostra l’esperienza italiana – non ha coinciso con la spinta decisiva all’innovazione e al profitto. Oltre a ciò, l’avvicinamento tra le due imprese data indietro almeno ai risultati ottenuti con i primi format acquistati dalle TV del Biscione, fino a realizzare in alcuni casi vere e proprie società congiunte (è il caso di MediaVivere, la società creata da Mediaset e Endemol per produrre soap opera come “Vivere” e “CentoVetrine”, e più di recente le fiction “Questa è la mia terra” e “Io e mamma”).

Insomma, che fossero rose e sarebbero fiorite si era già capito da un pezzo: semmai, a sorprendere è la meraviglia ostentata dai responsabili del servizio televisivo pubblico, che si interrogano ora sul rafforzamento del loro diretto concorrente sull’opportunità di continuare ad acquistare programmi (alcuni dei quali rappresentano i fiori all’occhiello delle trasmissioni Rai, da “La prova del cuoco” a “Affari tuoi”) da Endemol biscionizzata. Eppure, la questione sembra mal posta: se si parla di libero mercato, in cui gli attori in gioco operano liberamente, può capitare anche questo, senza alcuno scandalo. Il presupposto, naturalmente, è che si tratti di attori con la medesima libertà di movimento, con la stessa missione e lo stesso tipo di proposizione commerciale e di prodotto verso il proprio pubblico. Ed è qui che emerge il vero vizio del ragionamento: la Rai si definisce originariamente in quanto TV di Stato, volta al servizio pubblico, ma questa identità è stata messa in discussione a partire dalla rivoluzione delle televisioni commerciali, fino alla situazione attuale, in cui la televisione pubblica e quella privata sono di fatto indistinguibili.

Le incessanti lamentele sull’omologazione televisiva in regime di duopolio fotografano almeno una realtà che di per sé non avrebbe nulla di patologico, se non fosse che uno dei due contendenti almeno in linea di principio dovrebbe essere su un altro piano. Il dilemma, in altri termini, non è se la RAI debba acquistare o meno le produzioni di Endemol, o sostituirle con quelle di Ballandi o della Magnolia di Giorgio Gori (che non è estranea al risiko mediatico, come dimostrano i rapporti con il gruppo De Agostini). Il problema è invece sempre lo stesso, quello di una televisione che si pretende di Stato e allo stesso tempo vuole funzionare come se fosse privata. Così come sempre la stessa è la possibile soluzione: un’operazione di privatizzazione limpida e meditata, che consenta ad almeno due dei canali Rai di operare in maniera trasparente e senza sensi di colpa sul mercato, confrontandosi alla pari con concorrenti del calibro di Mediaset e Sky (e magari intervenendo a sua volta in operazioni sul tipo di quella Endemol); e, dall’altro lato, preservi una serie di attività dedite al servizio pubblico - non solo attraverso l’etere, ma sul digitale terrestre e satellitare, e tramite Internet e la telefonia mobile, se questo servizio deve davvero essere universale -; senza più inutili rimpianti per la fiorente e lucrativa erba del vicino, che è e ha tutto il diritto di essere più verde.

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