Secondo l'International
Herald Tribune erano un milione e mezzo i turchi riunitisi domenica
13 maggio a Izmir, città portuale turca affacciata sull'Egeo,
ricoprendo interamente la spiaggia di bandiere nazionali bianche e
rosse. Anche le navi ancorate nella baia traboccavano manifestanti:
il Tribune riporta che una fonte militare stimava in duecentomila le
persone arrivate solo coi traghetti. Al grido di “No sharia, no
golpe: Turchia democratica” la folla chiamata a raccolta
dall'opposizione laica e nazionalista al governo Erdogan voleva
riaffermare il carattere secolare dello stato turco, ereditato dalla
rivoluzione del “padre dei turchi” Mustafà Kemal, e al tempo stesso
invitare le forze armate ad astenersi da atti di forza contro il
governo islamista di Tayyp Erdogan. La manifestazione seguiva quella
del 29 aprile che ha riunito ad Istanbul un milione di persone, e
quella di Ankara del 17 che ne ha raccolto mezzo milione: si può
parlare quindi di una mobilitazione prolungata di un importante
segmento della società turca, che nelle ultime settimane ha visto
aumentare progressivamente il numero di cittadini pronti a
manifestare in diverse città del paese.
Lo scopo prioritario delle tre
manifestazioni è mettere sotto pressione il premier Tayyp
Erdogan, il cui partito islamista “Giustizia e Sviluppo”
detiene la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento
turco. Il governo Erdogan da un lato ha compiuto
un’importante opera di modernizzazione della legislazione
turca per raggiungere gli standard necessari ad aprire,
nell’ottobre del 2005, i negoziati per l’ingresso della
Turchia nell’Unione Europea; dall’altro è comunque erede dei
partiti islamisti sciolti a più riprese dai militari turchi
nei decenni scorsi, ed ha perciò mostrato una maggiore
sensibilità verso le istanze della parte più religiosa del
paese. Ad aprile è scaduto il mandato del presidente della
Repubblica, il kemalista Sezer, il cui rinnovo avviene per
via parlamentare con la maggioranza dei due terzi dei voti
al primo scrutinio, e con la maggioranza assoluta dal terzo
in poi. La possibilità della candidatura di Erdogan ad una
carica dal grande valore simbolico ha dato inizio alla
mobilitazione dell’opposizione nazionalista e laica,
all’inizio con il discreto appoggio delle forze armate, da
sempre custodi dell’impianto secolare kemalista dello Stato
turco. Di fronte a tale fermento, a fine aprile Erdogan ha
candidato alla presidenza il suo ministro degli Esteri
Abdullah Gul, sperando che il suo profilo più “europeo”
bastasse a garantire anche l’opposizione: invece la sua
elezione è stata boicottata in Parlamento non raggiungendo
il quorum nei primi due scrutini, la Corte Costituzionale ha
dato ragione all’opposizione, le manifestazioni di piazza
sono continuate, e il capo di Stato maggiore Buyukanit ha
minacciosamente dichiarato che “le forze armate turche sono
una parte in questo dibattito e sono protettrici
determinanti della laicità dello Stato”, e sono pronte a
“rendere pubblica la loro posizione e i loro atteggiamenti
quando sarà necessario”.
Per
risolvere il pericoloso stallo politico il Parlamento ha
deciso all’unanimità di anticipare le elezioni legislative
al 22 luglio. Come previsto dalla Costituzione, quindi, i
ministri di Interno, Giustizia e Trasporti del governo in
carica si sono dimessi per essere sostituiti da figure di
garanzia per maggioranza ed opposizione. In questo clima
molto delicato, il partito Giustizia e Sviluppo ha ritirato
la candidatura di Gul alla presidenza, ma sta approvando per
via parlamentare una riforma costituzionale che prevede che
il presidente della Repubblica sia eletto direttamente dal
popolo. Tale riforma è fortemente avversata dalle forze
armate e dall’opposizione, e probabilmente il presidente in
carica Sezer porrà il suo veto alla legge. Intanto nuovi
scrutini per eleggere il presidente della Repubblica sono
fissati per il 24 giugno, e in vista di tale appuntamento
l’opposizione laica si è data appuntamento per il 20 maggio
a Samsun, sperando di ripetere il grande successo delle tre
precedenti manifestazioni. Il braccio di ferro sembra
continuare, ma rimane ancora sul terreno della politica e
nell’alveo della legalità: per fortuna, o più probabilmente
perché tutti sanno che le forze armate sono attori politici
da non sottovalutare.
(c)
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