La pace in Medio Oriente tra Hamas e la crisi di Olmert
di Rodolfo Bastianelli
[11 mag 07]


La grave crisi politica che sta attraversando Israele seguita alla presentazione del rapporto sulla gestione del conflitto in Libano della scorsa estate, ha posto per ora in secondo piano la questione se oggi sia possibile riannodare i fili del processo di pace. Se da un lato la formazione del nuovo governo di unità nazionale tra Hamas ed Al Fatah sembrerebbe infatti indicare una svolta in senso positivo verso una ripresa del  dialogo, dall’altro continuano però a rimanere intatti gli interrogativi sulla effettiva volontà di aprire un negoziato da parte del nuovo esecutivo palestinese. Il primo di questi riguarda il fatto che Hamas continua tuttora a negare il diritto all’esistenza d’Israele respingendo così una delle richieste avanzate dal quartetto composto da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite che aveva posto il riconoscimento dello Stato ebraico e la rinuncia ad ogni forma di violenza come condizione per una ripresa del dialogo e degli aiuti economici all’Anp. Ma le recenti dichiarazioni rilasciate dai vari esponenti del movimento non inducono certo all’ottimismo riguardo ad una sua svolta in senso moderato. 

Le affermazioni rilasciate in un’intervista poco prima della firma dell’intesa raggiunta a La Mecca dal portavoce di Hamas, Ismail Radwan, il quale ha dichiarato che “l’accordo non significa riconoscimento di Israele e la posizione di Hamas è ben ferma nella negazione di qualsiasi legittimità all’entità sionista” o le frasi pronunciate dal premier palestinese Haniyah che dopo il raggiungimento dell’accordo ha ribadito come “la resistenza in ogni forma sia nel legittimo diritto del popolo palestinese”, fanno intendere come il programma del movimento sia ben lontano dall’aver accettato quanto richiesto dalla comunità internazionale per una sua legittimazione come interlocutore in un eventuale negoziato di pace. Lo stesso leader carismatico di Hamas Khaled Meshal, parlando poche settimane fa a Damasco, ha dichiarato che il movimento avrebbe continuato la resistenza non accettando alcun compromesso e rivendicando l’intero territorio palestinese. Secondo diversi osservatori, la stessa adesione di Hamas ad un esecutivo di unità nazionale avrebbe come unico scopo quello  di indebolire quanto più possibile Al Fatah, prosciugando così il suo bacino elettorale. Di tendenza laica, il partito di Arafat ed Abu Mazen ha visto la sua popolarità andare progressivamente erodendosi sia per le accuse di corruzione e malgoverno avanzategli da sempre più larghi settori della popolazione che per l’abilità di Hamas ad offrire servizi sociali per le fasce più deboli e nel dimostrarsi quale unico difensore della causa palestinese. Includendola nel governo, Hamas dimostrerebbe quindi come Al – Fatah non si opponga più aprioristicamente alla linea del movimento, cosa che nel medio–lungo periodo gli permetterebbe di inglobare sempre più esponenti della vecchia dirigenza palestinese rimanendo così l’unica forza politica sulla scena.

A quel punto, senza un’opposizione interna e con un consenso assai più vasto di quello attuale, per la comunità internazionale sarebbe difficile continuare ad escludere Hamas dalle trattative. Ma a gettare un’ombra su una ripresa dei negoziati è soprattutto l’esistenza di rapporti sempre più evidenti tra il movimento ed il regime iraniano. Legato alla Jihad islamica palestinese, il gruppo di tendenza filoiraniana responsabile di diversi attentati compiuti in Israele negli ultimi anni, il regime di Teheran è diventato anche uno dei principali finanziatori di Hamas, alla luce del disegno del presidente Ahmadinejad di far assumere in maniera sempre più decisa all’Iran la guida di tutti i movimenti radicali islamici della regione. E le pressioni di Riyadh per il raggiungimento di un governo palestinese di unità nazionale sarebbero state attuate proprio per ridare un nuovo slancio al ruolo dell’Arabia Saudita che rischiava di venire messa in secondo piano dall’azione diplomatica iraniana. La monarchia saudita, da sempre principale sostenitrice e finanziatrice di Al Fatah, guarda con crescente preoccupazione alla corsa al nucleare del regime iraniano e ai rischi che questa potrebbe comportare per la stabilità regionale, temendo inoltre che Teheran possa usare le consistenti minoranze sciite presenti sulla costa orientale del paese e nel Bahrain a scopo destabilizzatorio.

Ed è in questo quadro che si inserisce la crisi del governo di Ehud Olmert. Fedele alla linea di Sharon che prevedeva un ritiro israeliano unilaterale dai territori, il premier aveva affermato che qualora non fosse stato possibile riprendere il dialogo con i palestinesi Israele si sarebbe progressivamente ritirato dagli insediamenti in Cisgiordania, inglobando solo quelli di maggior importanza per la sicurezza del paese. Lo scenario però rischia ora di cambiare radicalmente. Qualora il governo dovesse cadere e si andasse a nuove elezioni, quasi tutti prevedono un ritorno del conservatore Netanyahu, il quale fin dall’inizio aveva criticato il progetto di un disimpegno dalla Cisgiordania ed il ritiro dalla Striscia di Gaza ritenendoli una concessione ai terroristi. È chiaro quindi come un eventuale esecutivo di centrodestra non sarebbe assolutamente disposto ad aprire una trattativa con un esecutivo in cui siedono esponenti di Hamas.  I critici sottolineano poi come la caotica situazione esistente a Gaza renda poco credibile l’autorità palestinese, in quanto dal ritiro israeliano non è riuscita in alcun modo a ristabilire l’ordine e la sicurezza soprattutto per gli scontri tra le sue diverse fazioni, senza contare il fatto che dall’agosto 2005 alla fine dello scorso anno dal territorio di Gaza sono stati lanciati contro Israele oltre mille missili Kassam. L’Europa, e l’Italia in particolare, hanno affermato come potrebbe essere controproducente continuare ad escludere Hamas dai negoziati vista la sua forza elettorale, auspicando che il processo di pace possa ripartire. Parole condivisibili. Ma alle quali dovrebbe essere aggiunto il principio secondo il quale per  dialogare tutte le parti devono accettarsi e riconoscersi come interlocutori. Ovvero, proprio quello che Hamas non sembra oggi disposto a prendere in considerazione.

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