Nelle ultime settimane si sta assaggiando in salsa
turca lo stesso scontro che sembra agitare in modo tragico tutto il
limes tra Occidente e Islam: quello tra una visione laica
della società ed una caratterizzata dall’impronta islamista.
Tuttavia la Turchia si conferma, ancora una volta, come un mondo a
parte a metà tra Europa e Medio Oriente, non classificabile nei
canoni dello spettatore occidentale. Il 17 aprile Le Monde dedicava
la sua pagina internazionale alla manifestazione che ad Ankara ha
raccolto mezzo milione persone, scese in piazza per difendere la
laicità dello Stato turco creato 80 anni fa dalla rivoluzione
dall’alto di Mustafà Kemal “Ataturk”. La marcia era organizzata da
partiti e movimenti dell’area che si oppone all’attuale maggioranza
al governo del partito islamista Giustizia e sviluppo” (Akp) del
premier Tayyp Erdogan. L’obiettivo era chiedere che il capo del
governo non si candidasse alla carica di presidente della
Repubblica. L’alta carica viene eletta dal Parlamento dove
attualmente il partito islamista, grazie alla frammentazione dei
suoi oppositori, detiene quasi i due terzi dei seggi benché nelle
elezioni del 2002 abbia ottenuto solo un terzo dei voti. La
presidenza è una carica di carattere più onorifico che decisionale,
tuttavia essa ha permesso al presidente uscente, il kemalista Sezer,
di bloccare o mitigare le leggi ritenute troppo islamiche per i
canoni turchi. Inoltre essa riveste un grande valore simbolico, tale
da mettere in fermento le stesse forze armate che nel Novecento
hanno attuato ben tre golpe “morbidi” per evitare derive comuniste o
islamiste alla fragile democrazia turca.
Per comprendere la vicenda turca occorre
spogliarsi degli schemi mentali utilizzati per interpretare
la politica nell’Europa continentale. In primo luogo infatti
l’opposizione scesa in piazza era formata dalla sinistra
laica e progressista e dalla destra nazionalista sostenuta
dalle forze armate, entrambe unite nel difendere i due
principi che in otto decadi hanno rappresentato il perno
kemalista della Turchia: laicità ed integrità dello Stato.
In secondo luogo il partito Giustizia e Sviluppo è sì
l’erede dei partiti islamisti sciolti a più riprese dagli
stessi militari negli anni ‘70-‘80 con l’accusa di
fondamentalismo, ma è oggi guidato da una generazione di
leader politici che ha sostenuto il più grande sforzo di
avvicinamento all’Europa mai compiuto dalla Turchia: a suon
di riforme economiche, giudiziarie, amministrative, il
governo di Erdogan ha impresso una decisa svolta
modernizzatrice alla società turca, ed ha ottenuto lo
storico risultato di aprire nel 2005 i negoziati per
l’ingresso del suo paese nell’Unione Europea.
Di fronte al crescente dissenso negli
apparati statali e nella società turca, lo stesso Erdogan ha
dato prova di maturità politica decidendo di compiere un
passo indietro non candidandosi alla presidenza della
Repubblica. Allo stesso tempo tuttavia, per realizzare le
aspirazioni del suo partito, il 25 aprile ha indicato come
candidato il suo ministro degli Esteri Abdullah Gul, che ha
seguito in prima linea la formulazione proprio di quelle
riforme “occidentalizzanti” richieste dall’Unione Europea.
Tale gesto distensivo non ha convinto l’opposizione che, nel
momento in cui il partito islamista ha iniziato in
Parlamento le votazioni per eleggere il presidente, ha fatto
mancare il numero legale dei due terzi dei partecipanti al
voto. Di fronte alla determinazione della maggioranza di
Erdogan di andare avanti con i successivi scrutini, per
arrivare alla terza votazione che richiede per l’elezione
del presidente solo la maggioranza assoluta dei voti,
l’opposizione guidata dal partito repubblicano del popolo di
Deniz Baykal ha presentato ricorso alla Corte
Costituzionale, ed il 29 aprile ha raccolto in piazza ad
Istanbul un milione di persone contro il governo Erdogan.
Nel frattempo i vertici militari hanno fatto intendere il
loro allarme per i pericoli che corre la laicità dello Stato
in Turchia, ed il capo di Stato Maggiore Yasar Buyukanit ha
minacciosamente dichiarato in merito alle elezioni
presidenziali che “le forze armate turche sono una parte in
questo dibattito e sono protettrici determinanti della
laicità dello Stato”, e sono pronte a “rendere pubblica la
loro posizione e i loro atteggiamenti quando sarà
necessario”. La Corte, infine, sotto la guida della sua
presidentessa Tulay Tugcu, ha approvato il ricorso con 9
voti a favore su 11, annullando gli scrutini effettuati e
disponendo nuove elezioni del presidente per il 6 maggio.
Si profila dunque una situazione molto
delicata, con il partito islamista che detiene una
maggioranza sufficiente ad eleggere un proprio candidato
alla presidenza, una volta giunti alla terza votazione, e
l’opposizione laica e nazionalista che forte dell’appoggio
dei militari e della piazza chiede invece una figura di
garanzia per tutta la Turchia, ed in primis per
l’eredità kemalista. Di fronte alla gravità della crisi il 3
maggio il parlamento turco all’unanimità ha anticipato al 22
luglio le elezioni presidenziali previste per novembre,
trasformandole così in una sorta di referendum sulla strada
che la Turchia dovrà intraprendere. Tale processo avviene
con le forze armate in qualità di vigili e preoccupati
spettatori, che hanno impiegato la loro autorevolezza tanto
per impedire la candidatura di Erdogan quanto per sostenere
il ricorso dell’opposizione. Tale attivismo politico dei
militari ha destato la preoccupazione del Commissario
Europeo per l’Allargamento Olli Rehn, che in una
dichiarazione molto dura ha invitato le forze armate a
“restare fuori dalla politica”.
(c)
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