La Turchia alla prova della democrazia
di Alessandro Marrone
[04 mag 07]


Nelle ultime settimane si sta assaggiando in salsa turca lo stesso scontro che sembra agitare in modo tragico tutto il limes tra Occidente e Islam: quello tra una visione laica della società ed una caratterizzata dall’impronta islamista. Tuttavia la Turchia si conferma, ancora una volta, come un mondo a parte a metà tra Europa e Medio Oriente, non classificabile nei canoni dello spettatore occidentale. Il 17 aprile Le Monde dedicava la sua pagina internazionale alla manifestazione che ad Ankara ha raccolto mezzo milione persone, scese in piazza per difendere la laicità dello Stato turco creato 80 anni fa dalla rivoluzione dall’alto di Mustafà Kemal “Ataturk”. La marcia era organizzata da partiti e movimenti dell’area che si oppone all’attuale maggioranza al governo del partito islamista Giustizia e sviluppo” (Akp) del premier Tayyp Erdogan. L’obiettivo era chiedere che il capo del governo non si candidasse alla carica di presidente della Repubblica. L’alta carica viene eletta dal Parlamento dove attualmente il partito islamista, grazie alla frammentazione dei suoi oppositori, detiene quasi i due terzi dei seggi benché nelle elezioni del 2002 abbia ottenuto solo un terzo dei voti. La presidenza è una carica di carattere più onorifico che decisionale, tuttavia essa ha permesso al presidente uscente, il kemalista Sezer, di bloccare o mitigare le leggi ritenute troppo islamiche per i canoni turchi. Inoltre essa riveste un grande valore simbolico, tale da mettere in fermento le stesse forze armate che nel Novecento hanno attuato ben tre golpe “morbidi” per evitare derive comuniste o islamiste alla fragile democrazia turca.

Per comprendere la vicenda turca occorre spogliarsi degli schemi mentali utilizzati per interpretare la politica nell’Europa continentale. In primo luogo infatti l’opposizione scesa in piazza era formata dalla sinistra laica e progressista e dalla destra nazionalista sostenuta dalle forze armate, entrambe unite nel difendere i due principi che in otto decadi hanno rappresentato il perno kemalista della Turchia: laicità ed integrità dello Stato. In secondo luogo il partito Giustizia e Sviluppo è sì l’erede dei partiti islamisti sciolti a più riprese dagli stessi militari negli anni ‘70-‘80 con l’accusa di fondamentalismo, ma è oggi guidato da una generazione di leader politici che ha sostenuto il più grande sforzo di avvicinamento all’Europa mai compiuto dalla Turchia: a suon di riforme economiche, giudiziarie, amministrative, il governo di Erdogan ha impresso una decisa svolta modernizzatrice alla società turca, ed ha ottenuto lo storico risultato di aprire nel 2005 i negoziati per l’ingresso del suo paese nell’Unione Europea.

Di fronte al crescente dissenso negli apparati statali e nella società turca, lo stesso Erdogan ha dato prova di maturità politica decidendo di compiere un passo indietro non candidandosi alla presidenza della Repubblica. Allo stesso tempo tuttavia, per realizzare le aspirazioni del suo partito, il 25 aprile ha indicato come candidato il suo ministro degli Esteri Abdullah Gul, che ha seguito in prima linea la formulazione proprio di quelle riforme “occidentalizzanti” richieste dall’Unione Europea. Tale gesto distensivo non ha convinto l’opposizione che, nel momento in cui il partito islamista ha iniziato in Parlamento le votazioni per eleggere il presidente, ha fatto mancare il numero legale dei due terzi dei partecipanti al voto. Di fronte alla determinazione della maggioranza di Erdogan di andare avanti con i successivi scrutini, per arrivare alla terza votazione che richiede per l’elezione del presidente solo la maggioranza assoluta dei voti, l’opposizione guidata dal partito repubblicano del popolo di Deniz Baykal ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale, ed il 29 aprile ha raccolto in piazza ad Istanbul un milione di persone contro il governo Erdogan. Nel frattempo i vertici militari hanno fatto intendere il loro allarme per i pericoli che corre la laicità dello Stato in Turchia, ed il capo di Stato Maggiore Yasar Buyukanit ha minacciosamente dichiarato in merito alle elezioni presidenziali che “le forze armate turche sono una parte in questo dibattito e sono protettrici determinanti della laicità dello Stato”, e sono pronte a “rendere pubblica la loro posizione e i loro atteggiamenti quando sarà necessario”. La Corte, infine, sotto la guida della sua presidentessa Tulay Tugcu, ha approvato il ricorso con 9 voti a favore su 11, annullando gli scrutini effettuati e disponendo nuove elezioni del presidente per il 6 maggio.

Si profila dunque una situazione molto delicata, con il partito islamista che detiene una maggioranza sufficiente ad eleggere un proprio candidato alla presidenza, una volta giunti alla terza votazione, e l’opposizione laica e nazionalista che forte dell’appoggio dei militari e della piazza chiede invece una figura di garanzia per tutta la Turchia, ed in primis per l’eredità kemalista. Di fronte alla gravità della crisi il 3 maggio il parlamento turco all’unanimità ha anticipato al 22 luglio le elezioni presidenziali previste per novembre, trasformandole così in una sorta di referendum sulla strada che la Turchia dovrà intraprendere. Tale processo avviene con le forze armate in qualità di vigili e preoccupati spettatori, che hanno impiegato la loro autorevolezza tanto per impedire la candidatura di Erdogan quanto per sostenere il ricorso dell’opposizione. Tale attivismo politico dei militari ha destato la preoccupazione del Commissario Europeo per l’Allargamento Olli Rehn, che in una dichiarazione molto dura ha invitato le forze armate a “restare fuori dalla politica”.

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