Il ritorno delle regine Tudor di Donizetti
di Giuseppe Pennisi
[19 apr 07]

 
 

 

 

 

 


Foto di Tabocchini e Gironella. Per gentile concessione della Fondazione Arena di Verona
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Anna Bolena
Tragedia lirica in due atti di Felice Romani, musica di Gaetano Donizetti
Regia Graham Vick
Scene e costumi
Paul Brown
Direttore d’orchestra
Lű Jia

Protagonisti
Mariella Devia, Laura Polverelli, Michele Pertusi, Francesco Merli


Sparita dai palcoscenici nella seconda metà dell’Ottocento, la “trilogia delle Regine Tudor” di Gaetano Donizetti ha trovato nuovi consensi e successi da quando, verso la fine degli anni Sessanta, quella testarda di Beverly Sills (soprano di coloratura e successivamente grande manager) ne face uno dei cavalli di battaglia con cui la New York City Opera si confrontava con la Metropolitan Opera House, saccente fratello maggiore nella spianata del Lincoln Center. E’ composta, in effetti, non di tre ma di quattro opere, di cui, però, la prima (“Elisabetta al Castello di Kenilworth”) è stata raramente ripresa in tempi recenti. “Anna Bolena”, in scena a Verona sino al 4 aprile in un allestimento che in autunno inaugurerà la stagione del Teatro Verdi di Trieste, narra di come Enrico VIII, innamoratosi della dama di corte Giovanna di Seymour, riuscì a mandare al patibolo Anna Bolena, ingiustamente accusata di adulterio con Lord Richard Percy. Le altre due opere riguardano il conflitto tra Elisabetta e la regina di Scozia (“Maria Stuarda”) e la solitudine della regina vergine (“Roberto Devereux”). Un nuovo allestimento (con regia di Pierlugi Pizzi) di “Maria Stuarda” si vedrà quest’estate allo Sferisterio di Macerata e la prossima stagione alla Scala. “Roberto Devereux” è, in pratica, ogni anno in qualche teatro italiano (anche in quanto molto vicino alle opere verdiane). Quindi, se si vuole, si può gustare, viaggiando da una città all’altra, l’intera trilogi , anche se nessuno sovrintendente ha sino ad ora seguito l’esempio di Beverly Sills che, per una diecina d’anni, le metteva in scena alla City Opera una dietro l’altra.

La “trilogia delle Regine Tudor” non fu il frutto di un disegno preordinato, ma venne costruita quasi per caso nell’arco di sette anni (molto fecondi per Donizetti) sulla scia delle richieste di questo o di quell’impresario. Erano anni in cui si transitava dalla “tragédie lyrique” di stampo francese al melodramma verdiano. In effetti “Anna Bolena”del 1830 è una tragedia lirica improntata al bel canto belliniano, mentre con “Roberto Devereux” del 1837 siamo alla soglie dei lavori verdiani, ciò che la rende più facile alla realizzazione ed all’ascolto. “Anna Bolena” è un cesello di virtuosismo vocale (specialmente nelle arie, duetti, rondò delle due protagoniste). La scrittura orchestrale, anche se più complessa di molti dei lavori di Donizetti del 1830 (o giù di lì), è relativamente semplice anche in quanto posta al servizio della voce. La parte scritta per la protagonista è davvero impervia: modellata sulle capacità straordinarie di Giuditta Pasta richiede un registro molto ampio che spazia da tonalità super-acute a tonalità molto gravi. Ardui anche i ruoli di Giovanna e di Lord Percy: il secondo è stato scritto per Giovanni Battista Rubini (il tenore lirico di agilità del belliniano “I Puritani”) mentre la prima è stata in tempi recenti cavallo di battaglia di mezzi-soprano o contralti come Shirley Verret e Marylin Horne.

Nell’edizione allestita a Verona (e che si vedrà a Trieste) Mariella Devia regge il ruolo con perizia accentuando gli aspetti lirici e le tonalità alte. Ancora più significativo, l’esito di due giovani da pochi anni sui palcoscenici: Laura Polverelli, una Giovanna sensuale eccellente nelle tonalità gravi, e Francesco Meli, un Percy lirico di grande agilità e trasparenza, nonché dal fraseggio perfetto. Invece, Michele Pertusi è un re ligneo (pure vocalmente). Non mancano i nei. In primo luogo, la decisione di rappresentare la versione integrale (quattro ore con un breve intervallo) senza neanche sovratitoli che facessero comprendere il bel testo di Felice Romani. In secondo luogo, la dilatazione dei tempi che ha caratterizzato la concertazione di Lu Jia, di solito molto lieve ma questa volta pesante. In terzo luogo, le regia stilizzata di Graham Vick, troppo simile ad altre sue regie recenti (ad esempio quella di “Orfeo ed Euridice” in tournée in vari teatri) tale da fare pensare a perdita di verve ed a perdita di fantasia.

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