«Non si può trattare con le Corti islamiche»
intervista ad Anna Bono di Elisa Borghi
[04 apr 07]

Da ormai due settimane Mogadiscio è sconvolta da una guerra furibonda. I miliziani ed i clan antigovernativi, che non intendono perdere il controllo della città, ingaggiano battaglia contro le truppe dell’Unione Africana, inviate con l’avallo dell’Onu allo scopo di stabilizzare il paese e riportarlo verso la democrazia. Un copione già noto e troppo simile a quello del 1993, anche se allora a rastrellare le strade di Mogadiscio per disarmare i miliziani erano i soldati italiani, mentre oggi tocca ai militari somali, etiopi ed ugandesi perlustrare casa per casa i quartieri della capitale a rischio della vita. Una situazione pericolosa, che rischia di innestare un effetto domino potenzialmente in grado di esportare il conflitto negli Stati confinanti, e che non smette di peggiorare da quel venerdì 23 di marzo in cui i ribelli sono riusciti ad abbattere un aereo bielorusso con i suoi undici membri di equipaggio e il carico di armi e attrezzature destinate alla missione dell’Unione Africana. Da allora molte vittime sono rimaste sul terreno e un altro velivolo è stato colpito. Abbiamo chiesto ad Anna Bono, africanista, docente di Storia ed istituzioni dell’Africa presso l’università degli studi di Torino, i motivi di questo conflitto e se una escalation della violenza è possibile. 

Professoressa Bono, che cosa infiamma la Somalia?
La crisi somala ha inizio nel 1991, quando i quattro principali clan del paese imbracciano le armi per sconfiggere Siad Barre, padre fondatore della nazione, e prendere il potere. Questa lotta per la supremazia, che una volta cacciato il dittatore diventa prima la battaglia di un clan contro l’altro e poi la lotta dei clan contro il governo somalo, non è ancora finita. È stata interrotta dai lunghi negoziati tenutisi in Kenya che nel 2004 hanno portato alla formazione di un parlamento, e poi è ripresa. A Mogadiscio oggi sono in corso i combattimenti peggiori da quando, a dicembre del 2006, il governo somalo è riuscito a riprendere il controllo della città anche grazie all'aiuto delle truppe etiopi.

Ma perché il conflitto si inasprisce proprio adesso?
In parte ciò dipende dal fatto che il Parlamento somalo il 12 di marzo ha approvato il trasferimento del governo da Baidoa a Mogadiscio, compiendo un ulteriore passo verso la stabilizzazione del paese. Inoltre, sempre dall’inizio di marzo si stanno dislocando sul territorio le prime truppe dell'Unione Africana inviate per risolvere la crisi. Questo contingente, che a pieno regime dovrebbe impegnare circa ottomila unità, ora è presente solo con 1500 militari ugandesi. Ma tanto basta a scatenare la reazione delle forze antigovernative, che sono contrarie a qualsiasi tentativo di ristabilire un ordine democratico e vogliono prevalere e conquistare il potere. 

Quelle che lei chiama “forze antigovernative” sono le cosiddette Corti islamiche?
Le Corti islamiche sono il nemico principale del governo perché sono un raggruppamento di lignaggi e di clan di tendenza fondamentalista contrari al nuovo assetto dato al paese. La Somalia è da sempre composta di clan e quelli più potenti non sono disposti a scendere a patti, ognuno vuole prevalere sugli altri. Il governo ed il parlamento attuali sono nati dopo i lunghissimi negoziati di Nairobi in cui i vari gruppi sembravano finalmente essersi messi d’accordo ed hanno accettato di dividersi le cariche con rigore quasi scientifico: a ciascuno dei clan maggiori sono andati 61 deputati, ai minori 31. Le istituzioni così formate nel 2005 si sono trasferite in Somalia, ma lì non hanno mai funzionato perché quegli stessi negoziatori che sulla carta avevano accettato il compromesso, hanno poi continuato a mantenere il controllo ciascuno sui propri territori di clan. Per questo la situazione non è mai stata abbastanza sicura da permettere che le istituzioni politiche si insediassero a Mogadiscio e che potessero effettivamente funzionare. In questo scenario si è formata anche quella coalizione di lignaggi che prende il nome di Corti islamiche, nelle quali si è poi inserito dall’esterno il fondamentalismo islamico.

La comunità internazionale reagisce inviando una missione dell’Unione Africana, per altro non ancora operativa. Una giusta strategia?
Vorrei ricordare che una parte della comunità internazionale si è mossa già a dicembre del 2006 a sostegno dell'intervento dell'Etiopia che, con l’appoggio degli Stati Uniti, ha mandato delle truppe a Baidoa per proteggere il governo di transizione, accerchiato da clan ostili. Una missione di successo, che in pochi giorni ha messo in fuga le milizie delle Corti islamiche. Solo successivamente si è deciso, con l'avvallo delle Nazioni Unite, di inviare una missione di interposizione dell'Unione Africana di ottomila uomini. Si sono impegnati ad inviare truppe l’Uganda, che ha già dislocato un primo contingente, il Burundi, la Nigeria, e forse parteciperanno anche il Malawi ed il Ghana. È previsto inoltre che gli etiopi lascino la Somalia, anche se per il momento devono restare perché, nonostante le promesse, finora dall’Ua sono arrivati solo 1500 uomini. In compenso ha inviato truppe anche il presidente Abdullahi Yusuf. Mentre naturalmente Hawiya, il principale clan di Mogadiscio, reagisce violentemente temendo di perdere potere.

Un’escalation della violenza è possibile?
Il pericolo è reale perché per questa crisi non si intravede una soluzione a breve termine. E poi vi sono già coinvolte Etiopia, Eritrea e malgrado le smentite si registra anche la presenza di cellule terroristiche islamiche. Come se non bastasse, la capacità delle truppe dell’Unione Africana di tenere sotto controllo la situazione è tutta da verificare. I precedenti non incoraggiano: l’unica altra missione condotta dall’Ua da quando è nata è stata quella in Darfur, dove sono stati mandati 7000 uomini che non sono serviti assolutamente a nulla.

La scelta di mandare l’Ua è dunque opinabile?
Dal punto di vista formale tutto quello che è stato fatto è corretto perché l’Unione Africana è l’organismo preposto a risolvere le crisi di questo genere, purtroppo la debolezza dell’organizzazione è evidente da tutti i punti di vista, anche da quello economico. E oggi tutto lascia dubitare della capacità dell’Ua di pacificare il paese. Inoltre si sta tardando a rendere operativa la missione, l’arrivo di nuovi contingenti è atteso con urgenza dal comandante, un ugandese che ha letteralmente implorato gli altri Stati di mandare gli uomini promessi.

L’intervento di forze internazionali più efficienti potrebbe essere risolutivo?
Non adesso, perché ad essere problematica è tutta la realtà del paese. I clan somali non sono maturi al punto di attuare un cambiamento sostanziale nella loro strategia di conquista del potere. Che contempla solo l’uso della forza e la prevaricazione.

Come per l’Afghanistan, qualcuno ha proposto di risolvere la crisi organizzando una conferenza di pace. Un'idea attuabile?
È interessante notare che, proprio come per l’Afghanistan, qualcuno ritiene che questa conferenza debba includere anche le Corti Islamiche. Peccato che queste non vogliano assolutamente firmare dei trattati, ma solo riprendere il potere che vedono minacciato. Ecco allora che si propone il solito quesito: metti intorno ad un tavolo dei terroristi, delle forze antigovernative, e che cosa gli offri? Dei ministeri?

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