Vento del Nord, la Scandinavia slitta a destra
di Pierluigi Mennitti
[19 mar 07]

Dalla culla alla tomba era il motto con cui i socialdemocratici scandinavi descrivevano la bontà del loro modello sociale. Oggi potrebbe descrivere la loro parabola politica. Soffia un vento nuovo sulle terre artiche che va studiato e interpretato. Dopo il voto in Svezia, che sei mesi fa ha relegato i socialdemocratici all'opposizione, anche la Finlandia si avvia verso un governo di centrodestra. E anche ad Helsinki, i socialdemocratici rischiano di accomodarsi sugli scranni della minoranza, dopo oltre dieci anni di governo ininterrotto. Il voto di domenica ha fotografato un paese in movimento: il partito di centro mantiene la leadeship ma con un solo punto percentuale di vantaggio sul partito conservatore (23,1 per cento contro 22,2, in seggi 51 contro 50), mentre i socialdemocratici scivolano al terzo posto con il 21,5 per cento e 45 seggi, il peggior risultato della loro storia. In queste ore, ad Helsinki, il premier uscente Matti Vanhanen ha intavolato con i conservatori trattative per un cambio di coalizione: dal centrosinistra al centrodestra. 

Cosa accade alle democrazie scandinave, note per aver assicurato attraverso una massiccia, qualificata ed efficiente presenza dello Stato nell'economia, decenni di benessere e sviluppo? Cosa si è inceppato nel meccanismo perfetto dello Stato sociale nordico? La Danimarca aveva già anticipato il nuovo corso, affidando ai cristiano-democratici il proprio governo e indicando un'alternativa - moderata ma di destra - al modello socialdemocratico. Ma anche Svezia e Finlandia avevano negli anni passati riformato le strutture generali dei loro welfare state: il modello attuale non è che un lontano parente di quello che, negli anni Sessanta, segnò una fase storica e un esempio invidiato (e malamente copiato) da tanti Stati europei. E i due paesi presentano tuttora livelli di efficienza, sviluppo e crescita economica altrove invidiabili. In più, la nuova dimensione internazionale dell'area baltica, scongelata dalla fine del comunismo, ha consegnato ai due paesi scandinavi un rinnovato ruolo di leadership regionale che trascina la crescita di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e della provincia di San Pietroburgo. 
 
Quali, dunque, le ragioni di scontento che hanno determinato la svolta politica? Accenniamo a due motivi. Primo: i partiti di centrodestra, specie se di estrazione liberale, vengono ritenuti più affidabili nel proseguire le riforme economiche avviate. La Scandinavia è entrata con fiducia nella nuova era della globalizzazione e le opinioni pubbliche di quei paesi ritengono che i buoni risultati conseguiti dalle loro economie siano oggi da addebitarsi alla capacità di adattare un modello vincente nel passato alle esigenze attuali. Più riforme, più crescita. Dunque, il voto segnala la voglia di un'accelerazione nelle politiche di cambiamento. Secondo: sotto la superficie apparentemente tranquilla delle società scandinave, si agita il problema dell'integrazione con le comunità straniere, specie con quelle di origine araba. Il dibattito su questo argomento resta politicamente scorretto, la stampa lo tratta con prudenza. Eppure esso alimenta preoccupazioni sempre crescenti per l’abuso che molti immigrati fanno del generoso sistema di assistenza scandinavo e per la presenza ormai maggioritaria di stranieri in molti quartieri delle città di Svezia e Finlandia. Ecco perché, accanto ai partiti liberali, crescono soprattutto quelli conservatori che promettono di affrontare con maggiore decisione la questione immigrazione. I risultati di questi ultimi mesi, a Stoccolma come a Helsinki, sono anche la spia di un malessere che rischia di andare fuori controllo.

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