Dalla culla alla tomba era il motto
con cui i socialdemocratici scandinavi descrivevano la bontà del
loro modello sociale. Oggi potrebbe descrivere la loro parabola
politica. Soffia un vento nuovo sulle terre artiche che va studiato
e interpretato. Dopo il voto in Svezia, che sei mesi fa ha relegato
i socialdemocratici all'opposizione, anche la Finlandia si avvia
verso un governo di centrodestra. E anche ad Helsinki, i
socialdemocratici rischiano di accomodarsi sugli scranni della
minoranza, dopo oltre dieci anni di governo ininterrotto. Il voto di
domenica ha fotografato un paese in movimento: il partito di centro
mantiene la leadeship ma con un solo punto percentuale di vantaggio
sul partito conservatore (23,1 per cento contro 22,2, in seggi 51
contro 50), mentre i socialdemocratici scivolano al terzo posto con
il 21,5 per cento e 45 seggi, il peggior risultato della loro
storia. In queste ore, ad Helsinki, il premier uscente Matti
Vanhanen ha intavolato con i conservatori trattative per un cambio
di coalizione: dal centrosinistra al centrodestra.
Cosa accade alle democrazie
scandinave, note per aver assicurato attraverso una massiccia,
qualificata ed efficiente presenza dello Stato nell'economia,
decenni di benessere e sviluppo? Cosa si è inceppato nel meccanismo
perfetto dello Stato sociale nordico? La Danimarca aveva già
anticipato il nuovo corso, affidando ai cristiano-democratici il
proprio governo e indicando un'alternativa - moderata ma di destra -
al modello socialdemocratico. Ma anche Svezia e Finlandia avevano
negli anni passati riformato le strutture generali dei loro welfare
state: il modello attuale non è che un lontano parente di quello
che, negli anni Sessanta, segnò una fase storica e un esempio
invidiato (e malamente copiato) da tanti Stati europei. E i due
paesi presentano tuttora livelli di efficienza, sviluppo e crescita
economica altrove invidiabili. In più, la nuova dimensione
internazionale dell'area baltica, scongelata dalla fine del
comunismo, ha consegnato ai due paesi scandinavi un rinnovato ruolo
di leadership regionale che trascina la crescita di Estonia,
Lettonia, Lituania, Polonia e della provincia di San Pietroburgo.
Quali, dunque, le ragioni di
scontento che hanno determinato la svolta politica? Accenniamo a due
motivi. Primo: i partiti di centrodestra, specie se di estrazione
liberale, vengono ritenuti più affidabili nel proseguire le riforme
economiche avviate. La Scandinavia è entrata con fiducia nella nuova
era della globalizzazione e le opinioni pubbliche di quei paesi
ritengono che i buoni risultati conseguiti dalle loro economie siano
oggi da addebitarsi alla capacità di adattare un modello vincente
nel passato alle esigenze attuali. Più riforme, più crescita.
Dunque, il voto segnala la voglia di un'accelerazione nelle
politiche di cambiamento. Secondo: sotto la superficie
apparentemente tranquilla delle società scandinave, si agita il
problema dell'integrazione con le comunità straniere, specie con
quelle di origine araba. Il dibattito su questo argomento resta
politicamente scorretto, la stampa lo tratta con prudenza. Eppure
esso alimenta preoccupazioni sempre crescenti per l’abuso che molti
immigrati fanno del generoso sistema di assistenza scandinavo e per
la presenza ormai maggioritaria di stranieri in molti quartieri
delle città di Svezia e Finlandia. Ecco perché, accanto ai partiti
liberali, crescono soprattutto quelli conservatori che promettono di
affrontare con maggiore decisione la questione immigrazione. I
risultati di questi ultimi mesi, a Stoccolma come a Helsinki, sono
anche la spia di un malessere che rischia di andare fuori controllo.
(c)
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