Milton Friedman, etica e capitalismo
di Giampiero Ricci
[29 gen 07]

Passato un po’ di tempo dalla morte di Milton Friedman, dagli elogi funebri e dai peana, vale la pena chiedersi cosa resti del pensiero di un economista, un uomo di scienza tra i più osteggiati del secondo dopoguerra, colpevole agli occhi perbenisti dei variegati credo collettivisti di aver fornito contenuti ad un progetto diabolico, quello di una nuova destra eversiva, un pensiero in realtà capace, dietro la freddezza delle analisi e dei numeri, di disegnare con lucidità nei processi sociali la tensione verso un percorso etico sul sentiero del Capitalismo.

Certo un percorso contro la minaccia di uno Stato oppressivo che utilizza la coercizione economica per autoreferenziare se stesso. Sì perché sebbene noi si sia spesso abituati a sentire accostare la parola Capitalismo al concetto di “fallimento del mercato”, qui siamo decisamente su di un altro terreno. Friedman, insieme ad Hayek, Von Mises, Karl Popper rappresentano un sentimento profondo di fiducia nell’individuo. Da queste parti il Capitalismo, non è solo un sistema economico per la produzione di beni e il soddisfacimento di bisogni, bensì, una filosofia per la creazione di un valore extra-materiale, metafisico. 

Il ruolo del governo deve essere limitato a quello di fare qualcosa che il mercato non può fare da sé: cioè fissare, arbitrare e applicare le regole del gioco. L’interventismo dei governi nel gioco economico distorce la partita e crea un risultato peggiore. L’organizzazione naturale dell’attività economica avviene per via di scambio volontario e presuppone che, attraverso l’azione governativa, siano assicurati la legge e l’ordine, poiché atti a prevenire la coercizione di un individuo da parte di un altro e ad assicurare il rispetto dei contratti volontariamente stipulati, a determinare il significato dei diritti di proprietà, l’interpretazione e la pratica applicazione di tali diritti e un’adeguata strutturazione del sistema monetario. Non altro.

Premio Nobel nel 1974 proprio per aver messo in luce le gravi conseguenze dell’interventismo statale nelle politiche monetarie e aver contribuito in modo determinante a fornire strumenti per la sconfitta definitiva dell’inflazione in Occidente, Milton Friedman nasce a Brooklyn nel luglio del 1912 da una famiglia ebrea poverissima di origini europee, sale all’attenzione del mondo accademico capitanando da Chicago la più grande offensiva culturale in materia di scienze economiche e sociali del dopoguerra nei confronti delle compassate e prestigiose Università e dei Centri Studi più influenti della costa est ancora convinte che in fondo in epoche di magra sia giusto che lo Stato draghi risorse dalla società civile per scavare nel terreno la famosa buca con l’obiettivo di ricoprirla poi, anche se a caro prezzo.

Dopo di lui il liberale può dirsi liberista. Sì perché nel pensiero di Friedman alla connaturata ricerca delle migliori forme possibili di cooperazione volontaria evitando la coercizione e limitando al massimo l’ingerenza nella sfera delle libertà individuali, si accosta un rigore feroce nella ricerca di cause concrete alla base della generazione di un dato fenomeno e la proposizione di soluzioni pragmatiche, sempre fuori da schemi ideologici.

Così è quando ne “La storia monetaria degli Stati Uniti”, dati alla mano confuta punto su punto le tesi dei seguaci di Keynes sulla crisi del ’29, ancora oggi incredibilmente venduta (anche e soprattutto per le accademie del nostro Paese) come l’esempio per eccellenza di “fallimento del mercato” e non, come da lui dimostrato, l’effetto di un preciso errore della Banca Centrale Americana, della sua politica eccessivamente restrittiva e deflazionistica, da cui un intervento governativo improvvido trasforma una normale crisi ciclica assorbibile, nella più grave depressione economica dell’era capitalistica

Così è anche quando lui e i suoi uomini tirano fuori dalla crisi economica il Cile di Pinochet e gli consegnano una delle riforme pensionistiche che resta ancora oggi fiore all’occhiello dell’economia applicata, quando predispone il progetto per il prestito ponte che deve tirare fuori la Russia dal pantano. Così è dietro le quinte dei mandati Reagan, all’attacco di quella pianificazione centralizzata di cui metteva spietatamente in risalto i comportamenti paradossali e immorali che si trovavano a compiere quei funzionari governativi, che nell’approvare o respingere richieste di valuta estera, in pratica decidevano se i singoli potessero viaggiare all’estero o quali libri potessero comprare.

Nel suo manifesto, “Capitalismo e Libertà”, pagg. 272, Edizioni Stuido Tesi - 1995, i sostenitori del pensiero in difesa dell’economia libera vengono avvertiti di come nel dibattito culturale contemporaneo essi si trovino svantaggiati anche dal fatto che gli argomenti in favore appaiono sottili e sofisticati, mentre l’economia pianificata, socialista, collettivista è sostenuta da argomenti ingannevolmente ovvi e lineari: coloro che hanno a cuore un futuro in cui la fiaccola della libertà resti sempre accesa dalla loro possono avere solo i fatti. Perché dopo Friedman il liberalismo smette di essere una filosofia buonista d’elite e trova riscontro in comportamenti concreti e concludenti sullo scenario globale con risultati da subito importanti, basta ancora oggi considerare il gap tra le economie anglosassoni post-tatcheriane e post-reaganiane e quelle dell’Europa continentale.

Per questa strada dopo il tramonto del Sol dell’Avvenire, dove il palese conflitto tra la pianificazione centralizzata e la libertà individuale aveva contribuito in modo determinante a cambiare il clima intellettuale, passa anche la critica alla politica dei redditi. Mai così attuale. Alla redistribuzione dei redditi, da parte di governi che in nome di un Welfare obsoleto da Robin Hood si trasformano nello Sceriffo di Nottingham, giacché il “monopolio necessario” appare oggi evidentemente anacronistico ove larga parte dei servizi che esso eroga possono in società tecnologicamente avanzate e complesse essere forniti in regime di concorrenza privata. Politica dei redditi che nel pensiero di Friedman avrà gli stessi effetti deleteri dei precedenti tentativi di comprimere il movimento dei prezzi, e presto o tardi andrà incontro alla stessa sorte.

“Il mio punto di vista sulla spesa dei governi può essere riassunto dalla seguente parabola. Se tu spendi i tuoi soldi per te stesso, sei molto interessato su quanto è stato speso e come è stato speso. Se tu spendi i tuoi soldi per qualcun altro, sei ancora molto interessato su quanto è stato speso, ma in qualche modo meno interessato al come. Se tu spendi  i soldi di qualcun altro per te stesso, tu non sei troppo interessato su quanto è stato speso, ma sei molto interessato sul come si è speso.  Comunque sia, se tu spendi i soldi di qualcun altro per qualcun altro, non sei molto interessato su quanto è stato speso o sul come è stato speso.”.

I movimenti conservatori occidentali dal pensiero di Friedman vengono costretti a riflettere di fronte alla disarmante semplicità con cui egli li portava a ragionare sui comportamenti irrazionali dei governi al cospetto dei “monopoli necessari” (Ferrovie e Autostrade, ecc. ecc., ma anche Previdenza), laddove essi erano nati in epoche lontane per sopperire all’impossibilità per i privati di affrontare l’investimento iniziale,  ma “monopoli necessari” oggi gravanti su una collettività che può in tranquillità e a condizioni scelte dai governi stessi, cederne la gestione ad un sistema privato in grado di sostenere l’investimento.

Il dibattito è ancora aperto ma il pensiero di Friedman costringe ad una scelta poiché il dato esperienza da lui portato all’attenzione non solo accademica, segnala come il crescente peso nella vita di ciascuno della mano governativa sia la manifestazione più vistosa di quella credenza data dal “socialismo democratico” che condanna senza riserve le restrizioni alla libertà individuale imposte dal “socialismo totalitario” ed è convinto sia possibile, per un paese, adottare i tratti essenziali magari dell’assetto economico russo-sovietico e ciò nonostante preservare le libertà individuali grazie a un appropriato ordinamento politico.

In un tempo complesso e di difficoltosa sintesi globale delle culture “forti” del pianeta, la frammentazione del sapere sembra diventare specializzazione, che si tratti di scelta necessaria o di comodo, e i maggiori contributi di discussione per la costruzione di una nuova fiducia nell’individuo, leggi uomo, dopo l’esplosione e l’implosione dei totalitarismi, sembrano arrivare proprio dai sapere specializzati, come quello di Milton Friedman, scienziato economista e filosofo della politica.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuileton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006