Apocalypto, declino di una civiltà
di Tiziana Lanza
[09 gen 07]

Ha scatenato infinite polemiche il film di Mel Gibson Apocalypto, da pochi giorni nelle sale cinematografiche italiane, per le sue numerose e cruente scene di violenza. Il film dovrebbe giustamente essere vietato ai minori, come in America. Ma ciò non dipende da Gibson. In Italia la legislazione non è tale da imporre una simile ristrettezza e si consiglia ai minori di 14 anni di vederlo soltanto se accompagnati da persone adulte. Certo stemperare la violenza avrebbe sicuramente giovato al film. Non per questo però dobbiamo demolire un film che di pregi ne ha molti. Intanto è il primo film che ci racconta qualcosa su una delle più grandi civiltà precolombiane, la civiltà Maya.
I Maya sono rappresentati nel momento del loro massimo splendore, un momento in cui però qualcosa sta per incrinarsi: è l’inizio della loro fine. Gibson è un maestro nel dare ai presagi un ruolo particolare nei suoi film. La vicenda riceve in questo modo una suspense che farà tenere allo spettatore in sala il fiato sospeso fino alla fine.

Tutta la pellicola assume un carattere sacro-mitologico tale da coinvolgerci nel profondo. In questo, però, sta anche uno dei limiti del film, perché dei Maya viene  raccontato soltanto il lato più cruento, quello di una ritualità dedita ai sacrifici umani. Il fatto che fossero di natura religiosa, per propiziarsi gli dei, non toglie assolutamente nulla alla loro orribile crudeltà. Gibson però non accenna minimamente alla cultura evoluta di queste popolazioni ancora oggi capaci di stupirci con i loro monumenti e la loro organizzazione sociale. I Maya erano un popolo civilizzato, basti soltanto pensare alle loro conoscenze tecniche e alla vasta rete idrica che seppero sviluppare. E questo è soltanto un esempio.

Vedere Apocalypto significa anche immergersi in uno dei pochi tratti di foresta tropicale rimasti. Il film è girato in Messico, a Catemaco e Veracruz, con un cast di attori composto da popolazioni indigene americane. La lingua è lo yucateco, un’ antica lingua maya utilizzata ancora oggi da quasi un milione di persone nella penisola messicana dello Yucatàn. Il film dunque è interamente sottotitolato, così come era già stato per la Passione di Cristo.

Inutile dire che la fotografia è splendida. La macchina da presa coglie minuziosamente le espressioni dei volti umani dediti alla caccia dei loro simili. La loro crudeltà viene ulteriormente sottolineata in relazione a quella delle bestie feroci. C’è qualcosa di molto sinistro in questo confronto che fa riflettere. L’uomo cacciatore dei suoi simili sa sospettare, intuire diabolicamente ed è in malizioso ascolto delle emozioni dell’altro.

Il protagonista, Zampa di Giaguaro, è uno splendido e riflessivo indigeno della foresta deciso a sfuggire al suo destino, quello di diventare assieme agli altri componenti della sua tribù una vittima sacrificale da immolare agli dei per la salvezza del popolo Maya. Un’eclissi aprirà il primo spiraglio verso la salvezza, e così lui diverrà il simbolo della loro decadenza.

Ma a guidarlo è l’amore per la sua donna e per la nuova vita che porta in grembo. E così, nella scena finale del film, mentre l’arrivo delle caravelle, ovvero di una civiltà più evoluta, simboleggia la fine del popolo Maya, l’indigeno della foresta, che sa ascoltare la natura e vive in armonia con gli animali al punto da salvarsi anche grazie al loro aiuto, può ripartire deliberatamente verso il suo regno, la foresta, con moglie e figli alla ricerca di un nuovo inizio. E “nuovo inizio” è il significato della parola “Apocalypto”.

In conclusione, sebbene in mezzo a tanta violenza - che non è distante anni luce da quella che siamo abituati a vedere in altri film – il messaggio è chiaro e portatore di vita: è dalla civilizzazione che può scaturire la violenza più efferata. Al contrario, il rispetto della natura, delle sue elementari regole e della sua straordinaria semplicità è la via verso la vita.

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