Libano, cronaca di un fallimento annunciato
di Rodolfo Bastianelli
[05 dic 06]

L’uccisione del Ministro dell’Industria libanese Pierre Gemayel, unita alle dimissioni di sei ministri appartenenti al movimento Hezbollah avvenuta pochi giorni fa, potrebbe far precipitare il Libano in una crisi politica dagli esiti imprevedibili infiammando così l’intera regione. Ma gli eventi libanesi non rischiano solo di ripercuotersi sugli equilibri mediorientali ma anche su quelli italiani trasformando la decisione di inviare un nostro contingente militare nel sud del Paese presa la scorsa estate dal governo Prodi in un grave errore politico. Decisa allo scopo di dimostrare come la politica estera del nuovo governo di centro-sinistra fosse diversa da quella del precedente esecutivo guidato dalla CdL, la missione in Libano conteneva fin dall’inizio tutti i presupposti di un probabile insuccesso. Chiunque aveva una minima conoscenza dello scenario politico e militare libanese avrebbe capito che la tregua seguita alle operazioni militari israeliani contro gli Hezbollah sarebbe stata soltanto provvisoria. La stessa risoluzione 1701 con cui le Nazioni Unite stabilivano il cessate il fuoco era infatti estremamente vaga e con riferimenti sfumati proprio allo scopo di ricevere l’approvazione di tutte le parti in conflitto, apparendo fin da allora evidente come le ostilità sarebbero potute riprendere o al verificarsi del primo grave incidente o se qualcosa non fosse andato come auspicato dalla comunità internazionale.

Il primo errore di valutazione è stato quello di non comprendere come il disarmo degli Hezbollah fosse di fatto impossibile da portare a compimento. Se da un lato l’Esercito libanese non aveva né le capacità tecniche né la forza politica di procedere al disarmo per non correre il rischio di mettere in crisi i delicati equilibri presenti all’interno del governo di Beirut, dall’altro le forze del contingente internazionale non desideravano essere coinvolti in un’operazione di questo tipo per evitare di incorrere nell’ostilità della popolazione sciita locale e degli stessi Hezbollah. Il secondo invece risiede nell’incompletezza della missione decisa dalle Nazioni Unite. Per un’operazione di questo tipo sarebbero stati necessari almeno 15.000 effettivi dotati di una forza di copertura aerea per verificare se eventuali forniture di armi fossero state inviate agli Hezbollah. Al contrario, il contingente dell’UNIFIL-II dispone di un numero di componenti ritenuto insufficiente dagli analisti, è privo di mezzi aerei ed una buona parte dei suoi effettivi è impegnata in operazioni di pattugliamento marittimo che nel caso libanese rivestono poca o nessuna rilevanza dal punto di vista militare, dato che le milizie sciite continuano a ricevere armi ed equipaggiamenti da Iran e Siria per via aerea. Il terzo, e sicuramente più grave, errore è stato quello di inviare un nostro contingente sotto la spinta di motivazioni politiche interne.

L’Italia è stata la più sollecita a rispondere all’invito dell’ONU e nella rapidità con cui si è deciso di partecipare alla missione un ruolo fondamentale hanno avuto sia l’intenzione di Prodi di dimostrare come il suo governo fosse tornato a seguire una politica multilaterale in collaborazione con l’Unione Europea e le Nazioni Unite che i desideri della sinistra più radicale di colorare la missione di accenti anti-israeliani. Una più attenta analisi della situazione avrebbe al contrario consigliato una maggiore prudenza, anche alla luce degli interrogativi messi prima in evidenza. Ora, nel caso la situazione politica libanese dovesse aggravarsi portando al crollo dell’esecutivo guidato da Fouad Siniora ed alla formazione di un nuovo governo controllato dagli Hezbollah, non è escluso che Israele possa decidere di riprendere le operazioni proprio per impedire un ulteriore rafforzamento del movimento sciita.

Davanti a questi scenari, per il nostro contingente si aprono due prospettive. Nel migliore dei casi, anche senza il riesplodere delle ostilità, in un simile quadro il ruolo e la funzione delle forze italiane e di tutta la missione UNIFIL. II sarebbero praticamente ridotti ai minimi termini. Qualora il conflitto dovesse invece nuovamente accendersi, vi è il rischio concreto che restino intrappolati sul terreno. Emblematico in proposito è l’esempio di quanto accaduto in Bosnia, dove il contingente dell’UNPROFOR si trovò stretto tra le minacce serbe e l’ostilità della popolazione musulmana senza poter esercitare alcun ruolo attivo e con grave pericolo per i suoi componenti. La situazione non è ancora precipitata ma il clima non invita certo all’ottimismo. Sarebbe opportuno quindi valutare se è ancora il caso di prendere parte ad una missione il cui ruolo, anche nella migliore dell’ipotesi, appare quantomai ridimensionato. Chiedendosi pure se valeva la pena di partire.

 

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