Doveva essere una data
storica per la Catalogna. Invece il prossimo 18 giugno altro non sarà
che l’atto finale della surreale esperienza di governo della sinistra
catalana e catalanista.
Quel
giorno gli elettori saranno chiamati ad approvare o respingere lo statuto
votato in prima istanza a Barcellona lo scorso settembre ed in via definitiva
dal parlamento di Madrid poche settimane fa: un documento che nel preambolo
prevede la definizione della Catalogna come nazione e che sancisce la fine
del bilinguismo e il predominio del catalano come lingua ufficiale, un testo
infarcito di riferimenti ai diritti collettivi e all’interventismo
pubblico, concepito per ipotecare il futuro delle prossime generazioni all’interno
dello schema ideologico del social-nazionalismo.
Può
sembrare paradossale che la forza politica che più si è battuta
per la riforma statutaria e che ad essa ha subordinato l’appoggio
al governo Zapatero, gli indipendentisti di Esquerra Republicana, stia oggi
facendo campagna per il no. Ma lo è solo se non si conoscono le dinamiche
della politica catalana che dagli anni del pujolismo altro non è
che un’arena in cui i principali contendenti fingono di farsi la guerra
per poi accordarsi sulla spartizione del potere, in un clima di corruzione
materiale e ideologica e di omertà generalizzata.
Il
no di Esquerra è maturato il giorno stesso in cui alla Moncloa il
presidente del governo e il leader dell’opposizione (formale) al tripartito
izquierdista, Artur Más di Convergencia i Unió (CIU), si sono
stretti la mano davanti ai fotografi dopo aver annunciato l’accordo
sul testo definitivo. Pur avendo votato il progetto originale insieme alla
sinistra e averlo difeso in sede centrale nel corso del dibattito sull’approvazione,
CIU non ha esitato smarcarsi dai compagni di viaggio quando i sopravvenuti
contrasti tra il PSOE e l’ala radicale dell’indipendentismo
catalano sembravano sul punto di far fallire l’intero negoziato, riuscendo
in un solo colpo ad accreditarsi come il partito della mediazione e del
consenso, a portare a casa il successo diplomatico del patto con Zapatero
e ad evidenziare l’inconsistenza del ruolo del presidente della Generalitat
che, dopo aver basato l’intera legislatura sul progetto statutario,
è stato costretto ad ingoiare il rospo in rigoroso silenzio-assenso.
Non
così i duri e puri di Esquerra che, una volta confermata la loro
indisponibilità ad una soluzione di compromesso (niente è
mai abbastanza per i nazionalisti), sono stati cortesemente invitati a farsi
da parte dallo stesso Maragall il quale, sempre più in balia degli
eventi, ha rimodellato il suo esecutivo (ridotto a PSC e Verdi) e convocato
nuove elezioni per il prossimo novembre.
Un’operazione
di potere finita male: questo è il significato reale dello statuto
su cui i catalani sono chiamati a pronunciarsi fra pochi giorni. Un’operazione
fortemente voluta da Zapatero nel contesto di una strategia sempre più
chiaramente volta al superamento dei principi della transizione spagnola
nel nome del patto con i nazionalisti (compresi i terroristi di ETA) e dell’emarginazione
dei popolari dalla vita politica e dal tessuto sociale.
Un
nostalgico della Seconda Repubblica, così si è definito recentemente
il premier, ovvero di quel periodo della storia spagnola che precedette
la guerra civile in cui le forze del giacobinismo ruppero la legalità
costituzionale e cominciarono la caccia alle streghe nei confronti di cattolici,
conservatori e democratici di ogni sorta, nel nome di un radioso avvenire
più simile alla repubblica dei soviet che ad uno stato diritto. Quella
è la Spagna che Zapatero ammira e vuole ricostituire e l’alleanza
con il social-nazionalismo è il miglior veicolo per fare piazza pulita
dell’esistente, poco importa se questo significa violare la costituzione,
aprire il vaso di pandora delle rivendicazioni territoriali (ma sempre ideologiche),
dividere il paese e riabilitare all’occorrenza i terroristi e i loro
fiancheggiatori.
I
catalani sono stati le pedine di questo gioco a perdere e, se solo le televisioni
o la stampa permettessero loro di informarsi, il 18 giugno se ne andrebbero
in massa al mare. Così non sarà anche perché i partiti
del sì hanno previsto una media di 130 atti politici quotidiani nei
quindici giorni di campagna elettorale e perché il governo della
Generalitat (o quel che ne è rimasto) sta usando gli strumenti di
propaganda a disposizione per stimolare non solo e non tanto la partecipazione
quanto l’approvazione del testo.
Impensabile,
viste le premesse, una vittoria del no, sostenuto per motivi opposti da
Esquerra e Partito Popolare. Più probabile un’astensione superiore
alle previsioni, visto che lo spettacolo offerto dai protagonisti potrebbe
determinare un effetto deterrente su un’opinione pubblica confusa
e nella stragrande maggioranza dei casi evidentemente disinformata.
1979
o 2006? Questo il lemma della campagna per il sì, in riferimento
alle date dello statuto in vigore e di quello da approvare. Ma anche: Se
vince la Catalogna, perde il Partito Popolare, uno slogan che la dice tutta
sulla profondità degli ideali di chi ha concepito e imposto quella
che alcuni intellettuali non allineati hanno già definito la peggior
legge mai approvata dal parlamento della nazione. Anzi, delle nazioni.
(c)
Ideazione.com (2006)
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