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[IL DOCUMENTO DI BARI]
Una politica possibile per il Mezzogiorno

La migliore politica economica per il Mezzogiorno dovrebbe affidarsi ad incentivi automatici e fondati su strumenti fiscali e previdenziali per gli investimenti alle imprese: perché essi si rivolgono ad imprese strutturate che possono reggere la sfida di allargarsi al solo prezzo di una riduzione della pressione fiscale e contributiva. Una riduzione che risponderebbe, nel breve periodo, ad un vincolo morale di equità dato che lo Stato non onora, nel Mezzogiorno, il corrispettivo reale della pressione fiscale e contributiva: essendo latitante nella creazione di capitale fisso sociale, sicurezza privata ed amministrazione della giustizia civile. La riduzione della pressione fiscale, dunque, sarebbe solo il riconoscimento del fallimento dello Stato nella sua missione tipica e potrebbe essere, nel lungo periodo, nuovamente allineata alla media nazionale da un doppio movimento. Da una parte riducendo la pressione fiscale nell’intero Paese, come ha auspicato il Governatore della banca centrale nella recente audizione parlamentare sul disegno di legge finanziaria e, dall’altra parte, ridimensionando la presenza pubblica e riqualificandola in relazione agli effettivi obiettivi strategici del suo intervento.

Insomma, la riduzione fiscale e la riforma dell’organizzazione e della presenza pubblica nella società italiana sono due facce della medesima medaglia. E la crescita potrà riprendere solo in presenza della loro duplice manifestazione: quando le riforme saranno avviate e la pressione fiscale diminuita. Le riforme non costano ma rendono per l’economia del Paese: esse, tuttavia, colpiscono privilegi e rendite e, dunque, per coloro che hanno prosperato all’ombra della macchina pubblica esse rappresentano un costo, la perdita delle rendite finora percepite.

La riduzione della pressione fiscale nel Mezzogiorno, insomma, dovrebbe, e potrebbe essere temporanea proprio perché questo ridisegnare le funzioni e le dimensioni dello Stato dovrebbe essere accompagnato da una sostanziale ridefinizione della curva delle aliquote e dalla nascita di strumenti di mercato che integrino il contenuto previdenziale e pensionistico degli enti pubblici esistenti e del loro improvvido ed inefficiente monopolio legale della previdenza e della sicurezza sociale.
Per le imprese che nascono in relazione allo start up di nuovi progetti e per gli interventi legati alla frontiera della conoscenza, che in ogni economia sono affidati a strumenti del genere venture capital, lo Stato potrebbe trasformare i contributi in conto capitale in titoli rappresentativi di attività finanziarie (equity) ma non di crediti verso le imprese.

Esso potrebbe aumentare il capitale delle propria società controllata, Sviluppo Italia, che a sua volta selezionerebbe con criteri economici la propria partecipazione al capitale di rischio delle imprese impegnate nello start up di nuovi progetti. Esso potrebbe anche sottoscrivere la quote di fondi chiusi promossi e gestiti da banche, domestiche ed internazionali, per la copertura di quegli investimenti che non derivano da new entries nel mondo imprenditoriale ma dalla scelta di imprese esistenti di collocare le proprie iniziative sulla frontiera dell’innovazione tecnologica.

In questa stessa linea di azione avrebbe grande rilievo la scelta di aumentare la partecipazione diretta dello Stato a società consortili di ricerca tecnologica ed applicazione di quei risultati tecnologici al capitale delle quali partecipino anche imprese private, università ed altre istituzioni di ricerca, oltre che le fondazioni derivanti dalla legge Carli Amato. Se, in altre parole, lo Stato vuole “tenere memoria” e controllare gli effetti del proprio intervento in investimenti industriali, per non essere considerato una sorta di “azionista senza diritti” – non solo realizzare un maquillage finanziario che gli permetta di affermare, in sede europea, di essere creditore e di non avere, di conseguenza, incrementato il debito ma di avere investito in titoli capaci di generare futuri flussi di cassa attivi – allora deve sottoscrivere azioni, ordinarie, privilegiate o di risparmio, di imprese e progetti di ricerca e comportarsi da azionista secondo i diritti e gli obblighi che derivano da quella qualifica.

Non si tratta di rispolverare l’Iri come azionista delle imprese agroalimentari ma di tornare alla lezione di Menichella e di Beneduce: amministrando razionalmente un limitato numero di investimenti collegati alla condivisione di rischi imprenditoriali che un mercato troppo “miope” finirebbe per rifiutare, penalizzando il tasso di crescita della nostra base produttiva. Mediobanca, negli anni Cinquanta, era controllata da banche controllate dall’Iri ma funzionava come banca d’affari e come un fondo chiuso capaci di tutelare e supportare l’impresa privata in Italia. Una soluzione ancora più radicale potrebbe essere una radicale riorganizzazione di Sviluppo Italia, allargandone la partecipazione del capitale a grandi banche domestiche ed internazionali ed alle istituzioni sovranazionali come la Bei, riorganizzandone, inoltre, la struttura operativa secondo il modello del gruppo Banca Mondiale. Infine occorre concentrare risorse finanziarie nell’allargamento della rete infrastrutturale esistente e nella riqualificazione di quelle infrastrutture che “contengano” una simile opzione di espansione.

Anche questa operazione si può realizzare sul mercato in regime di project financing, riducendo lo spazio giuridico disciplinato direttamente per legge in questa materia, e lasciandone la conduzione a banche d’affari ed a soggetti privati, che progettino architetture finanziarie e curino l’emissione di titoli, da parte di quelle entità giuridiche (Spe’s), la sottoscrizione dei quali, da parte del ministero dell’Economia, o di società da esso controllate, non rappresenti una spesa ma un investimento cartolare. Sviluppo Italia, ancora una volta, Infrastrutture Spa e Patrimonio Spa dovrebbero essere gli attori principali di questa politica. Il tratto dominante di una simile prospettiva di intervento è la riduzione dello spazio disciplinato da norme e delle azioni condotte direttamente dalla pubblica amministrazione, centrale o locale, in tema di sviluppo economico.

Il che non significa che venga meno la logica di una partnership tra pubblico e privato ma che quella partnership, come avviene nei paesi di cultura anglosassone, si svolga nel solco dei contratti e della cartolarizzazione dei diritti di entrambe le parti e ad una distanza di sicurezza dall’intervento diretto delle amministrazioni pubbliche e della giurisdizione tipica del diritto amministrativo. Se fosse questo il futuro delle politiche per il Mezzogiorno, la circostanza che oggi si registra per fatti oggettivi, la sostanziale estraneità dell’obiettivo della crescita meridionale rispetto alla legge finanziaria, diventerebbe un’opportuna condizione di sistema: perché il fine tuning della finanza pubblica non dovrebbe avere effetti determinanti sulle scelte di finanza strutturata che si collegano agli investimenti meridionali. La politica, e la politica economica, non si dovrebbero confrontare sul quanto si spende ma valutare gli effetti, sul mercato finanziario, dei progetti verso i quali esistano diritti di controllo esercitabili dal Governo o dalle sue agenzie, del comportamento delle quali risponde, in termini politici, il Governo medesimo. Sia al livello dello Stato centrale che delle amministrazioni regionali o comunali.

La riduzione degli spazi per la politica economica, del resto, è la naturale conseguenza del patto di stabilità, che lega le mani dei Governi in materia di finanza pubblica, e della creazione di una Banca Centrale Europea che amministra la politica monetaria alla scala dell’intero sistema che si riconosce nella moneta unica. È una mera conseguenza dell’architettura istituzionale che l’Europa ha disegnato per governare se stessa. D’altra parte l’allargamento dei paesi partecipanti all’Unione europea, che si colloca tra il 2004 ed il 2007, come è stato già deliberato, imporrà di rivedere e qualificare anche le politiche regionali che ogni nazione sviluppa per ridurre i propri divari interni di benessere e di produttività. Si apre una nuova stagione in cui la politica economica, sia essa monetaria, fiscale od orientata al governo della crescita economica, davvero non sarà più nazionale ma dovrà essere realizzata ad una scala, quella europea, mentre le regole istituzionali per “governare” i processi decisionali a quella scala sono ancora indeterminate.

Ritorniamo, per concludere, al punto da cui siamo partiti: il disegno di legge finanziaria in discussione al Parlamento.
Abbiamo già detto che l’esito di quella discussione avrà, in ogni caso, un effetto modesto sulla questione meridionale perché il Mezzogiorno rappresenta un problema che non può essere affrontato con le manovre congiunturali di assestamento dei conti pubblici. Ed anche perché i vincoli, che rendono molto difficile l’aggiustamento dei conti pubblici, sono i medesimi vincoli che hanno impedito al Mezzogiorno di svilupparsi endogenamente e di superare le proprie patologie.

Quei vincoli sono, semplicemente, il frutto delle mancate riforme degli apparati dello Stato e delle regole che disciplinano i mercati dei fattori produttivi, cioé i mercati finanziari ed il mercato del lavoro. La rigidità finanziaria della macchina pubblica e la fragilità economica del Mezzogiorno sono le due facce, simmetriche, della scelta di ingessare l’economia italiana in una rete di leggi e regolamenti piuttosto che governarla attraverso politiche pubbliche capaci di supportare l’espansione dei mercati.
Non sarà facile liberarsi di quella rete. Essa ha generato una vera e propria deformazione negli atteggiamenti individuali e nei comportamenti sociali: la percezione che la politica si riduca ad una concertata spartizione dei fondi pubblici. La crescita fisiologica di un’economia, al contrario, dipende dalle scelte di fondo in materia di opere pubbliche, fiscalità, previdenza sociale, libera circolazione dei mercati e dei capitali, difesa del consumatore e libertà di accesso ai mercati per i nuovi progetti e le nuove idee.

Il sistema delle leggi e dei regolamenti opera secondo princìpi radicalmente alternativi: incentiva le coalizioni e le collusioni, premia i gruppi consolidati che possono vantare una presenza strutturata, enfatizza il potere delle burocrazie rispetto alla forza delle idee, allarga le funzioni di intermediazione finanziaria dello Stato. Sia tra gruppi e categorie nel breve periodo che tra gruppi sociali e generazioni nel lungo periodo. Da questo secondo modello, che rappresenta certamente l’Italia degli ultimi trent’ anni, escono mortificate la crescita e la responsabilità individuale. Un modello liberale, aperto alle idee nuove ed alla misura del valore – che generano individui ed istituzioni con il proprio comportamento – premia invece la responsabilità individuale, spinge individui ed istituzioni a sfidare l’incertezza del futuro e, così facendo, eccita la crescita che rappresenta la condizione necessaria per una espansione del benessere governata da principi condivisi di equità.

novembre 2002