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[IL DOCUMENTO DI BARI]
Oltre la congiuntura:
le cause di fondo del ritardo meridionale


I problemi strutturali del Mezzogiorno sono tre:
- l’esistenza di un marcato divario nel reddito pro capite rispetto al Centro-Nord; alle origini del quale esiste un gap di infrastrutture materiali e di beni pubblici intangibili;
- il carattere dipendente che l’economia meridionale è venuta assumendo in seguito alle modalità operative delle politiche adottate per correggere la dimensione del divario: modalità che, dalla fine degli anni Sessanta, si sono sempre risolte in termini di meri trasferimenti di finanza pubblica e non di aumento della produttività endogena;
- l’assenza crescente di intermediari e mercati finanziari nel processo locale di trasformazione del risparmio in investimento: in ragione sia della scomparsa della proprietà locale nel controllo degli intermediari che nella diffusa presenza dello Stato nel processo effettivo di intermediazione.

I tre problemi generano un circolo vizioso che si accentua nelle stagioni congiunturali: durante le quali il cambio italiano si apprezza ed alla finanza pubblica vengono imposti rigidi vincoli di stabilizzazione, perché la minore produttività locale, combinata con l’apprezzamento del cambio, aumenta il gap nei confronti dei prezzi internazionali, mentre la rigidità della spesa pubblica comprime la domanda interna.

Nella crisi del 1992 precipitarono tre eventi, tutti gravidi di conseguenze negative sull’economia meridionale.
La svalutazione della lira determinò un vantaggio relativo per il sistema industriale del Centro-Nord, che era pronto e capace di catturare l’opportunità di un dumping per sostenere le sue esportazioni.
Si accumulò, grazie a quella manovra, nella prima metà degli anni Novanta, un ritardo addizionale di crescita che azzerava i modesti recuperi del divario tra le due Italie avvenuti nei decenni precedenti.

Lo smantellamento del sistema di intermediari ed agenzie pubbliche che sostenevano, mediante trasferimenti finanziari, il livello del benessere ma non la capacità di produrre delle regioni al Sud, determinò un vuoto deflattivo che, cumulandosi con l’incapacità di cogliere le opportunità per esportare e con i costi derivanti dal maggior onere delle importazioni, determinò, inoltre, una diffusa crisi delle imprese meridionali e, nel giro dei due anni successivi, la crisi generalizzata delle banche radicate nel mercato meridionale.

L’ipotesi di riprendere la scommessa della crescita, solo dalla dimensione locale e dalla capacità d’intervento degli enti pubblici territoriali, enfatizzò una dimensione artigianale, provinciale e pubblica delle modalità della crescita economica. Proprio quando, con la crescente integrazione globale del mercato mondiale, quella dimensione veniva percepita, al contrario, come post-industriale, cioè ipertecnologica, integrata alla scala dell’intera economia mondiale e sostanzialmente affidata alle dinamiche di mercato ed alla responsabilità individuale.

Al gap nel tenore di vita e nelle modalità secondo le quali si genera il livello di benessere – i trasferimenti di reddito e non la capacità di competere sui mercati generando progressivamente valore dalle proprie conoscenze e dalle proprie capacità – si è aggiunto, in questo modo, un gap di cultura e di percezione delle determinanti della crescita che ritarda, oggettivamente, il processo di riallineamento tra le due sezioni territoriali del Paese.

Tutti questi effetti sono intervenuti in maniera stringente nella prima metà degli anni Novanta ed hanno determinato la crisi definitiva del regime proprietario locale nel sistema degli intermediari finanziari indebolendo radicalmente il sistema produttivo locale.

Nella seconda metà degli anni Novanta si registra una lenta ripresa della crescita che non ha, tuttavia, prodotto risultati robusti nel lungo periodo dal momento che riproponeva la formula di una finanza dipendente dai trasferimenti pubblici: anche se la provvista di questa spesa veniva imputata, in parte, a fondi provenienti dalle politiche regionali europee.
Un eccesso di retorica e enfasi sulle possibilità degli enti locali di orientare la crescita ha determinato, in uno con i motivi già detti, un’effervescenza di attività molto flebile che, a fronte della crisi della crescita internazionale, lascia oggi, ancora una volta, disarmata l’economia locale.

novembre 2002