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[IL DOCUMENTO DI BARI]
Una politica per la crescita economica e lo sviluppo civile

Le determinanti di fondo di un processo endogeno di crescita vengono individuate in quattro direzioni:
1. l’esistenza di istituzioni “amiche del mercato”, vale a dire di un ordinamento, ma anche di un complesso di comportamenti, individuali e collettivi, che affidino prevalentemente alla responsabilità individuale ed allo scambio la funzione di indirizzo del processo di crescita;
2. l’esistenza di un sistema finanziario capace di collegarsi al mercato mondiale dei capitali e di garantire un ragionevole tasso di efficienza allocativa nell’impiego delle risorse disponibili per essere investite nel Paese che subisce l’handicap di un differenziale di crescita;
3. l’esistenza di reti per la connessione degli attori, la mobilità delle merci e delle persone, la circolazione delle informazioni e la produzione e la distribuzione delle utilities principali: un capitale fisso sociale installato o da generare mediante forme di partnership ed alleanza tra poteri pubblici ed interessi privati;
4. l’esistenza di una massa critica di beni pubblici intangibili e di un livello di fiducia e di reciprocità dei comportamenti individuali che rappresentino una massa adeguata di capitale sociale intangibile, di natura relazionale e cognitiva, che integra il capitale fisso sociale, le esternalità assicurate dal sistema finanziario e le opportunità generate dall’ambiente istituzionale amico del mercato. La riduzione del vacuum istituzionale, cioè la nascita di un ordinamento capace di riconoscere i diritti di proprietà ed aprire la stagione della percezione e, dunque, dell’accumulazione endogena del valore, viene considerata oggi la condizione necessaria per il decollo della crescita. Se la crescita è endogena, la povertà e l’arretratezza sono la conseguenza dell’incapacità di leggere e processare i propri valori incrementandone l’utilità che si traduce in benessere crescente per la comunità.

Insomma, non si tratta solo di garantire la crescita della ricchezza materiale della popolazione: bisogna creare le condizioni perché questo processo di espansione del benessere si consolidi su se stesso e si alimenti in una spirale virtuosa: che possa nutrirsi della coesione sociale delle comunità locali e della fiducia che esse nutrono in se stesse. Purtroppo, l’equazione che lega espansione delle risorse, equità nella loro redistribuzione ed equilibrio politico delle istituzioni che governano i processi sociali non ha ancora trovato una soluzione univoca. In compenso, siamo in grado di darci un ordine di grandezza per la misura delle difficoltà che si incontrano nel tentativo di quadrare questo cerchio tra capitalismo e democrazia, tra espansione delle risorse disponibili e convivenza civile.

Una vera e propria mappa interattiva del problema, ad esempio, ci viene fornita dalla World Bank nel suo sito web: essa è il risultato di un lavoro ultradecennale che gli economisti della più grande organizzazione mondiale per la diffusione dello sviluppo economico hanno dedicato al tema del rapporto tra crescita e governabilità dei processi sociali: tra economic growth e governance, per dirla con le due parole inglesi che rappresentano, oggi e di fatto, l’obiettivo principale del progresso sulla scena mondiale.

Alla redazione di questa mappa si è giunti anche grazie al lavoro di due economisti che hanno trovato metodologie idonee per misurare la crescita ed il buon governo. Si tratta di Daniel Kaufmann ed Aart Kraay. Essi hanno provato, in un recente articolo, un risultato assai singolare. Esiste una correlazione positiva tra l’espansione del reddito pro capite e l’efficacia delle istituzioni che governano la crescita. Ma, mentre questa relazione virtuosa tra i due fenomeni ci autorizza a dire che essi convivano, non possiamo affermare che l’uno, la crescita, sia la mera conseguenza della seconda, il buon governo. E neanche si può, evidentemente, affermare l’inverso: che il buon governo sia un premio riservato solo ai cittadini di quelle nazioni che sono state capaci di diventare più ricche.

Il buon governo è una misura che Kaufmann e Kraay ottengono osservando sei fenomeni:
1. la libertà di parola e l’obbligo della classe dirigente di rendere conto dei propri comportamenti e dell’uso che fa del potere che le viene conferito dal mandato democratico;
2. la stabilità politica;
3. l’efficacia delle misure governative rispetto ai propri obiettivi annunciati;
4. la qualità delle regole e delle leggi;
5. la certezza del diritto, cioè un’amministrazione affidabile della giustizia civile ed una tutela efficiente dell’ordine pubblico;
6. la capacità di controllare la corruzione.

Da queste ricerche emerge chiaramente come il buon governo generi un effetto virtuoso sullo sviluppo economico e l’incremento del benessere sociale. Dalle medesime ricerche emerge anche un ulteriore dato, contraddittorio rispetto al primo e capace di attenuarne gli effetti virtuosi. La crescita economica offre alle classi dirigenti strumenti ed opportunità per catturare le istituzioni e servirsi di questo potere per conseguire vantaggi personali. Non è vero, insomma, come dicono e dimostrano i due autori citati, che il miglioramento del tenore di vita supporta la domanda di buon governo e che questa domanda si traduca automaticamente in misure istituzionali e comportamenti della classe dirigente capaci di alimentare il circolo virtuoso della crescita.

Scorrere la mappa della World Bank, che traduce quelle ricerche in vere e proprie graduatorie, è molto interessante: perché risulta assolutamente evidente come l’Europa non abbia alcuna omogeneità interna comparabile con quella degli Stati Uniti e come una lieve differenza separi, ancora oggi, alcune delle nazioni che appartengono al “club” della UE, come l’Italia, da quelle che sono solo candidate ad entrare nel medesimo club, come la Polonia.

Il modello di Nitti e la cultura dei suoi eredi mostra di avere molti punti di contatto con questo impianto di ragionamento, anche se esso appare molto vincolato, in ragione del momento storico in cui prendeva corpo e trovava applicazione, al comportamento virtuoso dell’ elite ed ad una percezione che forzava, nei limiti imposti da un mercato finanziario iper regolato, i trasferimenti dall’esterno dell’area meridionale verso i grandi investimenti necessari per compensare la sua relativa arretratezza.
Ma, con le dovute cautele lessicali, si potrebbe dire che la nascita dell’IRI rappresentò una colossale cartolarizzazione che serviva a restituire liquidità alla Banca centrale, incagliata nel finanziamento delle partite infruttifere che le grandi banche d’investimento esponevano nei propri attivi. Si potrebbe anche dire che la Cassa del Mezzogiorno rappresentò una Special Purpose Entity (SPE) dello Stato italiano per la creazione di infrastrutture di base nel Mezzogiorno in regime di project financing: grazie alla partnership con grandi finanziatori internazionali. Così come Crediop ed Icipu rimandano, ancora una volta, alla tecnica delle SPE’s per raccogliere fondi necessari al finanziamento di infrastrutture tariffabili e public utilities.

La stessa nascita della Svimez, come attore capace di introdurre una modernizzazione culturale ed una sostanziale innovazione dei processi di formazione avanzata per la classe dirigente futura, è un chiaro esempio di investimento in direzione del capitale sociale, e della conoscenza, come beni intangibili e necessari al processo di crescita. Nessuno, insomma, potrebbe negare che un’azione di institutional building, integrazione con il mercato finanziario internazionale e promozione attiva del processo di accumulazione rappresentasse la base di riferimento del progetto di sviluppo di quella classe dirigente.

I fenomeni degenerativi che hanno condotto alla progressiva dissoluzione di quel sistema sono stati tre:
1. un progressivo vizio culturale di segno statalista, che si allargava in ragione della crescente influenza della formula di centro-sinistra sull’originario impianto, più liberale, della politica economica;
2. l’utilizzazione in chiave redistributiva e non produttiva di quelle istituzioni, progressivamente rese statali e cioè snaturate rispetto alla configurazione originaria di SPE’s;
3. un crescente tasso di corruzione, che era anche il risultato oggettivo della progressiva estraniazione dal mercato e dal vincolo comportamentale, che esso genera in termini di efficienza allocativa nel processo di accumulazione.

La ripresa di un processo di crescita endogena nel Mezzogiorno si deve fondare su una ripresa ed una rivisitazione di quell’impianto nittiano originario che sappia reinterpretarne le intuizioni originarie alla luce delle esperienze contemporanee in materia di crescita economica e sviluppo civile. Assumendo una prospettiva liberale della crescita e rifiutando ogni suggestione statalista e vincolista del processo di accumulazione.
Le direttrici operative di una simile prospettiva sono quattro:
1. una rivisitazione dei processi di decentramento amministrativo politico della macchina statale in termini di sussidiarietà tra i vari livelli territoriali e di contenimento dello spettro di competenze e riserve di intervento per la macchina della pubblica amministrazione; federalismo, liberalizzazioni e privatizzazioni sono tre dimensioni della medesima politica;
2. la creazione di infrastrutture tariffabili e di public utilities in relazione a mercati ottimali in termini di scala, senza angustie e limitazioni dettate dalle dimensioni degli enti pubblici locali esistenti (regioni, province e comuni);
3. la diffusione di strumenti fiscali ed automatici per il supporto degli investimenti e l’allargamento della nozione di investimento alle componenti tecnologiche intangibili che oggi ne rappresentano la gran parte, in uno con la progressiva scomparsa delle numerose forme di selezione discrezionale e di incentivazione finanziaria dei progetti di investimento in termini di mera integrazione delle strutture materiali ed immobiliari degli impianti esistenti;
4. il progressivo allargamento dello spettro degli intermediari e dei prodotti finanziari, in uno con il rafforzamento della cultura finanziaria, alla scala dell’intero mercato meridionale nella prospettiva di una generalizzata espansione delle dimensioni di impresa e di un superamento della frammentazione e del nanismo che caratterizzano oggi la morfologia della struttura industriale locale.

Questo impianto di politica economica richiede che siano soddisfatte tre condizioni di contorno:
-una maggiore internazionalizzazione delle imprese meridionali perché è la scala dei mercati che determina le dimensioni di impresa;
-l’adozione di incentivi e procedure, nelle misure di liberalizzazione e di privatizzazione nella gestione di infrastrutture ed utilities, che assicurino la formazione, come sta già avvenendo nell’economia del Centro-Nord, di nuovi soggetti imprenditoriali che abbiano solide radici nella dimensione imprenditoriale locale;
- una riduzione sostanziale delle materie di competenza della pubblica amministrazione, che dia luogo ad una macchina più snella, più qualificata nelle sue risorse umane e più concentrata sulle funzioni basiche dell’intervento pubblico; applicando anche meccanismi di premialità e competizione, nell’attribuzione delle risorse, affidate dai livelli superiori a quelli inferiori, che rappresentino incentivi virtuosi per la selezione della classe dirigente - in termini di rappresentanza politica - e la formazione di una vera tecnostruttura pubblica, ai livelli dell’operatività amministrativa.

novembre 2002