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[IL DOCUMENTO DI BARI]
L’eredità di un passato difficile

L’asimmetria organizzativa e l’asimmetria territoriale dipendono, in termini logici, dall’assenza di un vero mercato dei capitali e rappresentano, in termini storici, l’eredità di un passato difficile. La durezza della crisi negli anni Trenta costrinse il Paese ad ingessare il mercato dei capitali. Venne nazionalizzato il sistema bancario e le poche grandi imprese ad alta tecnologia vennero “congelate” nei geniali contenitori ideati da Beneduce.

Quei contenitori - l’IRI, gli Istituti di credito a medio termine e la Cassa del Mezzogiorno - diventarono gli strumenti di un’inefficiente mediazione tra economia e politica nei successivi anni Settanta mentre l’asimmetria territoriale e quella dimensionale consentivano alle imprese del “triangolo industriale” di diventare il centro della vita economica italiana. Ma questo processo degenerativo nulla toglie, come diremo anche in seguito, alla razionalità implicita ed alla sostanziale attualità che caratterizzano l’impianto culturale delle politiche che, da Nitti a Saraceno, passando per Beneduce, Menichella e Carli, hanno disegnato il profilo istituzionale degli strumenti per la crescita economica in Italia. Quelle politiche sono datate, e condizionate dal regime di autarchia in cui vennero realizzate ma, mutatis mutandis, esse presentano una sostanziale validità e rappresentano una lezione cui riferirsi ancora oggi.

Negli anni Ottanta sono venuti meno tutti i Pilastri che sorreggevano quella singolare costruzione. Ma, mentre le banche hanno utilizzato gli anni Novanta per trasformarsi in socetà di capitali, fondersi e concentrarsi tra loro - raggiungendo una dimensione adeguata alle dimensioni del nuovo mercato unico europeo - questo non è ancora avvenuto nel tessuto industriale ed, in assenza di un mercato dei capitali ampio ed integrato con il mercato mondiale, sarà molto difficile che avvenga. La politica economica italiana si sta misurando adeguatamente con questi problemi? Prima di rispondere a questo interrogativo bisogna valutare un’ulteriore forma di dualismo che divide la realtà economica nazionale: non solo tra Nord e Sud ma anche nelle diverse reazioni delle regioni meridionali ai processi che hanno segnato gli anni Novanta.

Come abbiamo già detto, negli anni Novanta la dinamica del Pil nelle regioni italiane ha avuto una traiettoria inedita. I dati mostrano chiaramente che in Italia esiste oggi una “questione settentrionale”. Per fare emergere il problema bisogna rinunciare alla canonica distinzione tra Nord e Sud. In questo caso, infatti, i numeri ci direbbero ambiguamente che il Mezzogiorno batte il Centro-Nord negli anni compresi tra il 1996 ed il 199 ma è battuto nel 2000, per tornare a dominare l’altra ripartizione nel 2001. Questa altalena nella graduatoria della crescita si svolge intorno ad un tasso di periodo che indica il tetto del 2% come crescita annua delle due ripartizioni. Un valore ridicolo se si riflette ai tassi degli anni Sessanta, quando Nord e Sud crescevano ad un ritmo annuale superiore al 5%. Ma, se si scompone l’Italia in quattro regioni, piuttosto che in due, allora si vede che i “nuovi deboli” sono gli abitanti del Nord-Ovest ed i “nuovi forti” si concentrano nelle aree del Nord-Est e del Centro.

Il Mezzogiorno cresce più del Nord-Ovest, ma meno dei “nuovi forti”. Questa è la curiosa evidenza statistica. Cerchiamo di interpretarla: sia per quello che essa ci rivela sulla nostra storia recente che per quello che ci può insegnare sulla dinamica strutturale degli ultimi cinquant’anni. Iniziamo da lontano: dagli anni Cinquanta.

Il problema del mancato recupero del divario tra Nord e Sud ha una soluzione evidente: in genere, e per oltre cinquant’anni, i due tassi di crescita, quello del Mezzogiorno e quello del resto dell’Italia sono stati sempre molto vicini tra loro e, quindi, anche vicini alla media italiana. Il Mezzogiorno partiva in ritardo di sviluppo, non ha mai avuto una prolungata e marcata accelerazione e, di conseguenza, non ha mai veramente recuperato il proprio ritardo. Tra il 1950 ed il 1970, cioè nei venti anni del “miracolo economico”, l’Italia è cresciuta ad un tasso medio annuo superiore al 5%: il Nord andava al 5,6% ed il Sud al 4,7%. Gli anni Settanta, dominati dalla stagflazione, cioè dalla miscela di depressione ed inflazione, hanno compresso al 2,2% annuo la media nazionale: il Nord stava poco sotto la media ed il Sud si consentiva un 2,3%. Dal 1983 al 1990 la crescita peggiora per tutti ma per il Nord di più. Nel triennio dal 1990 al 1993 tutte le regioni scontano uno stop della crescita. Ma la rilevazione dei dati sul Pil viene modificata nel corso degli anni Novanta. Dal 1995 la misura è diversa per la natura dei fenomeni osservati e le serie storiche diventano difficilmente confrontabili. Resta confrontabile il ritmo della crescita; dal 1996 al 2002 il Mezzogiorno, infatti, si prende la rivincita sul Centro-Nord perché batte il “triangolo industriale”, ma non riesce a correre con la velocità dell’Italia centrale e della macroregione di Nord-Est.

Il Mezzogiorno, ci dice la nostra storia economica, rallenta meno quando l’economia va male. Perché vive di sussidi e trasferimenti da parte della macchina pubblica: e quei trasferimenti hanno una forte componente inerziale. La spesa pubblica, per infrastrutture, incentivi, pensioni o sussidi, non risponde alla disciplina del mercato ma alle routine della burocrazia.
In una prospettiva di lungo periodo il Mezzogiorno cresce più velocemente solo in due periodi: dal 1983 al 1993 e dal 1996 al 2002. Nel primo periodo la dinamica del Pil meridionale è stata alimentata dalla spesa pubblica domestica. Nel secondo periodo, essa è stata alimentata da una combinazione tra spesa domestica e spesa europea: entrambe rigorosamente pubbliche. C’è una componente di effervescenza locale nell’economia meridionale degli anni Novanta ma ha garantito un assai modesto 2% l’anno di espansione: solo un terzo della velocità con cui la vituperata Cassa spingeva la crescita negli anni Cinquanta.

Ma perché il Nord-Ovest ha rallentato? Il Nord-Ovest è davvero l’isola dei nuovi poveri o è solo una grande bolla di benessere che ha smesso di espandersi? Le risposte sono evidenti.
Quell’area del Paese ha subìto la grande trasformazione dall’economia del fordismo a quella dei servizi e della flessibilità.
Si è arenata la grande industria tradizionale e si è scatenata, sui mercati esteri ed in direzione di quei Paesi, destinatari dell’allargamento ad Est dell’Unione europea, sia la media industria del Nord-Est che la forza produttiva della “terza Italia”.

Ma a Torino, oggi, vivono male come nell’Aspromonte?
Sarebbe temerario affermarlo. Certo è che le banche dinamiche sono quelle del Nord-Est. Le star del sistema sono l’Ambroveneto, che ha scalato la Cariplo e la Comit, ma anche la Popolare di Verona che si è fusa con quella di Novara, o l’AntonVeneta che approda in Borsa. I “nuovi forti” sono gli attori economici di quella parte del nostro Paese che confina con la Slovenia e che ritrova le sue radici nella storia dell’Impero austro-ungarico.

Le imprese e le famiglie del “triangolo industriale” non saranno i “nuovi poveri” ma certamente godono oggi del privilegio che i sistemi democratici riservano ai deboli: una compensazione in termini di rappresentanza politica. La scena politica del sistema era dominata da una classe dirigente e da una cultura di Governo che, ironicamente, l’avvocato Agnelli attribuiva alle radici intellettuali della Magna Grecia, quando la Cassa del Mezzogiorno agiva efficacemente o quando la macchina pubblica ridistribuiva la ricchezza tra Nord e Sud.

Oggi non si può dire altrettanto. L’economia del Nord-Ovest è più lenta, ma è ancora grande, e la rappresentanza politica di quegli interessi non è affatto debole. Tuttavia, non si può considerare il cosiddetto “Asse Bossi-Tremonti” l’origine di una congiura in danno degli interessi meridionali. Gli interessi sociali si coagulano grazie alle organizzazioni di rappresentanza ed alle convergenze tra gli attori della crescita, individui ed imprese, e determinano la base oggettiva della politica. Senza quella base, che ne rappresenta la forza, non esisterebbe la stessa funzione di rappresentanza politica. È la rappresentanza che, come accade nel surf, cavalca l’onda della coesione sociale per assicurare la tutela degli interessi presenti nella comunità.

La società meridionale non è coesa e non è in grado di offrire una base oggettiva ad una credibile rappresentanza politica: è accaduto con i Governi dell’Ulivo ed il medesimo pericolo si manifesta anche in presenza di una situazione politica radicalmente ribaltata. È strano e paradossale che la parte ancora debole del Paese, ancorché apparentemente effervescente, risenta di una capacità di rappresentanza politica assai flebile, risulti affascinata da un federalismo che la condannerebbe alle sue magre risorse, si accontenti di questa “spontanea vivacità” e non richieda consapevoli ed intelligenti politiche di integrazione, con il resto del Paese e con l’Europa.

Sembra, tuttavia, che gli equilibri della politica riflettano, come in uno specchio, la natura asimmetrica dello squilibrio economico territoriale. Perché la politica, che della politica economica rappresenta la cabina di regia, sembra essere molto attenta alla fragilità della delicata trasformazione del “triangolo industriale” piuttosto che alla delicatissima ricostruzione di un equilibrio economico per il Mezzogiorno e per la sterminata prateria delle piccole imprese. Ci sono, è vero, riforme di sistema che tendono a riproporre il valore di un regime di mercato per l’economia.

Ma è abbastanza difficile che imprenditori titolari di microaziende, e drogati da un regime prolungato di agevolazioni ed aiuti di Stato, possano subito ritrovare il vigore dei consumati navigatori nei mari difficili della congiuntura internazionale e dei mercati mobiliari. I risultati delle recenti elezioni amministrative, infine, hanno rilanciato dalle colonne dei quotidiani l’esistenza di una vera e propria “questione settentrionale”. Hanno detto alcuni osservatori che, proprio per l’omogeneità che esiste tra le maggioranze locali e quella nazionale, al Nord si avverte tutta l’incertezza delle tutele offerte dalla politica economica nazionale agli interessi sociali in gioco. Del resto è in quelle regioni che la crisi del fordismo mette a nudo i nervi della società mentre l’incertezza internazionale rallenta la sostituzione dei vecchi leader con i nuovi. Nel Sud, al contrario, la diversificazione delle maggioranze locali rispetto a quella nazionale, indebolisce ed attenua la sensazione di una politica che non tuteli adeguatamente le forze sociali: perché la competizione tra gli schieramenti attiva, senza molte prospettive di lungo periodo, ammortizzatori locali rispetto ai vuoti della politica nazionale.

Nel quadro che abbiamo delineato questa interpretazione potrebbe paradossalmente anche essere ribaltata. L’effervescenza apparente del Mezzogiorno non è una prospettiva credibile senza una solida ripresa dell’intera economia nazionale. Ed allora, il Mezzogiorno diventa un tema pericoloso per maggioranze locali eterogenee rispetto a quella nazionale: le spinge a mostrarsi ottimisti ed ad indebolire la pressione sul Governo perché acceleri le scelte capaci di rilanciare, in termini di mercato, la crescita. Ma sarebbe strano che maggioranze locali di centro-sinistra si dichiarassero più liberiste del Governo di centro-destra.

Questo equilibrio degli equivoci, in definitiva, non giova ai partiti politici e non genera frutti per gli interessi sociali che quei partiti devono rappresentare ed interpretare. E nel Nord non è detto che la new economy, che guarda ad Est, sia capace di assorbire gli effetti della crisi della old economy del Nord-Ovest. Sarà meglio, allora, che i partiti politici, e la politica economica del Governo, facciano francamente ed esplicitamente i conti con le asimmetrie territoriali e dimensionali del Paese che sono chiamate a dirigere..

novembre 2002