da Ideazione - marzo 1998
IL MERIDIONALISMO
DELL'ERA GLOBALE
di Vincenzo Viti

Si pone, oggi, una nuova questione meridionale? È certo, in ogni caso, che esiste una nuova questione italiana che è il frutto di un mutamento delle stesse dimensioni dell’economia e della dilatazione degli orizzonti civili. Termini come globalizzazione e mondializzazione non portano solo in sé un’enorme suggestione. Sono la fotografia del cambiamento epocale di prospettiva dentro la quale va collocata la nostra osservazione e alla quale va rapportato il tema del Mezzogiorno, per evitare di cadere dentro vecchi orizzonti domestici. Chi ha osservato che la mondializzazione dell’economia mette in crisi l’unità italiana, ha ragione. Per effetto della globalizzazione, i processi di sviluppo ridisegnano grandi aree che non coincidono con i confini nazionali. Una volta, lo sviluppo aveva a riferimento i mercati nazionali e le forme della regolazione politica. L’irrompere del mercato globale e la caduta delle vecchie paratie commerciali hanno cambiato i termini tradizionali della questione sociale e della questione nazionale. Un potente fattore di accelerazione del processo di globalizzazione è avvenuto sotto il segno e per la spinta dell’integrazione fra i sistemi di comunicazione. Una sorta di logos universale tende a unificare territori, ad omologare spazi civili, a coinvolgere le società umane ponendole di fronte alla prospettiva di un destino unidimensionale. Ciò ha in qualche modo inciso , sicché, com’è stato scritto, la  . La mondializzazione ha fatto venir meno lo scambio che teneva insieme l’Italia e che reggeva il sistema duale italiano fra un Nord competitivo e un Sud come grande mercato protetto. E in qualche modo ha sprovincializzato la questione meridionale, sottraendola al suo tradizionale orizzonte storico e civile.

L’economia dell’informazione - dicono gli scienziati sociali e i futurologi -  . Non è un caso che si ponga l’urgenza di ripensare profondamente l’intervento pubblico in un tempo nel quale la scarsità relativa delle risorse pretende una ridefinizione delle grandi priorità civili legate alla sicurezza sociale e al Welfare State, e alle condizioni minime di sussistenza poste in discussione dalla crisi dell’economia.

La questione meridionale, se ci guardiamo alle spalle, ha navigato fra una lettura statistica dei numeri dell’arretratezza e la tentazione sociologica di scrutare i mutamenti intervenuti nel costume e nei consumi. Il meridionalismo, per i termini nei quali classicamente si è proposto, si è posto piuttosto come "una scienza a geometria variabile" a seconda dei criteri e delle chiavi interpretative che l’hanno raccontato. Putnam ha osservato il Mezzogiorno seguendo la linea ideale del civic-ness (cioè del capitale civico); Bagnasco lo ha descritto attraverso la saga non lineare e schizofrenica dell’occupazione; l’ultimo libro di Campigli offre una descrizione dei parametri di valutazione del diverso costo della vita, al Nord e al Sud; Meldolesi è entrato nel mercato invisibile dell’imprenditoria meridionale; Trigilia ha compiuto il censimento dei distretti virtuosi del Sud. E perfino uno storico come Piero Bevilacqua, scrutando nelle pieghe dell’alto Medioevo, ci ha consegnato una lettura della questione meridionale tutta centrata sulla simbiosi fra l’economia agricola del Sud e le città-Stato del Nord, traendone la convinzione che già  , peraltro perfettamente noto agli storici del tempo.

Ma sono sufficienti queste letture del carattere dello sviluppo italiano, per darci un’idea delle dimensioni del problema? La domanda alla quale è necessario rispondere è se si possa ancora parlare di una "questione meridionale". O se non vi sia ormai la consapevolezza che quella che da più parti viene definita la disunità d’Italia (Bassetti: l’Italia si è rotta?) non derivi, oggi più di ieri, da dinamiche di livello internazionale che stanno mutando la politica del pianeta. Un’analisi macroeconomica ha preso in esame l’ipotesi di uno sganciamento del Nord dal Sud del pianeta (nel quale sono addensati 2/3 degli abitanti della terra). Non sottacendo che il Nord ha sempre meno bisogno del Sud, poiché risolve nelle sue relazioni interne e con l’autosufficienza scientifica e tecnologica di cui dispone i problemi legati allo scambio con i Paesi in via di sviluppo. Il Sud del mondo è divenuto sempre più esterno ai processi di accumulazione, agli standard di vita, al potere su scala mondiale.

L’intera Africa - si può leggere in una di queste analisi - alla fine degli anni ’80 rappresentava solo il 2% del commercio mondiale. E se ciò è avvenuto per interi continenti, si può immaginare cosa stia accadendo per le realtà nazionali. In effetti, la crescita del mercato globale ha reso sempre meno rilevanti le politiche di regolazione a livello nazionale. È entrato in crisi il ruolo economico dello Stato che è stato così costretto nella forbice fra forme di integrazione sovranazionale e sistemi di relazione infraregionali. Un libro di successo, qual è quello scritto da Kenichi Ohmae, spiega il fenomeno dell’integrazione interregionale correlato al deperimento del livello statuale quale centro di regolazione dei rapporti fra le economie continentali e i distretti locali.

Dentro questa cornice è andata ponendosi in Italia una questione settentrionale. Parlo della questione di un’area che contribuendo, con il 43% della popolazione, al 72% dell’export nazionale e al 68% del prodotto industriale, e ponendo in relazione solo il 55% del reddito nazionale con il 49% dei consumi, ha posto in discussione i vincoli con il resto del Paese.

Dal canto suo, il Mezzogiorno ha vissuto una nuova fase del dualismo, nella quale entrava in crisi la dimensione primaria dell’intervento nelle aree arretrate e si affermavano tendenze assai forti verso la mercatizzazione dell’economia. La fine del modello di crescita ad offerta illimitata di risorse pubbliche ha comportato e sempre più esigerà un ripensamento delle politiche economiche generali, soprattutto poiché si imporranno tagli drastici alla spesa pubblica e quindi la drastica riduzione dei trasferimenti di reddito verso il Mezzogiorno.

Per dare un’idea di quel che potrebbe accadere alla luce degli accordi di Maastricht, è stata ipotizzata la riduzione del disavanzo pubblico per 100mila miliardi l’anno per il triennio. Ciò indurrebbe un taglio di spesa per il Mezzogiorno fra un minimo di 25mila miliardi e un massimo di 36mila miliardi: che comporterebbe una secca riduzione di reddito disponibile nel Mezzogiorno per gli investimenti, per i consumi, per l’occupazione. Alla caduta di redditi, consumi e investimenti reagirebbe un meccanismo deflattivo che potrebbe essere fronteggiato solo abbassando il costo del lavoro (già più basso nel Sud rispetto alle altre aree del Paese) e intervenendo sugli stipendi pubblici e sul turn-over.

A proposito degli interventi realizzati nel Mezzogiorno, uno studioso come Trigilia, parla di un  . La verità è che esso ha cambiato la connotazione della società meridionale, avvicinandone la struttura (almeno nelle grandi linee) a quella nazionale. In effetti, la società civile del Sud si offre a molteplici chiavi di lettura, se è vero che nel suo seno si è andata proponendo quella neo-borghesia, così attentamente studiata dalle scuole sociologiche di successo, alla quale viene affidato il compito, non solo nel Sud, di guidare il ceto medio verso il conseguimento di una coscienza più forte del suo ruolo dirigente nella vita italiana.

La questione meridionale traeva ieri la sua identità e la sua natura dal rapporto fra Mezzogiorno e Stato. Oggi che lo Stato nazionale è in crisi e che l’Italia viene attraversata, proprio per l’intrecciarsi di fattori internazionali e di ragioni interne, dal vento della rottura e della disarticolazione, occorre prendere atto di un sostanziale mutamento dei termini della questione.

Due grandi processi sono in pieno svolgimento in Italia: 1) l’Europa attrae il Nord e crea un nuovo tipo di questione settentrionale, connotando il nuovo divario italiano come non più solo economico e sociale, ma politico, fra Nord e Sud; 2) il sistema istituzionale, sostanzialmente centralista, assai difficilmente saprà adeguarsi a quella forma di Costituzione europea che è il trattato di Maastricht (Bassetti: l’Italia si è rotta).

È quindi l’Europa che, chiamando il Nord, di fatto esalta il divario fra Nord e Sud. Ma quali sono le cifre del divario che Bassetti elenca impietosamente? Si tratta di cifre che rivelano come la divaricazione fra Nord e Sud abbia ripreso a manifestarsi e come abbia ripreso a peggiorare la qualità della vita e dei consumi. Gli investimenti fissi nel ’95 sono cresciuti nel Sud del 2,8%, e del 7,4% nel Nord. Gli investimenti per abitante, fatto 100 il valore nel Centro-Nord, sono diminuiti di un terzo circa nel Sud, sia per le costruzioni che per le attrezzature e i mezzi di trasporto. Le importazioni nette nel Mezzogiorno sono scese nel quinquennio 199095 dal 17,5 al 12,4 del pil contro il 5,8% nel Nord. Solo il 9% della spesa per l’innovazione e la ricerca è stata indirizzata al Mezzogiorno. I consumi delle famiglie per abitante, fatto 100 il Centro-Nord, nel Sud sono stati pari al 68,9%. Il rapporto fra spesa pubblica allargata e pil oscilla, al Sud, intorno al 75%.

È in rapporto a questi dati che andrebbero valutate le dichiarazioni secondo le quali è necessario non solo andare in Europa, ma restarci!  . In questo quadro, basta la generica invocazione di un legante statale, cioè di più Stato? Di uno Stato che è troppo piccolo per i grandi problemi e troppo grande per i problemi locali?

Ma è poi fatale che l’Europa rompa l’Italia? La risposta a questa domanda deve tener conto delle spinte che vengono sia dalla natura della nuova questione settentrionale sia da quella della nuova questione meridionale, e deve sfuggire al dilemma secondo il quale alla sfida che viene dall’Europa non si possa che rispondere o con la secessione o con la repressione centralista. La nostra condizione di Paese pluralista, attraversato da spinte vitali e contraddittorie, non ci impedisce di guardare all’Europa come ad un’unica, grande opportunità. Il problema - un problema che non è possibile delegare - è come si ridefinisce l’unità nazionale. E quale contributo è necessario dare, dalle distinte ottiche e condizioni nelle quali si opera, a un percorso unitario che porti l’Italia in Europa.

Bassetti osserva che il Sud deve definire il proprio ruolo ed esprimere le proprie potenzialità nell’area mediterranea, così da offrire il suo contributo specifico e complementare alla costruzione europea. C’è un ruolo geopolitico del Mezzogiorno, per il suo costituire il confine con 300 milioni di persone che non staranno sempre nel sottosviluppo e si stanno già muovendo. A un’Europa che non voglia sposare il modello "bismarkiano", il Sud non potrebbe non apparire un mediatore indispensabile verso una domanda sociale così imponente e pressante ai confini.

E mentre il Sud affida le ragioni di una sua forte complementarità strategica all’Europa, il Nord può concorrere ad elevare le capacità del Sud di assolvere a una funzione di traino per lo sviluppo dell’area mediterranea. Tutto ciò restituisce le ali al meridionalismo "europeista". Infatti, solo un meridionalismo in grado di esprimere - come già avvenne in passato, quando si misurò con le grandi questioni nazionali (dal federalismo alle riforme) - un pensiero generale è in grado di concorrere alla definizione di un percorso nazionale verso l’Europa.

In una parola, l’Europa può costituire il motivo della rottura così come il motivo di una nuova e diversa unità del Paese. Dipenderà dalla capacità di far nascere un nuovo movimento nel Sud, che punti su un nuovo significato dell’unità nazionale, e dall’impegno che sarà posto nel definire il suo contributo specifico all’obiettivo europeo: poiché il problema politico (e storico) della classe dirigente italiana è portare in Europa gli interessi globali del Paese, proprio partendo dalle sue differenze e non negandole o pretendendo un’impossibile omologazione.

Ciò implica la capacità di costruire un progetto unitario in funzione dell’Europa, che sia un progetto di Patria europea; di fare dell’azione politica e istituzionale italiana un capitolo di quella europea; di realizzare un’unità costruita su autonomie locali collegate alle autonomie europee; infine, di dare sostanza alla proposta di una centralità euromediterranea: un decalogo semplice da enunciare, difficile da realizzare.

Naturalmente, questa impresa deve misurarsi con le trasformazioni che sono in atto negli assetti infrastatuali. Il vecchio sistema di potere gerarchico degli Stati centrali si misura ogni giorno di più con l’intreccio fra autonomie territoriali e autonomie funzionali. La nuova amministrazione evolve e si organizza in nome dei tre criteri della territorialità, funzionalità, reticolarità. Diviene un’amministrazione a rete.

Entra in crisi la statualità ministeriale e si afferma una nuova statualità a geometria variabile, che attraversa i procedimenti costituzionali previsti dalla Carta costituzionale e dal trattato di Maastricht. Forse non ci si è accorti quali e quante modifiche Maastricht abbia introdotto o stia introducendo negli ordinamenti nazionali: si pensi solo alla sovranità in materia di moneta. È saltato il modello monista dentro il quale potevano esprimersi e coesistere modernizzazione ed autonomie, in parallelo con la crisi del centralismo dei partiti storici. È entrato in crisi il modello del centralismo fiscale, riabilitando il tema del federalismo. Quest’ultimo è strettamente collegato al tema delle libertà e delle autonomie, tema che è uno dei fili conduttori della storia politica e civile del Mezzogiorno. Nella costruzione di un progetto unitario per l’Italia in Europa, il federalismo non potrebbe che aiutare, proprio perché esso storicamente si è espresso come movimento di unificazione delle diversità e di sintesi delle autonomie territoriali e sociali.

Ha ragione il sociologo e "legologo" Diamanti, quando invita a superare la disputa ideologica intorno al federalismo e a spiegare cosa si intenda effettivamente per modello federale, avvertendo che la prospettiva più apprezzata dagli italiani è quella di un federalismo temperato, che non porti alla rottura e che rappresenti una risposta efficace alle pretese di una società complessa, nella quale lo specifico locale si associa alla crescita dell’internazionalizzazione.

Si tratta di intendersi sui due filoni che si stanno misurando nel dibattito politico. Uno di essi attribuisce al federalismo una connotazione esclusivamente territoriale e urbana, rafforzando lo schema gerarchico e centralista. Forse non si è sufficientemente riflettuto sul fatto che probabilmente la centralità delle città come asse della riforma dello Stato in senso federale significherebbe reclamare un decentramento meramente amministrativo. Seguendo l’altro filone, pensare il federalismo come un regionalismo rinforzato non eliminerebbe i problemi che il decentramento regionale ha prodotto e che sarebbe inutile rammentare. Basti pensare solo all’involuzione "granducale" di alcune esperienze regionali: monadi senza porte e senza finestre, universi chiusi e impermeabili.

Il modello federale deve sempre più misurarsi con il sistema a rete che, com’è noto, è un sistema senza centro che può essere governato solo agendo sui nodi e tramite le regole. Dallo Stato-nazione presto si passerà allo Stato-rete, destinato a perdere sovranità verso l’alto e verso il basso e a diluire orizzontalmente l’autorità verso soggetti collettivi, quali le autonomie funzionali e le autonomie sociali. Si imporranno le funzioni sulle competenze, proprio perché    (Bassetti).

In questo quadro il federalismo si porrà sempre più come un sistema aperto e in movimento e come un processo di legittimazione che viene dal basso, dalle basi pluralistiche e poliarchiche della società. E non v’è chi non veda come sia fatale, in un sistema federale, potenziare la leadership del potere centrale in grado di reggere e di condurre a sintesi le spinte autonomistiche che salgono dal corpo civile del Paese. Sono qui i contenuti di un nuovo patto generale, capace di individuare e coinvolgere interessi e valori del Nord e del Sud in un nuovo progetto di unità nazionale.

D’altra parte, chi ha letto, di Bassolino, La Repubblica delle città, l’ha trovato interessante, pur dentro uno schema illuministico. Vi si sostiene che in questi anni di cambiamenti convulsi ha prevalso il principio guida della ricostruzione dei diritti di cittadinanza, delle basi elementari della libertà e della partecipazione democratica, che nell’ultima fase del pentapartito si erano seriamente e pericolosamente incrinate sotto l’impulso della stagione referendaria. È assai difficile capire, dalla convinzione che se n’è fatta Bassolino, se questa fase inedita del maggioritario somigli o meno, al di là delle formule elettorali e delle tecnicalità che le sorregge, a un pentapartito rovesciato, con forze che aspirano a far valere la loro utilità marginale e quindi a pesare oltre misura negli equilibri di governo. In una parola, se è davvero magico il momento che viviamo o non è tempo di imprimere al bipolarismo quella spinta innovativa che lo solleciti ad essere qualcosa di più (e di meglio) di un proporzionalismo camuffato e costretto nella camicia di Nesso di consorterie obbligate o di ricatti sistematici. Per la verità, Bassolino ribadisce che il nesso fondamentale del rapporto fra democrazia e Stato è il concetto di cittadinanza, fondato sulla libertà: valore che la sinistra deve ancora metabolizzare, facendo i conti con la tradizione liberale, .

Con questa sfida deve misurarsi il Mezzogiorno, oggi che la questione meridionale è finita nei suoi termini classici e che si pone il tema della nuova unità italiana. Tutto ciò implica, in sintesi, che occorre costruire un processo rovesciato rispetto a quello risorgimentale. Se quello fu il compimento della conquista regia e prefettizia (in un libretto di Sergio Romano viene ricordato il dibattito sui due modelli alternativi, quello di Crispi e quello di Farini, relativi alla struttura e all’articolazione dello Stato unitario), questo deve essere un processo ricostruttivo dell’identità nazionale, fondato su un’idea della partecipazione, dell’iniziativa popolare, della cittadinanza come parametri non solo italiani ma già oggi europei.

Lo storico Bevilacqua ha scritto che  . Le stesse identità regionali, che appaiono più consolidate, si sono definite in ragione dell’emigrazione, cioè come reazione culturale e sentimentale a un processo di dispersione. La secessione - per Bevilacqua - non ha fondamento, perché c’è stato un grande intreccio di etnie. L’Italia è un Paese di civiltà multiple. Non ha conflitti religiosi. La sua è una religione non integralista, ma intrisa di forti elementi di laicità.

A questo punto, la domanda che è necessario riproporsi è se abbia un senso parlare di un federalismo delle città (con gli echi giacobini che esso evoca, soprattutto in una regione qual è il Mezzogiorno, che Isnardi definiva "senza città") che ruoterebbe intorno a una preordinata gerarchia di realtà urbane, fra l’altro lontane fra loro e separate da un territorio che ha bisogno di un forte disegno di riorganizzazione. Così come se abbia valore puntare su un "federalismo delle regioni".

È vero che va facendosi strada, sia pure ambiguamente, l’applicazione del principio di sussidiarietà (eredità talvolta misconosciuta del pensiero sociale cattolico, specificamente sturziano) non solo fra gli Stati membri e il diritto comunitario, ma anche fra la Comunità e le realtà regionali e fra gli Stati e le regioni nell’ambito dello stesso ordinamento nazionale. Tuttavia, il principio di sussidiarietà chiama in causa l’esperienza regionale italiana, la sua capacità di sottrarsi al destino granducale che l’ha connotata. E soprattutto esige che si compia una scelta, che è stata finora elusa, fra un modello politico e un modello amministrativo di Stato regionale. Il regionalismo italiano appare oggi troppo debole per gestire le autonomie, ma anche troppo forte per consentire un effettivo coordinamento fra centro e periferia.

Infatti, proprio la morfologia a rete dello Stato esige un ripensamento dei legamenti, delle gerarchie, delle integrazioni che è necessario stabilire fra le autonomie legislative, territoriali e funzionali, se si vuole far evolvere il sistema italiano verso il modello europeo.

Sembra, dunque, evidente il raccordo che è necessario stabilire fra riforme istituzionali e forma di governo. Il federalismo non può essere coniugato che in sintonia con un potere centrale forte, imperniato sulla prevalenza dell’esecutivo, con un presidente dotato di ampie prerogative.

La via legale per realizzare questi obiettivi è la via dell’intesa e delle larghe alleanze, anche perché elaborare un progetto federale, che si alimenti a un forte senso di identità nazionale e ad un sentimento di solidarietà civica, non è operazione semplice e lineare.

Per concludere:

1) la mondializzazione e la globalizzazione hanno modificato i termini storici, territoriali, sociali dello sviluppo in ambito nazionale;

2) lo Stato nazionale evolverà sempre più rapidamente verso un ordinamento a rete, che organizzerà il sistema delle autonomie territoriali, sociali e funzionali e che favorirà i processi di integrazione con i sistemi locali dei Paesi europei. Le due direzioni di movimento dell’integrazione riguarderanno l’ambito sovranazionale e comunitario e l’ambito infraregionale;

3) la questione meridionale e la questione settentrionale sono state riproposte nella loro drammatica alternatività dalla prospettiva europea. L’Europa pretende comportamenti nazionali virtuosi e coerenti. Ma l’Europa può "rompere" l’Italia con la sua pretesa (legittima) di integrare un’area che sia al suo interno coesa, o può aiutarla a trovare il bandolo di un percorso unitario verso l’Europa;

4) esiste quindi, più che una questione meridionale, una questione italiana, che è la questione dell’identità nazionale. Alla ricostruzione di un destino unitario il Mezzogiorno può dare (anzi deve dare) un contributo specifico, dimostrando la sua capacità di esprimere un pensiero generale e individuando così la via che lo porti a un vincolo di complementarità con il Nord, in Europa;

5) il Mezzogiorno deve quindi sin d’ora assumere i parametri, le tabelle di marcia, i costumi politici e istituzionali, i comportamenti di area euro-mediterranea in grado di concorrere sia a un nuovo modello di unità nazionale, sia al successo della prospettiva europea;

6) il Mezzogiorno diviene così il punto di incrocio fra questione nazionale, questione sociale (poiché è il bacino di addensamento delle risorse di lavoro), questione istituzionale. L’ipotesi federale, come ipotesi di ricostruzione dell’unità del Paese (e non di divisione dell’Italia), può trovare nel Mezzogiorno i soggetti e le reti per avanzare: la Regione, le città, le autonomie funzionali devono farsi sistema ed entrare finalmente nella modernità;

7) lungo questo percorso ritroviamo tutti i nodi che aggrovigliano la vita italiana: la disoccupazione, le insufficienze della pubblica amministrazione, un sistema di imprese sovente marginale, giacimenti di risorse senza progetto, una classe dirigente selezionata dal caso che a volte appare emergere dal nulla e candidarsi al nulla.

Vincenzo Viti


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