da Ideazione - settembre 1998
POMPEI, LA CULTURA
COME RISORSA 

di Giuseppe Mancini

Entrare nell’antica Pompei è come tuffarsi: un’esperienza che trascende il razionale, come l’erotismo e l’ebbrezza, come la morte. Entrare nell’antica Pompei è come scendere nell’Ade, alla ricerca di significati profondi, di sensazioni sconcertanti, di verità nascoste. Ci si proietta verso l’ignoto e si atterra in uno spazio liminale, un luogo "a parte", anche temporalmente: un luogo isolato, qualitativamente diverso dal mondo che lo circonda, immerso nell’eterno presente di un tempo mitico ed immutabile. Ciò ch’è morto, e pur vive, ci parla e ci attrae: s’odono bisbigli di Sirene e si è obbligati a respirare l’incorporeità di questo mondo surreale, forse assurdo. Nasce la voglia di girarsi a controllare se abbiamo ancora un’ombra, o se qualcuno l’ha portata via, come a Peter Schlemihl. Ciò che veramente colpisce e penetra sensi, ossa, viscere è proprio lo stretto e palpabile legame tra vita e morte. Quella morte così orribile, apocalittica, impietosa che ha significato oggi, per Pompei, una nuova vita, diversamente da ogni altra città dell’antichità, distrutta o contaminata dai secoli. Quella morte così travolgente, improvvisa, immediata, che ha colto le persone nel pieno delle loro attività quotidiane; Pompei nel pieno del suo sviluppo commerciale, politico e culturale. Scrive, nel suo Viaggio in Italia, Adolph Peter Adler: «Quando si vede Pompei si può dire che si sta come davanti ad una morte ancora recente. È come vedere un giovane portato via mentre attendeva agli affari della vita, con la vita davanti agli occhi».

Il 24 e 25 agosto del 79 d.C., l’eruzione del tutto inaspettata del Vesuvio, quel monte fitto di boschi, di vigneti ed oliveti che così rivelava la sua natura vulcanica, ha soffocato e sepolto Pompei di gas venefici, ceneri, pomici, lapilli, formando una coltre spessa dai 6 agli 8 metri. Tale strato, nel corso dei secoli, ha protetto la città antica dall’azione disgregatrice degli agenti atmosferici e dall’azione predatoria degli uomini, condannando Pompei ad un lungo oblio. Proprio quest’anno si è celebrato il 250° anniversario della riscoperta di Pompei e dell’inizio di quegli scavi che, a partire dal 2 aprile 1748, l’hanno riportata alla luce, seppur in misura ancora incompleta (dei 71 ettari dell’area compresa intra mœnia, ne sono stati scavati 49). In effetti, subito dopo l’eruzione del 79 d.C., alcuni sopravvissuti piuttosto intraprendenti erano riusciti a penetrare nella città sepolta (ed hanno lasciato a testimonianza alcuni graffiti), guidati dalle sommità affioranti delle torri della cinta muraria, a caccia dei loro tesori o di quelli altrui. E già nel 1594, lo scavo di un canale di derivazione del fiume Sarno, realizzato dall’architetto Domenico Fontana e voluto dal conte Muzio Tuttavilla per incrementare l’approvvigionamento idrico di Torre Annunziata, aveva portato alla scoperta in località Civita di pitture murali ed iscrizioni. Una di queste faceva riferimento ad un decurio Pompeiis, ma nessuno se ne curò troppo. Solo nel 1748, esplorando la galleria del Fontana, l’ingegnere dell’amministrazione spagnola Roque de Alcubierre (già iniziatore della prima campagna di scavi ad Ercolano nel 1738), ispirato anche dalle riflessioni di alcuni studiosi, intuì la portata di quei ritrovamenti: lì sotto c’era un’intera città dalle vaste proporzioni, pressoché intatta (credeva si trattasse di Stabiæ, ma successivamente, nel 1763, il rinvenimento di un’iscrizione che faceva riferimento alla respublica Pompeianorum permise la giusta identificazione).

Si scatenò un vero e proprio saccheggio di Stato, interamente promosso e finanziato dai Borbone (pur con diverso interesse e vigore nel corso degli anni), privo di ogni finalità scientifica ma volto all’avido recupero di tesori, opere d’arte e testimonianze del quotidiano degne di eccezionale curiosità.

A partire dal 1860, con la nomina di Giuseppe Fiorelli (a cui si devono anche i celeberrimi calchi di gesso che materializzano gli angoscianti istanti della morte di molti pompeiani) a direttore degli scavi, si cominciarono ad applicare alla ricerca archeologica, divenuta più regolare nell’impegno statale, criteri di sistematica disciplina e di più moderno metodo scientifico. Il Fiorelli istituì per primo un giornale degli scavi, preziosissimo strumento d’inventario e d’informazioni, e soprattutto cominciò a considerare la città antica come vero e proprio nucleo urbano, di cui andava portata alla luce anche la struttura fatta di insulae, regiones, strade e spazi pubblici.

L’opera del Fiorelli venne continuata con ottimi risultati dai suoi successori (in particolare, fu Vittorio Spinazzola ad organizzare lo scavo sistematico del tessuto viario), che egli stesso formò alla Scuola archeologica pompeiana, anch’essa sua creazione. Una nuova e decisiva svolta si ebbe grazie ad Amedeo Maiuri, sovrintendente a Pompei dal 1924 al 1961, che, spinto da una passione inesauribile e da un innato talento archeologico (qualcuno giunse a chiamarlo "rabdomante dell’archeologia"), uniti alla percezione di Pompei come microcosmo da restaurare con metodo e da aprire ai flussi turistici, diede slancio moderno, con imponenti e fruttuose campagne di scavo condotte secondo le più avanzate strategie di ricerca (a Maiuri si devono anche i saggi stratigrafici che hanno offerto preziosa documentazione sulla Pompei pre-romana), a quella che lui stesso descrisse come «la maggiore e più duratura impresa che l’umanità abbia compiuta nella ricerca dell’antico».

Pompei è una città morta poi miracolosamente risorta, una Città dei Morti, come ha scritto Walter Scott, una città oggi moribonda, intrappolata in una feroce e lenta agonia che rischia di farla scomparire per sempre. Un’agonia che ha la sua origine negli anni ’50, quando dissennate scelte di politica economica ed il malavitoso disinteresse di alcune amministrazioni locali hanno fatto sì che i finanziamenti per Pompei fossero drasticamente ridotti e che l’impegno per ricerche scientifiche, restauri (per i quali si è impiegato cemento armato ed iniezioni di cemento, i cui esiti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti) e soprattutto manutenzione si contraesse progressivamente: il patrimonio archeologico dell’area vesuviana era in realtà percepito come fastidioso ostacolo al dilagare della speculazione edilizia.

Pompei è oggi il simbolo degli ambiziosi disegni di Walter Veltroni, che ne ha scelto la sovrintendenza per sperimentare inedite - almeno in Italia - soluzioni amministrative ed organizzative; per creare meccanismi di cooperazione, soprattutto finanziaria, tra istituzioni pubbliche ed imprenditoria privata nella gestione dei beni culturali; per dare un segnale che testimoni la volontà della classe politica di tutelare efficacemente il nostro patrimonio archeologico, artistico, storico. Pompei è anche il simbolo delle occasioni perdute per il Mezzogiorno, in cui si sono volute testardamente imporre strategie di sviluppo industriale - poi rivelatosi del tutto illusorio - in contrasto con le premesse socio-economiche locali. Pompei è soprattutto il simbolo di un Mezzogiorno che - prendendo in prestito, anche se con accezione del tutto diversa, la formula di Eugenia Cavallari (Ideazione, 1/98) - diventi un "laboratorio del post-moderno", ossia uno spazio fortemente dinamico in cui, coniugando ricerca scientifica, nuove tecnologie della comunicazione, coraggio imprenditoriale, patrimonio culturale, bellezze naturalistiche e forza-lavoro, si riesca a valorizzare - finalmente! - la risorsa Cultura (forse l’unica risorsa naturale che rende l’Italia altamente competitivi su scala mondiale) anche a fini occupazionali, cogliendo appieno le enormi possibilità di quella "società del tempo libero" in cui sarà prevalente la sensibilità per i beni e i servizi culturali.

Ma ogni concreta strategia di valorizzazione del patrimonio culturale si fonda preliminarmente sulla conservazione. A Pompei, questo vuol dire affrontare drasticamente le cause del degrado dilagante della città antica. In primo luogo, un cocktail micidiale di agenti atmosferici (pioggia, sole, principi inquinanti), che provoca lo sfaldamento delle murature, che rende gli stucchi altamente friabili, che trasforma gli affreschi in macchie di colore sbiadito; poi arbusti ed erbacce, che contribuiscono all’erosione delle murature e che sollevano con le radici i pavimenti di mosaico, oltre a creare una sensazione di devastante incuria; il numero sempre crescente di visitatori (1.964.279 nel 1997, che fanno di Pompei il museo più visitato d’Italia), che con la loro invadenza tattile, bramosia di frammenti del passato e grafomania, ma anche con il semplice passeggiare, provocano danni irreparabili; l’inaccessibilità di gran parte dell’area archeologica (oggi si può visitare solo il 12% di quello che era aperto 50 anni fa), disseminata invece di transenne, cancelli, sbarramenti, divieti d’accesso - in parte, però, abusivamente aggirabili - mentre ponteggi ed impalcature di sostegno sono nel monumento un monumento al terremoto del 1980: se il numero dei visitatori aumenta e l’area visitabile si contrae, ecco che i danni vengono moltiplicati; la pessima gestione del personale, custodi tanto inefficienti quanto inamovibili e pochissime alte professionalità (basti pensare che tra i circa 780 addetti della sovrintendenza ci sono solo 14 archeologi); infine, e soprattutto, la cronica mancanza di adeguate risorse finanziarie, che rende ardua impresa anche la manutenzione ordinaria a fini preventivi.

Oggi a Pompei c’è un’atmosfera nuova, fervida di speranze e di progetti, di cui è concreta testimonianza l’inaugurazione, proprio in occasione del 250° anniversario dei primi scavi, di 6 tra abitazioni private ed edifici pubblici da decenni chiusi (tra i quali il tempio di Iside, la Villa di Diomede e la Casa del Chirurgo), oltre ad un itinerario di visita che rintraccia gli edifici scavati in epoca borbonica e al circuito extra mœnia, che costeggiando l’area archeologica allarga per 3 chilometri e mezzo (inframmezzati da sporadiche panchine e da un’area picnic, purtroppo di limitata estensione) gli orizzonti del visitatore, dal golfo al Vesuvio, dal santuario mariano ai fondali di palazzoni, dalla città antica dominata dall’alto alle mura, con torri e porte d’accesso. Un’atmosfera in cui germogliano formule d’intervento, sia immediate che più diluite nel tempo, presentate come finalmente risolutive.

In realtà, già le conseguenze disastrose del terremoto del 1980 (ancora una volta la morte e la vita, la distruzione e la rinascita) avevano spinto, nel 1981, all’istituzione di una sovrintendenza archeologica distaccata da quella di Napoli e Caserta, da cui l’area vesuviana prima dipendeva, per affrontare con più decisione i pressanti problemi di conservazione. I cospicui, anche se insufficienti, finanziamenti della ricostruzione hanno permesso al professor Conticello, sovrintendente dal 1984 al 1994, di dar vita ad un vasto piano di restauri (applicando una tecnica di restauro "parzialmente integrativo", con finalità protettive e senza cemento, destinato a non snaturare il monumento ma a resistere nel tempo), di manutenzione (come ad esempio l’applicazione di un efficace e poco costoso sistema di diserbo biologico, che ha liberato buona parte della zona archeologica dagli arbusti e dalle erbacce), di valorizzazione (mostre, convegni, eventi culturali, pubblicazioni, che hanno portato Pompei nel mondo ed il mondo a Pompei, con un’impennata nel numero dei visitatori), di rilancio in grande stile della ricerca archeologica, condotta nella ferma convinzione che per meglio comprendere il passato occorra affiancare alle scienze storiche le metodologie e gli strumenti delle scienze applicate.

Il lavoro di ricerca, fondato su questa filosofia, continua integrando il lavoro dell’archeologo con quello dell’antropologo, del biologo, del botanico, del chimico, dell’informatico, per ricostruire con precisione ed esattezza la vita dei pompeiani nei suoi molteplici aspetti. La dottoressa Anna Maria Ciarallo ci ha mostrato il laboratorio di ricerche applicate, realizzato grazie ad un finanziamento del Cnr, che facilita lo studio approfondito in loco, grazie anche alla collaborazione di numerosi gruppi di lavoro di tutto il mondo, dei materiali più disparati (stoffe, pane, frutta, uova, semi, granaglie, scheletri umani ed animali, vetri, marmi) rinvenuti negli scavi, un tempo dimenticati in depositi inadeguati e in gran parte perduti, adesso conservati in una stanza climatizzata. Un’attenzione speciale è riservata allo studio paleobotanico dei giardini, che consente di ricostruirne la composizione a partire dall’analisi di radici, semi e pollini rinvenuti e di ripiantare le essenze originarie: è stato persino creato un vivaio che produce le piante da utilizzare nelle ricostruzioni. Purtroppo, l’attività di scavo, che grazie alle nuove metodologie condurrebbe ad un arricchimento significativo delle conoscenze, è quasi del tutto sospesa: ci sono ancora 22 ettari dell’antica Pompei sepolti da ceneri e lapilli, ma prima di riportarli alla luce è forse meglio creare le giuste condizioni per la loro futura conservazione.

Il destino di Pompei, anche di quella ancora da scavare, dipende in larga misura da come verranno trasformate in misure concrete le norme della legge 352 dell’8 ottobre 1997, che all’articolo 9 introduce enormi novità sull’organizzazione, la gestione e la valorizzazione dell’area archeologica vesuviana, disegnando inoltre nuove e più incisive strategie di finanziamento. Le innovazioni più radicali sono essenzialmente tre: alla sovrintendenza viene concessa la più ampia autonomia in materia scientifica, organizzativa, amministrativa e finanziaria; al sovrintendente viene affiancato un direttore amministrativo, anche estraneo all’amministrazione (per 5 anni rinnovabili, e questo è il caso del professor Giuseppe Gherpelli, il primo, all’inizio del 1998, ad assumere la carica), a cui spetta anche la gestione del personale; viene istituito un consiglio d’amministrazione, formato da sovrintendente, direttore amministrativo e funzionario in grado più elevato appartenente alla sovrintendenza, che a maggioranza semplice decide su programmi, attività scientifica, gestione, bilancio.

Il professor Gherpelli ci ha parlato di come sarà possibile eliminare le incoerenze ed i paradossi di una gestione fin qui totalmente irrazionale, introducendo criteri manageriali (creazione di settori differenziati per tutela e valorizzazione, responsabilità chiare, accountability dei centri di costo) nell’organizzazione e nel lavoro del personale; e di come la sovrintendenza beneficerà dell’autonomia dall’amministrazione centrale in termini di profondità e tempestività d’intervento. Ma ha anche evidenziato i seri limiti del provvedimento: primo, sono escluse dall’autonomia le spese per il personale (sempre di nomina ministeriale), che, tranne qualche modesta forma accessoria d’incentivazione, rimangono interamente a carico dello Stato (si tratta di circa 40-45 miliardi all’anno), lasciando quindi in piedi uno stridente baluardo di rigidità; secondo, la composizione del consiglio d’amministrazione, che comprende un subordinato del sovrintendente (e saranno 2, quando non verrà nominato un esterno come direttore amministrativo), potrebbe rivelarsi ostacolo al libero confronto di idee e soluzioni alternative. Ed inoltre, se dovessero sorgere problemi, di tipo personale o professionale, tra sovrintendente e direttore amministrativo, questa diarchia con appendice rischierebbe di trasformare Pompei in anarchico campo di battaglia.

L’autonomia della sovrintendenza viene giudicata dal sovrintendente di Pompei e di tutta l’area vesuviana, il professor Pietro Giovanni Guzzo, come essenziale per permettere la realizzazione del Piano per Pompei, una strategia d’azione globale frutto della collaborazione della sovrintendenza con lo Studio di Architettura di Roma per ottimizzare conservazione ed insieme valorizzazione del sito, aggredendo in modo definitivo il degrado della zona archeologica più fragile al mondo. Il Piano suggerisce un approccio urbanistico, che consentirebbe di graduare interventi di manutenzione e restauro, contestualizzati ed estesi sull’intera area degli scavi in base alle priorità e in maniera non più frammentaria; l’obiettivo conservazione andrebbe poi perseguito congiuntamente al ripensamento delle modalità di fruizione, da migliorare decisamente grazie a servizi "aggiuntivi" (ristoranti, bar, bookshop, audioguide), informativi e didattici. Il Piano è ancora ad una fase preliminare di elaborazione: perciò, più che offrire soluzioni immediatamente operative, si limita a rimandare a successivi studi e progetti (la sovrintendenza ha però già attivato un servizio didattico, su prenotazione e a pagamento, per le scuole e 12 postazioni informative multimediali); ma già si può notare un certo sbilanciamento nell’attenzione verso il momento della fruizione che, trovandoci in una situazione di totale emergenza, andrebbe momentaneamente subordinato alla conservazione, su cui concentrare ogni energia, propositiva e finanziaria. Del resto, proprio il ministro Veltroni ed i suoi funambolici consiglieri sembrano prediligere la via della spettacolarizzazione e del divertimento preconfezionato (Jurassic Pompei, Disneyland pompeiana, Pompeii Experience) tra simulazioni multimediali, virtualità, suggestione e superficialità, provando a violentare un miracolo: irriproducibile e, parlando all’anima, intimamente seducente.

E comunque, ogni tentativo di rendere operativo il Piano, ogni effettivo vantaggio della conquistata autonomia, ogni misura vincente per arrestare il degrado di Pompei, dipenderanno dal volume delle risorse finanziarie che verranno rese disponibili (il professor Guzzo ritiene necessari 500 miliardi in un arco di tempo tra i 3 e i 5 anni). Oltre alla promessa di Veltroni di 100 miliardi in 3 anni, oltre ai previsti introiti della vendita dei biglietti (circa 16 miliardi all’anno che, contrariamente al passato, saranno integralmente a disposizione della sovrintendenza), dei servizi aggiuntivi e del merchandising (sicuramente di non risolutiva entità, visto che anche al Metropolitan di New York, il miglior esempio al mondo di strategie di commercializzazione, tali introiti coprono circa il 10% delle spese di gestione), la 352/1997 individua come principale linea di finanziamento il coinvolgimento dell’imprenditoria privata.

Le imprese possono contribuire all’attività di restauro (che rimarrebbe di esclusiva competenza della sovrintendenza, dalla fase progettuale a quella esecutiva) in cambio di un credito di imposta pari al 30% dei fondi erogati (fino ad un miliardo all’anno) e della possibilità, tramite apposita convenzione, di "sfruttare l’immagine" del monumento restaurato a fini aziendali (sfruttamento correlato, evidentemente, alla misura dell’intervento). Insomma, si tratta della riproposizione del vecchio modello delle sponsorizzazioni che spesso ha fallito e che anche questa volta - come hanno evidenziato Riccardo Chiaberge con una pungente analisi sul Corriere della Sera e Gino Agnese nel Controrapporto sulla Cultura di Alleanza nazionale - ha ricevuto un’accoglienza piuttosto tiepida, anche perché le imprese, indicate come fattore cruciale per il recupero di Pompei, non trovano poi posto nel consiglio d’amministrazione e sono quindi del tutto escluse dalla fase progettuale e dal controllo sulla gestione delle risorse finanziarie.

Soprattutto, questo modello mal si presta a stimolare e sostenere il momento essenziale per la conservazione di Pompei, la manutenzione che, come ci ha detto il professor Guzzo, richiede un impegno costante e diffuso (in pratica, si deve sostituire l’attività quotidiana degli abitanti che non ci sono più, e che Pompei, secondo Adler, aspetta «con le braccia sempre stese, con le porte aperte, con l’abbraccio disteso per coloro che non ritornano»), ha dei costi elevati e non dà lustro, non produce quei "ritorni d’immagine" su cui si basa il buon funzionamento del provvedimento veltroniano.

Tuttavia, nonostante lo scetticismo per le sponsorizzazioni, l’imprenditoria italiana manifesta un’euforica fibrillazione per l’esperimento Pompei: occorrono soluzione coraggiose fino in fondo, come il "Comitato delle imprese per Pompei", promosso dalla Confindustria ed accolto con entusiasmo dal professor Gherpelli, che intende attivare stabili canali di contatto e collaborazione con la sovrintendenza, iniettando creatività ed esperienza imprenditoriale nella fase progettuale, proponendo accattivanti formule di promozione e commercializzazione, raffinando i criteri manageriali sul punto di essere adottati, rendendo più dinamico il funzionamento della sovrintendenza e più articolata la realizzazione del Piano per Pompei.

Ma Pompei è soprattutto una città nella città, l’antica nella contemporanea, fisicamente simbiotiche e pur separate dai secoli e dalla mentalità: il cosmos, l’ordine e le buone prospettive in quella antica; il caos, l’abusivismo minaccioso ed arrogante che non indietreggia, la disgregazione del tessuto sociale, la disoccupazione epidemica, la sterilità economica in quella contemporanea.

Pompei vivrà a lungo, secondo il professor Gherpelli (che confida nel livello di consultazione tra sovrintendenza e rappresentanti degli enti locali, istituito dalla 352/1997), solo se i suoi problemi verranno affrontati nel loro contesto territoriale, trasformando il rilancio dell’area archeologica in stimolo per la crescita civile ed il decollo economico attraverso progetti integrati che sappiano sviluppare le infrastrutture e coinvolgere il tessuto vitale della zona vesuviana.

Giuseppe Mancini


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