da Ideazione - marzo 1998
L'IRREVERSIBILE
CERTEZZA DELL'EURO
di Giuseppe Pennisi

Per il Mezzogiorno l’ormai imminente Unione monetaria europea (Ume) rappresenta, al tempo stesso, un rischio e un’opportunità. Il rischio consiste, principalmente, nell’aumento della disoccupazione e nell’accentuarsi di tensioni sociali nel breve periodo. L’opportunità consiste, invece, nella stessa "irreversibilità" dell’Ume, se tale verrà giudicata l’Unione dai mercati internazionali: essa costituisce infatti l’occasione, forse irripetibile, per ridurre gli alti costi politici di transazione che adesso gravano sulle attività economiche del Sud e delle Isole, per incidere sui comportamenti di individui, imprese e pubbliche amministrazioni e avviare, così, un processo di sviluppo di lungo periodo. Nel breve termine, infatti, il processo di consolidamento fiscale previsto per raggiungere i criteri di convergenza dell’Ume comporta una riduzione dei disavanzi pubblici, severe restrizioni alle politiche di spesa e una politica monetaria disinflazionistica. Il riaggiustamento dei conti pubblici italiani dal 1991 al 1997 è stato ottenuto per circa due terzi tramite aumenti della pressione fiscale e contributiva e per un terzo tramite riduzione della spesa pubblica, in particolare per investimenti pubblici o per trasferimenti alle imprese. E la riduzione è stata meno marcata nel Centro-Nord che nel Mezzogiorno, dove alla fine degli anni Ottanta - alla vigilia, quindi, della messa a punto del percorso verso l’Ume - la spesa pubblica era pari ad oltre il 70 per cento del prodotto interno lordo (pil) generato in loco (Micossi-Tullio, 1991; Quadrio-Curzio 1994): un livello ancora più elevato di quello allora prevalente nelle economie dei Paesi dell’Europa centrale ed orientale. La politica di spesa pubblica e di trasferimenti dal Centro-Nord, però, non solo ha privilegiato i consumi rispetto agli investimenti, ma non è stata diretta a massimizzare la produttività di questi ultimi per i quali si prospettavano, tra l’altro, indicatori di convenienza economica con livelli di soglia inferiori a quelli richiesti per il resto del Paese.

I giovani del Sud e delle Isole sono stati, così, penalizzati due volte: la prima volta perché il benessere delle generazioni attuali veniva preferito rispetto a quello dei loro figli; la seconda, perché il potenziale benessere di questi ultimi veniva ulteriormente compresso dalle autorità di programmazione, che fornivano direttive finalizzate a promuovere il finanziamento di investimenti a basso rendimento. Gli effetti del rallentamento della produzione e della contrazione dell’occupazione sono stati particolarmente marcati nel Mezzogiorno anche perché, simultaneamente, venivano a diminuire gli sgravi contributivi per le imprese operanti nel Sud e nelle Isole. La quota di formazione del pil nazionale registrata nelle regioni del Sud è passata dal 25,34 per cento del 1991 al 24,3 per cento del 1996. Nello stesso arco di tempo, il pil pro-capite del Sud e delle Isole si è contratto dal 58,6 per cento della media nazionale al 54,9 per cento (SVIMEZ, 1997).

In questo senso, un indicatore eloquente è la riduzione del tasso di attività (il numero di occupati in proporzione alla popolazione tra i 16 ed i 65 anni), passato dal 39 circa del 1991 a quasi il 34,5 per cento delle ultime rilevazioni: una proporzione crescente di persone in età da lavoro, scoraggiate, hanno smesso pure di cercare un’occupazione. Già nel 1996 il solo incremento della forza lavoro verificatosi in Italia è stato interamente dovuto alla componente femminile del Centro-Nord (Banca d’Italia, 1997). È probabile che tale situazione si ripeta nei prossimi anni, aggravando ulteriormente il differenziale occupazionale tre le due aree del Paese. Indicazioni ancora più preoccupanti vengono dall’ultimo rapporto dell’ISFOL, un ente di ricerca nell’ambito del Ministero del Lavoro, le cui analisi, quindi, riflettono il punto di vista dell’Amministrazione: anche con una crescita sostenuta dell’economia (il 3 per cento l’anno per i prossimi sei anni), nel 2004 il tasso nazionale di disoccupazione scenderebbe all’8,8 per cento, ma il differenziale tra Centro-Nord, da un lato, e Sud ed Isole, dall’altro, crescerebbe. A tassi d’attività invariati, la disoccupazione nel Mezzogiorno toccherebbe il 22,5 per cento delle forze di lavoro, ma ove il processo di integrazione europea volesse dire anche una maggiore omogeneizzazione dei mercati del lavoro e, quindi, tassi di partecipazione alla forza lavoro pari alla media odierna della Ue, il saggio di disoccupazione del Sud e delle Isole si porrebbe, nel 2004, ben al 33,7 per cento. In mancanza di una riforma del sistema di sicurezza sociale e della politica del lavoro, i "dividendi di Maastricht" rischiano di dissolversi. Anche e soprattutto per coloro che non ne hanno mai fruito.

D’altra parte, negli ultimi vent’anni si sono ampliate le differenze tra le aree maggiormente avanzate e quelle in ritardo dei maggiori Paesi della Ue in termini di reddito pro-capite e di altri indicatori, quali i tassi di disoccupazione e gli indici di dotazione di infrastruttura fisica e sociale. Determinanti come le economie di scala e la capacità di interagire con il mercato internazionale rischiano di comportare, nell’ambito di unioni monetarie, dislivelli strutturali sempre più marcati tra i poli di sviluppo, da un canto, ed i Paesi e le regioni meno progredite, dall’altro (Krugman, 1993). In questo quadro, il Mezzogiorno può venire sottoposto a continue forze centrifughe in quanto non vi sono rilevanti economie esterne tali da rendere la localizzazione produttiva particolarmente conveniente. Vi sono, al contrario, significative diseconomie esterne: dotazione infrastrutturale contenuta rispetto al resto della Ue, offerta insufficiente di beni pubblici (ordine interno, giustizia) e di beni sociali (istruzione, formazione), basso livello e qualità dei servizi nonostante l’alta proporzione del pubblico impiego e dell’occupazione in imprese a forte contributo pubblico (circa il 60 per cento del lavoro dipendente alla fine degli anni Ottanta).

Nella Ue, si punta molto sui fondi strutturali (Jovanovic, 1997) per accelerare lo sviluppo delle aree in ritardo o in riconversione. Il loro ruolo, però, è e resterà limitato anche ove le regioni del Mezzogiorno, che attualmente utilizzano circa un terzo dei fondi disponibili, venissero poste in grado di sfruttarli al meglio. Si tratta, difatti, di una mera sostituzione: l’ammontare totale teoricamente disponibile sul Quadro comunitario di sostegno (Qcs) 1994-1999, incluso il co-finanziamento nazionale, è pari a 11mila miliardi l’anno per sei anni, una cifra di poco superiore all’ammontare raggiunto nel 1994 dagli sgravi contributivi ora in via di esaurimento. A titolo di riferimento, peraltro, secondo la stessa valutazione del Qcs 1989-93, a fronte di circa 40mila occupati creati e/o salvaguardati nel Mezzogiorno nel quadriennio grazie agli interventi comunitari (e al co-finanziamento nazionale), se ne sono persi circa 600mila (Commissione CE, 1994).

Come uscire da quello che appare un inarrestabile "circolo vizioso" di perdita di competitività, produzione e occupazione? La politica economica deve dare certezze alle imprese e ai lavoratori, aumentando la propensione al rischio, e incentivando la propensione all’investimento dei primi e la propensione alla mobilità dei secondi. Il "circolo virtuoso" verrebbe innescato e rinforzato dall’aumento della concorrenza sia nei mercati dei prodotti e del capitale - ingredienti essenziali all’Ume - sia nel mercato del lavoro, verso cui pure in Paesi vincolistici come l’Italia ci si è gradualmente incamminati.

Alcuni segnali si avvertono già nei "distretti industriali" che stanno sorgendo nel Mezzogiorno (Bodo e Viesti, 1997; Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, 1996), nello sviluppo dell’imprenditoria giovanile attorno ai "distretti" nascenti (Maffia, 1995), nell’ingresso della grande distribuzione in un comparto caratterizzato da forti barriere all’entrata come quello del commercio, nella crescita di settori quali la meccanica e la manifattura dei mezzi di trasporto nell’industria e del turismo nel terziario, a fronte della stasi dei primi due e della flessione del terzo a livello nazionale (SVIMEZ, 1997).

Sono comunque indizi ancora puntiformi. Perché si possa parlare di nuovo corso incoraggiato dall’Ume occorre infatti guardare al modo con cui l’Ume può contribuire ad orientare lo sviluppo istituzionale del Mezzogiorno. Le analisi delle determinanti del declino del Sud e delle Isole e delle loro potenzialità non tengono adeguatamente conto delle opportunità derivanti dalle prospettive di "irreversibilità" intrinseche all’Ume. Per coglierle occorre rivisitare alcune tendenze di lungo periodo, quali emergono dalla storia economica recente. Mentre, sino alla metà degli anni Settanta, le regioni meridionali hanno sostanzialmente recuperato rispetto al Centro-Nord, da allora le divergenze si sono accentuate. L’intervento e la spesa pubblica, infatti, hanno avuto effetti positivi in una prima fase, ma successivamente hanno creato un capitale umano "improduttivo", principalmente la capacità degli individui, delle imprese e delle stesse amministrazioni e istituzioni di "catturare" risorse pubbliche a fini particolaristici. Si sono sviluppate conoscenze e abilità non utilizzabili in un’economia concorrenziale e i soggetti economici si sono orientati verso aree di attività protette dallo Stato (Del Monte, 1996).

L’analisi, quindi, dei "costi politici di transazione" (Dixit, 1996) non fa altro che irrobustire questa interpretazione. Secondo gli assunti di questa analisi, infatti, le "costituzioni politico-economiche" - ossia, l’insieme delle regole formali e informali che plasmano i comportamenti degli agenti economici - si formano in un contesto caratterizzato da "costi di scambio" maggiori di quelli riguardanti i rapporti contrattuali tra privati, a ragione del differente peso (in materia di informazioni che si possiedono e di capacità di azione) tra corpo elettorale, da un lato, ed esponenti politici, burocrazie e tecnocrazie, dall’altro. Impegno e delega, ripetizione e credibilità, incentivazione sono i meccanismi per contenere i "costi di transazione" nel mercato economico. Si tratta di strumenti che si applicano anche al mercato delle scelte collettive, ossia al mercato politico-istituzionale; ne caratterizzano ancora più il funzionamento quando si è alle prese con riforme che coinvolgono l’evoluzione della "costituzione politico-economica". Per ridurre quindi i "costi politici di transazione", è necessaria quella credibilità di lungo periodo che si ottiene con "ripetizione", costante e pervicace, di "comportamenti virtuosi" nonché con atti "irreversibili".

L’aumento della spesa pubblica pro-capite, la preferenza data alla sua utilizzazione a fine di consumo privato e il basso livello dei rendimenti hanno inesorabilmente fatto crescere questi costi nel Mezzogiorno. E ciò ha comportato un aumento dell’avversione al rischio degli agenti coinvolti e ha operato come freno ai processi di riforma, e di sviluppo, che vengono comunque percepiti come rischi da chi è diventato avvezzo alle tutele e alla "cattura" delle risorse pubbliche. L’"irreversibilità" dell’Ume e la "ripetizione" di comportamenti virtuosi aperti alla concorrenza che essa comporta, l’avvio di "incentivi ad alto potenziale" per coloro che sapranno coglierne le opportunità, la riduzione delle asimmetrie informative e la messa in atto di processi di apprendimento by doing e by using, rappresentano un’occasione unica, probabilmente irripetibile, di riduzione dei "costi politici di transazione". Si andrebbe in senso contrario, e si perderebbe, forse per sempre, una grande opportunità, se si ascoltassero proposte quali quelle formulate di recente, ed in vari modi (Borghini, 1998), che, imperniate su re-incarnazioni dell’industria e della finanza pubblica, riprodurrebbero, con adattamenti al margine e verniciature di maniera, proprio quegli schemi che dalla seconda metà degli anni Settanta hanno inondato di capitale umano "improduttivo" il Mezzogiorno, bloccandone lo sviluppo.

Giuseppe Pennisi

Bibliografia

Banca d’Italia, Relazione del Governatore sull’esercizio 1996, Roma 1997.

G. Bodo e G. Viesti, La grande svolta-Il Mezzogiorno dell’Italia negli anni Novanta, Donzelli, Roma 1997.

G. Borghini, "E ora, lavoro e sviluppo nel Sud", in Le Ragioni del Socialismo, gennaio 1998.

A. Del Monte, Istituzioni, intervento pubblico e sviluppo del Mezzogiorno, Ispe, documento di lavoro n. 42/1996, Roma 1996.

A. Dixit, The making of economic policy: a transaction costs politics perspective, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1996.

European Commission, Labour market studies: Italy Employment and Social Affairs Directorate, Bruxelles 1996.

J-P. Fitoussi, Il dibattito proibito. Europa, moneta, povertà, Il Mulino, Bologna 1997.

ISFOL (Istituto per lo Sviluppo e la Formazione dei Lavoratori), Rapporto 1997, Franco Angeli, Milano 1997.

M. Jovanovic, European economic integration-Limits and prospects, Routledge, Londra 1997.

P. Krugman, "Lessons of Massachusetts for Emu" in F. Torres e F. Giavazzi, Adjustment and growth in the European monetary union, Cambridge University Press, London 1993.

E. Maffia, Giovani del Sud, Laterza, Roma-Bologna 1995.

S. Micossi-G. Tullio, Fiscal imbalances, economic distorsion and the long-run performance of the Italian economy, Quaderno di Ricerca n. 9, Osservatorio e Centro di Studi Monetari Luiss Roma 1991.

Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, Incentivi ed occupazione: una proposta di metodo per l’individuazione delle aree di intervento, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 1996.

A. Quadrio-Curzio "Tre livelli di governo per l’economia italiana" in Il Mulino n. 4/1993, pp. 793-809.

Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, L’Europa: così vicina, così lontana, Presidenza del Consiglio dei ministri, Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione 1996.

SVIMEZ, Rapporto 1997 sull’economia del Mezzogiorno, Bologna, Il Mulino 1997.


Torna alle
pubblicazioni


Torna alla
home-page
dell'Osservatorio


Torna alla
home-page
del Centro