da Ideazione - maggio  1998
UN DESTINO
MEDITERRANEO

di Raffaele  Nigro

Secondo una tradizione medioevale la ninfa Partenope si sarebbe suicidata per amore di Ulisse. Il suo corpo sarebbe approdato poi alle falde del Vesuvio e sulla sua sepoltura sarebbe sorta Napoli. Questa città è una delle tante nate dai miti greci, come altre del Sud fondate da eroi omerici: Roma da Enea, alcune città meridionali da Diomede, Laomedonte ed Ercole, taluni santuari da Calcante e Podalirio. Ma Napoli diventerà nel tempo capitale e persino metafora e immagine del Meridione. Nell’età protoitaliota c’erano a sud degli Alburni popoli autonomi che avevano proprie regole e propri statuti: Sanniti, Lucani, Enotri, Peuceti, Messapi, Dauni, Iapigi, Sicani, Bruzi. Ognuno con propria identità culturale e proprie consuetudini. Furono i Greci, attraverso le guerre di conquista, ad uniformare le culture e a dare unità alle etnie. Uccisero le particolarità e avviarono quel processo di unificazione del Mezzogiorno che si è trasmesso fino ad oggi. L’unità tornò ad imporla più tardi Federico di Svevia, che fonda a Napoli la sua Università e limita le iscrizioni nelle libere Università dei comuni settentrionali. Gli angioini mantennero questa unità accentrando in Napoli gli archivi notarili periferici. Aragonesi e spagnoli fecero del regno un latifondo con un cuore politico in Napoli. Una struttura medioevale che si è mantenuta tale fino a noi.

Napoli, intanto, è cresciuta in maniera mostruosa. Dalle province continuavano a salire all’Università nobili e studenti, che rinunciavano poi a rientrare nei paesi di provenienza. Ancora nell’800 De Sanctis constatava che gli studenti calabresi e lucani costituivano a Napoli una colonia notevole. Nel ’900 esisteva al Sud solo un secondo polo universitario, Palermo. E quello di Bari è sorto appena nel 1926.

Tra i morti di forca nel 1799, molti, da Ignazio Ciaia a Mario Pagano, a Emanuele de Deo venivano dalla provincia. Il regno si identificava, insomma, nella sua capitale.

Ma la città aveva poche entrate, i soli gettiti dei tributi, un’economia disastrosa. Scarse le industrie e con una povertà crescente. Sembrava che Napoli non avesse nulla da invidiare alle grandi capitali europee, perché nei salotti si parlava francese e c’erano molte corti nobiliari, in più era con Palermo terminale del Grand Tour per viaggiatori amanti dell’avventura. Vedi Napoli e poi muori, si diceva. Napoli era la città delle sette meraviglie, in pieno ’400 vi nasce l’Accademia Pontaniana, in pieno ’500 il Tasso propone il rinnovo dell’epica e nel ’700 esplode l’Illuminismo giuridico di Filangieri e Galiani. Ma è città del disagio e dunque di rivolte. Tutte fallite, da quelle baronali del ’400, per frantumare l’unità del regno, a quella di Masaniello, alla rivolta del 1799. Napoli è città ventrale, metropoli dalle mille contraddizioni. La conquista piemontese scopre i suoi malesseri. Una lenta agonia sociale l’ha portata al degrado. Fortemente strabica, resta però ancorata al passato, assiste impotente alla fine di un’epoca e di una monarchia ed è impedita a riagganciare i grandi centri europei. Un malessere da cui non riuscirà a riprendersi durante tutto il ’900, come hanno dimostrato Mastriani e la Serao e più tardi Compagnone, Prisco, Marotta, Eduardo e Rea. Tuttavia una città dalla prepotente tradizione intellettuale, anche nel ’900, con la scuola napoletana fiorita negli anni Quaranta e Cinquanta e alla quale ha fatto seguito un lungo periodo di silenzio, un vuoto colmato solo dai primi degli anni Novanta nella musica e nel cinema, ma non nella produzione letteraria.

Fuori di Napoli c’erano invece le periferie del mondo civile. I viaggiatori non si azzardavano a mettere piede oltre Eboli. Era un territorio pauroso e infido che in realtà per il vicerè e per i baroni costituiva territorio da sfruttare e da mungere. Cavour se n’era fatta una cattiva idea, diceva quel territorio il Giardino delle Esperidi, perché una capitale di rango europeo doveva appoggiarsi necessariamente su un entroterra ricco.

Nei salotti europei approdavano invece storie terrifiche e romantiche: il Sud era terra di briganti. E in effetti le uniche due vie, l’Appia e la Popilia, erano infestate di tagliagole. I valli di Bovino e di Vietri erano l’anticamera dell’Inferno. I luoghi erano rimasti, fino all’Ottocento, né più né meno quelli citati da Orazio nella Satira V.

Nel 1849 ancora, un giornalista napoletano, Cesare Malpica, decide di penetrare Terra di Basilicata e un amico interviene subito a scoraggiarlo. Sei pazzo, gli dice, quella è la Siberia, l’Africa nera. Malpica, secondo l’uso del tempo, fa testamento e parte. Approda a Potenza e da questa città comincia a mandare lettere agli amici, per spiegare che presso i D’Errico, la famiglia che lo ospita, ha trovato persino un cenacolo di poeti. Malpica poneva una questione raramente affrontata, il problema dell’immagine che i mezzi d’informazione davano e danno del Sud, le distorsioni, le mezze verità, le visioni infernali. Le agenzie turistiche moderne sudano sette camicie per sovvertire gli stereotipi dei canali informativi, per poter vendere un mare forse più pulito e architetture desuete. Perché la questione meridionale è stata e continua ad essere soprattutto questione dell’immagine che del Sud offrono i media. Un Sud impreparato di fronte alle richieste del turismo e che ha riciclato in fretta i contadini e i braccianti in albergatori e ristoratori, con improvvisazione e difficoltà.

Nell’800, tre secoli dopo la scoperta dell’America, si ha la scoperta del Mezzogiorno e il mondo si accorge che il regno non è solo Napoli. Le campagne hanno sferrato l’attacco ai Savoia. Ci sono dodici o quindicimila morti, sulle montagne, alle periferie dei paesi. Tuttavia proprio questi paesi vengono alla luce, entrano nella storia, nonostante la sconfitta e un’Unità che, come dice d’Azeglio, si fa attraverso il mirino di un fucile. Poi è tutta una fatica di partenze e di chiarimenti. Una parte dei contadini sopravvissuti sceglie di emigrare, un’altra resta e langue, come dicono le pagine di Cristo s’è fermato a Eboli, e quelle dei Malavoglia, l’aristocrazia terriera mantiene i propri privilegi e i latifondi senza coltivarli oppure si lascia morire, come il don Fabrizio Salina del Gattopardo. La striminzita e furba piccola borghesia del sud si cerca i rifugi nello Stato, o spolvera i blasoni delle realtà municipali che il Regno ha mortificato o dimenticato. Riesumavano le cronache municipali, quella microstoria cui hanno dato forte impulso la scuola degli Annales e l’antropologia culturale.

Il Novecento ha compiuto questo miracolo, ha dato voce alle cento città d’Italia e a una classe totalmente assente nel Sud, la borghesia. Si pensi che a fine Cinquecento Vincenzo Bruno, medico di Venosa, ammette di non poter sopravvivere coi proventi della propria professione e che deve appoggiarsi a una vigna e ai suoi bracciali. E ancora nel 1799 la rivoluzione fallisce perché gli intellettuali sono schiacciati tra contadini e aristocratici. La borghesia è una realtà sociale tarda in questa parte d’Italia, dove fiorisce un latifondo spaventoso, se ancora nel 1948 i contadini scendono nelle tenute dei baroni a occuparle, a sparare e morire.

Per capire il ritardo basterà guardare a una città come Bari. Ai primi dell’800 la città, che oggi è di quasi 400mila abitanti, ne conta 16mila e solo a fine secolo approdano i Laterza, che impiantano prima una tipografia e poi un’editrice affidata alla curatela di Benedetto Croce. A fine secolo appare Valdemaro Tecchi, a Trani, e aprono bottega i Lindemann, i de Tullio e nasce la Bari imprenditoriale, che fonderà le proprie fortune prima sull’edilizia e più tardi sulla distribuzione dei prodotti lavorati a Milano, e oggi che l’edilizia è bloccata si ricicla nel software e ancora nella grande distribuzione. Tutto in un secolo.

Se nella monarchia e poi nel fascismo Carlo Levi trova ad Aliano un popolo per il quale lo Stato è nemico, vent’anni più tardi Leonardo Sciascia spiega che la Democrazia Cristiana ha operato un’inversione attraverso l’istituto del clientelismo. Lo Stato è diventato un ente ecclesiastico. Questi uomini non hanno avuto mai lo stimolo a diventare bipedi a piede ritto, ad autogestirsi, a fidarsi delle proprie forze. Servi degli aristocratici per secoli, schiavi del fatalismo e atterriti dall’inclemenza del cielo e dall’incertezza delle colture e del mare, questi uomini si sono abituati per troppo tempo ad essere protetti, a fidare nei potenti o nel potente di turno. E quando scompaiono quelli che per accidente sociale sono gli antichi padroni, baluardi di un assetto feudale e medioevale, ci si ritrova addosso una tara, il bisogno di cercarsi un’organizzazione protettiva, il clan, la famiglia, il gruppo, che venga a sostituirsi ai baroni spariti e sotto la cui protezione ci si senta più forti. Nei casi più felici nasce il familismo amorale, nelle logiche malavitose le cosche e i clan, come mezzo di difesa, di protezione, di amministrazione della giustizia e più tardi di offesa nella guerra per la spartizione e l’accaparramento dei beni. Un’altra guerra sociale più complessa di quella combattuta a metà ’800, più misteriosa e intricata per le sue connessioni con la politica e con le trasformazioni sociali ed economiche avvenute nell’ultima metà secolo. Una guerra nata dalla voglia di avere tutto e subito, dal desiderio di spogliarsi degli abiti contadini e indossare quelli adatti ad entrare in un contesto borghese, in un meccanismo sociale consumistico e pubblicitario, con tutte le agevolazioni, le ricchezze, i privilegi dell’alta borghesia. Una forma di neofeudalesimo selvaggio, dove il feudatario è il capoclan, e dove si accetta in cambio del benessere e della protezione una guerra senza esclusione di colpi.

Gli ultimi quarant’anni infatti, cosunque si dica intorno alla mitologia della povertà del Meridione, hanno comunque portato nel Sud modernità e benessere. Sono finalmente apparse alcune di quelle industrie che per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta abbiamo invocato. Privi di una tradizione imprenditoriale, anche in questo caso il Sud ha cercato l’industria non come fonte di investimento privato, ma come elargitrice di un bene-mito, il posto fisso. In questo la fabbrica è per il Sud il sostituto dello Stato, dell’impiego pubblico. In Era l’anno del sole quieto, Carlo Bernari raccontava negli anni Sessanta il fallimento del tentativo di impiantare in Campania una fabbrica ad alto contenuto tecnologico, ma non era un meridionale a mettere su la fabbrica, bensì un professore di ecologia del Nord. Perché un meridionale al suo posto non sarebbe stato credibile, e Bernari questo lo sapeva. E, non a caso, quelli del Sud sono tutti grandi complessi i cui capitali sono perlopiù del Nord e dello Stato, a Bagnoli, a Taranto, a Melfi, a Gela, a Gioia Tauro. Tante cattedrali utili e inutili attorno alle quali si concentrano l’attenzione e l’interesse delle comunità che le ospitano. Le fabbriche del Sud, salutate nel momento in cui arrivano come un regalo del cielo, rappresentano un bene collettivo e accade spesso che a difenderle quando se ne minacci la chiusura scendano in strada interi paesi, come accadde a Reggio Calabria, a Crotone e a Manfredonia qualche tempo fa, o come è accaduto a Melfi dove tutti i cittadini hanno inviato l’anno prima dell’installazione della Fiat migliaia di cartoline di auguri all’avvocato Agnelli per baciargli la mano e dove si è accettata la fabbrica senza che gli amministratori battessero ciglio sull’inceneritore Fenice.

Lo sviluppo del Sud è avvenuto in maniera caotica e stravolgente. Un esempio di ciò che è accaduto ce lo offre proprio la situazione politica e sociale albanese, dove la repentinità con cui si è stati immessi a contatto del processo di sviluppo economico e del benessere dell’Occidente ha trasformato il Paese o in un manicomio criminale o in una Repubblica centro-americana. Nel nostro Sud c’è da quarant’anni una guerra in atto, combattuta con uno stillicidio di morti continuo e costante. Io ho trascorso l’infanzia in un paese della Basilicata proprio nel momento di passaggio da una cultura contadina a una consumistica. Improvvisamente la televisione ci immetteva con i suoi messaggi ora diretti ora subliminali in una realtà di consumi che l’economia del paese non poteva permettersi. Eravamo improvvisamente chiamati, attraverso la pubblicità e attraverso i modelli americani filtrati dalla televisione, a consumare prodotti lavorati altrove e a vivere secondo un regime che era al di sopra delle nostre possibilità, perché il modello era quello di paesi ricchi e già industrializzati, ma veniva offerto a noi che industrie non avevamo e ricchi non eravamo. Bisognò immediatamente smettere il dialetto ed entrare in un codice linguistico che era l’italiese televisivo, imparare le lingue straniere e abbandonare le lingue morte, smettere il vestiario di una stagione, se non di una vita, e passare all’usa e getta, lasciare i mono e bilocali e aspirare ai condomini, fuggire dai centri storici e cercare i quartieri residenziali. Occorrevano denari, fiumi di denari, bisognava stare al passo coi tempi e cancellare tutto ciò che all’improvviso sapeva di vecchio, gli oratori, le tradizioni, le amicizie, i sentimenti, il rispetto, il risparmio. Si scopriva il regime della feria e dei viaggi e soprattutto faceva la sua comparsa il cemento armato. Uno sviluppo selvaggio è sempre accompagnato da una campagna di cementificazione.

Cominciò allora quel processo di trasformazione dei nostri centri storici e delle nostre cittadine in periferie urbane rese tutte simili da una sorta di devastazione del gusto e della provvisorietà, fatta di casermoni senza rifiniture e aggredite dagli anticorodal. Gianni Amelio ci accompagna per le coste della Calabria in quella periferia infinita che descrive Il ladro di bambini. Sono cantieri interminabili disegnati da scatole di cemento con i ferri arrugginiti che sbucano dai pilastri, scheletri di costruzioni perlopiù abusive fermi da chissà quanto.

Allora, negli anni Sessanta, la camorra spagnola che dal Seicento aveva infettato il Tirreno non si era propagata anche alle coste dell’Adriatico. Come è accaduto in questi ultimi anni. Ma già le famiglie di malavitosi avevano cominciato a sterminarsi vicendevolmente, consumando le faide fino nel sangue dei più giovani. Certo la guerra non si era incancrenita come oggi, che sono tramontati i valori del vicinato, del rispetto per i deboli e anche la mitica pietà contadina, il valore ancestrale che Pasolini assegnava al mondo contadino e che probabilmente è vissuto soltanto nella fantasia dei poeti romantici, quel valore non era tramontato. Ecco cos’ha perduto il Sud, la sua pietà insieme all’identità culturale. Ma che intendo per identità?

La capacità di restare riconoscibili, espressione di una civiltà e di una cultura, anche nel mutare dei tempi e delle mode e nel confronto con altre culture e con altre civiltà. Il principio potrebbe ritrovarsi in Socrate, quando esprime la necessità della coerenza di comportamento contro l’incitamento ad atteggiamenti proteiformi da parte dei Sofisti. L’identità culturale è un codice di appartenenza, un valore che non si identifica con un’idea o un’ideologia, ma un sentimento, un modo di essere costruitosi nei secoli e tale da apparire genetico e che, se muta, ha bisogno di mutare con gradualità, senza stravolgimenti. Le civiltà che hanno perduto la propria identità per costrizione, ne vanno alla ricerca per secoli, quelle che si assoggettano a violente trasformazioni per desiderio di scimmiottamento si ritrovano a vivere solo nell’esteriorità gli atteggiamenti delle culture assunte a modello, finiscono per impazzire, come navi che hanno perso i codici di navigazione. Talora il mutamento è dettato da complessi di inferiorità, da soggezione ai modelli dominanti, da un errato principio di adeguamento al moderno e all’uniformità. È quanto sta accadendo ai Paesi più poveri, afflitti come l’Italia da ansia di americanizzazione, di metropolismo. Senza badare che l’uniformità delle culture porta alla stasi e alla piattezza, mentre il confronto tra culture diverse produce arricchimento.

Tuttavia, per fortuna, quello che è accaduto negli anni Sessanta e Settanta un po’ comincia oggi ad essere frenato. L’ambiente è un tema che da qualche tempo anche al Sud si va affrontando. Nel ’90 alle pendici del Gargano ci fu una rivolta di ambientalisti perché il caprolattame dell’Enichem di Manfredonia uccideva la fauna marittima. E lo stesso è accaduto a Comiso contro l’installazione di basi nucleari. Più tardi a Rocchetta Sant’Antonio ci si è ribellati per i vagoni abbandonati da un’industria di vernici del Nord presso la stazione ferroviaria. Sono segni di una cultura del territorio che anche nel Sud va nascendo, grazie alle nuove generazioni. Che scoprono la ricchezza del patrimonio architettonico e ambientale, provano a difendere i beni ereditati e ci dicono che tutto il Sud è in cammino, tra ritardi e disoccupazione. Un cammino sbilenco, lento, difficile.

Ho citato l’Albania ma non sembri a sproposito. Da qualche anno infatti, dalla caduta del muro del socialismo, il Sud si trova di fronte a un nuovo e travolgente problema, quello del contatto con nuove realtà culturali. Le grandi fughe dai paesi poveri ci hanno trasformato in Paese di frontiera. Il Sud che non riesce a dimenticare i suoi problemi endemici ora si trova a fare la parte del leone con i Paesi più poveri.

Siamo quotidianamente a contatto di curdi, albanesi, cingalesi, cinesi, egiziani, turchi che cercano asilo e approdano in questi che per loro sono i paradisi del benessere. Cercano un passaggio a Nord, verso l’Europa. Qual è il nostro ruolo di fronte a questi popoli in cammino come noi? Veramente Napoli deve guardare soltanto all’Europa e a Maastricht e disinteressarsi di ciò che sta a Sud perché i nostri partners europei impongono che ci si bendi se intendiamo far parte del sacro convito?

Un poeta leccese innamorato della cultura spagnola, Vittorio Bodini, ribadiva la maternità dell’Europa nella cultura del Mezzogiorno, ma gli ultimi eventi ci hanno abituato a un discorso di frontiera molto più ampio. Mentre mi sento allettato dai valori della tradizione mediterranea che Franco Cassano sintetizza nell’espressione del pensiero meridiano, guardo al Mezzogiorno come a una regione di passaggio, una sorta di camera di pressurizzazione, tra valori e interessi dei Sud e dei Nord.

Guardare soltanto all’Europa dimenticando tutto ciò che sta a sud delle nostre coordinate geografiche mi pare un atteggiamento persino passatista e reazionario, l’atteggiamento di chi vuol mettersi al sicuro e non si accorge che quella sicurezza non ha futuro e non ha speranze. Come uomini di frontiera io sento di appartenere alla grande Europa e al tempo stesso al Mediterraneo, occupo una zona franca e rivendico i diritti propri di una regione a statuto autonomo. Provo un senso di appartenenza bilaterale perché, come spiega Matvejevic, noi siamo i meridionali d’Europa. Nel senso che abbiamo l’Inps, le Asl, una letteratura ricca e antica, la carta d’identità, la patente europea, studiamo inglese e francese a scuola. Ma non abbiamo le ferrovie, non un quotidiano nazionale, non una rete viaria adeguata, non posti di lavoro, capitali e possibilità imprenditoriali. E per queste ragioni noi siamo anche i settentrionali del Mediterraneo. Siamo i fratelli ricchi di questi ultimi e i cugini poveri di quegli altri. Sulle nostre terre di frontiera, sul nostro territorio ponte oggi si confrontano il decadentismo consumistico dell’Europa e il vitalismo straccione del Mediterraneo. La ragione occidentale malata di eutanasia e il sentimento disperato e affamato del Sud. Ciò che i leghisti non vogliono capire, ciò che tutti i razzisti non vogliono capire (lo ribadisce in questi giorni un dialogo di Ben Jelloun con la figlia su Che cos’è il razzismo) è che certi fenomeni sociali e direi epocali avvengono perché debbono avvenire, per necessità storica. Sono come la pioggia o la brina. Anche se ai fenomeni sociali presiede sempre una causa generativa. Ricordo che, quando a Senise lucana volevano impedire alla regione Puglia di trasformare la valle del Cotugno in una diga, rubarono simbolicamente il tappo della diga e lo tennero esposto in piazza per qualche mese, perché intendevano strappare la promessa che in cambio dei loro terreni avrebbero avuto denaro e posti di lavoro. Tuttavia la diga è nata e l’acqua è lì. Dunque non ci sarà tappo o coperchio che potrà mai arrestare un fenomeno che appartiene alla vita della terra o, come dice Braudel, che fermi il polline trasportato dal marinaio, dal soldato o dal navigante. E noi siamo come Minosse, i guardiani dell’inferno. Non ha detto anche Bocca che qui è l’inferno? Noi siamo abituati a quella luce e a quella temperatura, sappiamo com’è fatto l’inferno, come sono i diavoli. Ora, o l’Europa accetta il dialogo o sarà la fine per tutti, perché avremo invasioni scomposte, perché avremo migrazioni di massa incontrollate che non sapremo fronteggiare. Proprio come è accaduto all’origine dello stravolgimento della civiltà tradizionale, quando l’avvento inatteso e scomposto della società dei consumi ha scombinato le carte e i cervelli.

C’è nel Gattopardo una scena in cui don Fabrizio Salina si apparta dal salone dove si sta svolgendo una grande festa e comincia a contemplare un quadro che raffigura il trapasso di un uomo. All’improvviso Tancredi, il nipote, irrompe nella stanza, osserva lo zio e gli dice:  . Ecco, questo ha fatto l’Europa per tutto il ’900. Ha corteggiato la morte e si è crogiolata o si è consumata nella contemplazione della propria malattia mortale, del malessere. E in questa contemplazione ha esaltato l’eutanasia, il nichilismo, il vuoto assoluto, la fine. Io credo che il Meridione abbia oggi il compito di disegnare le linee di un nuovo continente, anzi di un subcontinente. È il subcontinente del Mediterraneo, con tutti i rischi del caso, con tutte le difficoltà. Ma il futuro passa da questo progetto. E in primis, toccherà a questo nuovo continente, schiacciato tra Africa, Europa e Asia, combattuto dai venti di tre religioni, cattolicesimo, giudaismo e islamismo, angustiato da integralismi d’ogni sorta, dettare le regole per un nuovo umanesimo, per un impegno laico nel millennio che stiamo per varcare. In questo progetto, del quale il Vecchio Continente ha bisogno per ritrovare una spinta alla sopravvivenza dei valori fondanti dell’esistenza, sarà necessario pensare a quel mezzo d’informazione che manca e che veicoli la quotidianità di questi paesi verso il centro dell’Europa. Bisognerà pensare a un’organizzazione della formazione universitaria che abbia come ponte con l’Europa il Mezzogiorno d’Italia, una scuola superiore aperta a tutte le Università del bacino, e poi pensare a una televisione che permetta l’avvicinamento dei popoli attraverso l’interazione culturale e antropologica e ancora alla formazione di quadri dirigenti e imprenditoriali per uno sviluppo graduale dei nuovi e dei vecchi paesi. Il resto potrebbe venire da sé. Forse.

Raffaele Nigro


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