da Ideazione - gennaio 1998
DAL SUD-EST
QUALCOSA DI NUOVO

di Alessandro Napoli

Nelle analisi sul Mezzogiorno l’approccio tradizionale è quello che trova le proprie radici nei lavori dei meridionalisti “storici”, e che nel secondo dopoguerra si è affermato soprattutto attraverso gli studi e le ricerche della Svimez. In estrema sintesi, si può dire che si fonda su tre essenziali presupposti: 1) il Mezzogiorno è una vasta area, nel complesso omogenea dal punto di vista economico e sociale, nell’insieme connotata da vistosi elementi di arretratezza e di dipendenza; beninteso, l’evidente presenza di squilibri interni all’area non viene tout court negata, ma semplicemente ridimensionata per quel che riguarda la loro rilevanza a fini di politica economica; 2) ciò che conta è l’esistenza di marcate differenze nei livelli di benessere e di sviluppo economico rispetto al resto d’Italia e rispetto all’Europa (i cosiddetti “divari”); tali differenze e il loro andamento temporale costituiscono l’oggetto privilegiato dell’attività di studio e ricerca, fortemente orientata su aspetti prettamente quantitativi, in particolare sull’analisi dei grandi aggregati; 3) il problema meridionale (la cosiddetta “questione”) è dunque essenzialmente un problema di ritardo rispetto alle “aree forti”, e obiettivo della politica di sviluppo dell’area è, in sintesi, quello di “accorciare il distacco” con politiche economiche che ne accelerino fortemente la crescita; corollario di questo assunto è la necessità di un forte intervento pubblico, aggiuntivo rispetto a quello ordinario e soprattutto marcatamente “attivo” (nota 1).

Una comparazione Sud/Nord o Sud/Italia fra i valori degli indicatori macroeconomici sembra in prima battuta confermare la validità di queste tesi. Nell’insieme del Mezzogiorno il reddito prodotto per abitante supera infatti di poco i due terzi di quello nazionale, mentre la composizione del valore aggiunto per settori di attività segnala un contributo molto meno rilevante dell’industria e significativamente più elevato dell’agricoltura rispetto alle altre grandi ripartizioni (nota 2). Molto più consistente è inoltre il contributo del settore dei servizi non destinabili alla vendita, a testimonianza del ruolo soprattutto di sostegno del reddito prima che di creazione di importanti esternalità per altri settori produttivi che la pubblica amministrazione svolge nell’area. La sottoindustrializzazione del Mezzogiorno è inoltre evidenziata dal valore del tasso di industrializzazione (nota 3) , marcatamente inferiore rispetto alla media-Italia. Infine, nettissimo è il distacco fra il Sud e le altre ripartizioni geografiche del Paese per quel che riguarda il tasso di disoccupazione. È bene però avvertire che tra le cause di quest’ultimo differenziale incidono fortemente, insieme ad altri, peculiari fattori demografici, oltre a peculiari caratteristiche del sistema economico e del mercato del lavoro del Sud (nota 4).

Le analisi basate sul paradigma “divariocentrico” colgono un altro aspetto della realtà quando evidenziano le differenze territoriali negli andamenti temporali dei grandi aggregati. Le serie storiche mostrano infatti che i cosiddetti divari tendono, dopo una prima fase di riduzione durata fino alla metà degli anni Settanta, ad allargarsi. Soprattutto negli anni più recenti, e cioè da quando, meno sostenuta dalla spesa pubblica, l’economia meridionale mostra un andamento meno anticiclico che in passato (nota 5).

Sul paradigma divariocentrico poggia comunque la tesi dell’opportunità di una politica di sviluppo unitaria e centralistica. Unitaria perché, se l’area è economicamente omogenea, non vi sono ragioni che motivino una particolare graduazione e specializzazione territoriale degli interventi; centralistica, perché una politica di sviluppo che non sia graduata e diversificata dal punto di vista territoriale può essere più efficacemente e efficientemente pilotata dal centro, dove è più facile che una o più agenzie deputate ad attuarla raggiungano la necessaria massa critica di risorse finanziarie, tecniche, umane. La tesi era alla base della scelta di affidare l’attuazione del cosiddetto “intervento straordinario” a una grande agenzia tecnico-finanziaria centrale (la “Cassa” degli anni Cinquanta-Settanta), affiancata da una corona di organismi specializzati (Fime, Formez, Insud); trova però oggi nuovi sostenitori in una eterogenea coalizione di delusi del regionalismo, statalisti nostalgici e tecnocrati neo-dirigisti, uniti da una profonda diffidenza nella capacità del mercato di produrre sviluppo autopropulsivo e autoregolato nel Mezzogiorno (nota 6). È singolare notare che la stessa Unione europea sembra allinearsi sulla tesi della sostanziale omogeneità del Mezzogiorno, adottando parametri rigorosamente macroeconomici per la delimitazione delle aree “obiettivo 1” della Penisola e ammettendo eccezioni che portano a farne coincidere il territorio con quello dell’intero Sud italiano (nota 7).

L’approccio qui sommariamente descritto si presta ad alcune critiche che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta hanno costituito il punto di partenza per il lavoro di una nuova generazione di studiosi (nota 8).

Una prima affermazione che può agevolmente essere messa in discussione coincide con la rappresentazione del Mezzogiorno come area omogenea, connotata da comuni caratteri di arretratezza e dipendenza. Limitando per il momento l’osservazione su un piano più prettamente macroeconomico e a dati disaggregati a scala regionale, si nota ad esempio come i livelli di reddito prodotto per abitante varino ampiamente all’interno dell’area, passando dai quasi 27 milioni di lire dell’Abruzzo ai 18 della Calabria. Differenze più che apprezzabili si notano anche nei tassi di industrializzazione, mentre ancora più accentuate sono le differenze nei tassi di disoccupazione.

Anche prescindendo dal caso-limite dell’Abruzzo, che presenta un valore del tasso quasi allineato su quello medio delle regioni del Centro e comunque inferiore al valore medio nazionale, è più che evidente il distacco fra i valori delle regioni della fascia orientale e quello delle regioni della fascia occidentale. Con tassi attorno al 18%, le prime presentano infatti un distacco rispetto alla media nazionale di circa sei punti percentuali, mentre il distacco delle seconde va al di là dei dieci punti, per superare i quattordici nel caso della Campania.

Altri dati, insieme a importanti elementi di tipo qualitativo, restituiscono un’immagine del Mezzogiorno ben meno uniforme. Immagine che si rafforza quando le analisi possono fondarsi su dati disaggregati a scala infraregionale (province, aree omogenee e, al limite, comuni).

Il tentativo più ambizioso di rimettere in discussione sulla base di elementi innanzi tutto quantitativi le più tradizionali rappresentazioni omologanti resta quello svolto dal Censis nella prima metà degli anni Ottanta (nota 9). Dallo studio, basato su un’analisi multivariata, emerge una mappa del Mezzogiorno con forti discontinuità territoriali nei livelli di industrializzazione, di benessere economico, di dinamismo imprenditoriale. Rappresentazioni molto articolate le offrono anche il tentativo del Centro studi Confindustria di costruire un indice sintetico di sviluppo a scala provinciale (nota 10) e quello del Censis di un indicatore sintetico della situazione economica. Naturalmente, anche a livello di singole variabili è possibile cogliere la presenza di marcati squilibri e discontinuità, anche fermandosi alla scala provinciale (nota 11).

Differenze e discontinuità si possono rilevare anche quando si osservino variabili di tipo non strettamente economico. A titolo di esempio si può fare riferimento a una graduatoria provinciale della presenza del crimine associato (nota 12), comunemente ritenuta fortemente pervasiva nell’insieme dell’area. Ciò che emerge è che non mancano province meridionali classificate nella prima fascia (scarsa incidenza del fenomeno) e nella seconda (incidenza media). Ma soprattutto è interessante il marcatissimo distacco che separa la prima (Avellino) dall’ultima (Reggio Calabria) delle province inserite nella terza fascia.

Ma lo scenario si fa ancora più articolato e di controversa interpretazione quando all’osservazione delle cifre si affianca quella di elementi di natura qualitativa, raccolti lungo l’arco di più di un quindicennio di lavoro sul campo dalla nuova generazione di studiosi dell’economia e della società meridionali. È possibile elencare almeno quattro fenomeni che contraddicono l’immagine di un Sud indistintamente prigioniero di una condizione di arretratezza e di dipendenza e come tale incapace di generare processi non eterodiretti di crescita economica e di modernizzazione: 1) la presenza, se non di distretti industriali intesi nel senso più propriamente marshalliano del termine, almeno di “aree-sistema” o di “aree di concentrazione produttiva” (nota 13), la cui capacità propulsiva è sostenuta da piccole e medie imprese a capitale locale, e in cui si notano rilevanti fenomeni di integrazione verticale (nota 14); 2) l’apertura di queste aree alla concorrenza internazionale, attestata dall’incidenza della quota realizzata su mercati esteri sul totale del fatturato delle imprese; 3) l’elevata natalità imprenditoriale riscontrabile in alcune province dell’area: soprattutto nella fascia orientale, ma anche in alcune zone della Campania; 4) la stessa estensione del sommerso.

Il dinamismo di alcune di queste aree non si arresta neppure in situazioni di congiuntura negativa: in evidenza è l’eccellente performance alle esportazioni del distretto del legno-mobilio dell’alta Murgia - il cosiddetto “triangolo del salotto” - che si afferma come l’area di specializzazione produttiva nel settore più vivace di tutto il Paese. Recentissimi studi condotti nell’ambito della cattedra di Politica economica dell’Università Federico II di Napoli attestano inoltre la presenza di “distretti nascosti” o “distretti potenziali” (nota 15) un po’ ovunque nel Mezzogiorno. Non solo in talune aree interne, dove esistono alcune condizioni per una industrializzazione autopropulsiva “senza fratture”, che emerge secondo modalità in sostanza non dissimili da quelle sperimentate nel Nord-est e nelle Marche (nota 16), ma persino in prossimità di aree dove processi di industrializzazione esogena, attivati dalle legislazioni sull’intervento straordinario, hanno prodotto effetti di spiazzamento. In realtà, la geografia dello sviluppo del Mezzogiorno presenta più le forme di un mosaico che di un affresco, con non poche aree dinamiche territorialmente contigue ad aree statiche e persino ad aree marginali. Di certo queste osservazioni non sono sufficienti per affermare che lo “sganciamento” da condizioni di sottosviluppo è ormai compiuto (e meno che mai nell’insieme del Sud); sono però utili per capire che in certe zone del Mezzogiorno (e non in poche) una combinazione di fattori spesso di antica origine, geografici, socio-culturali, politici, ha determinato la nascita di sistemi locali di imprese autoctone non più dipendenti da quelle componenti di domanda più o meno direttamente condizionate dall’andamento della spesa pubblica, ma capaci di misurarsi con successo con il mercato internazionale.

È una constatazione (difficilmente obiettabile) che comporterebbe alcune rilevanti implicazioni nel momento in cui si vanno ridefinendo le politiche di sviluppo dell’area.

Prima conseguenza. Quale che sia la valutazione da dare sui risultati dell’intervento straordinario (e i giudici più ingenerosi dovrebbero in ogni caso ipotizzare quale scenario si sarebbe prodotto in condizioni di totale assenza di politiche attive di sviluppo), è innegabile che i più rilevanti fenomeni di crescita economica e di modernizzazione sostanziale si sono prodotti proprio in aree (ad esempio: Abruzzo, provincia di Bari, basso Salento) in cui l’iniezione di capitali sostenuta dai meccanismi di incentivazione dell’intervento straordinario e soprattutto l’intervento diretto dello Stato sono stati più modesti.

Seconda conseguenza. Nelle aree a industrializzazione endogena la crescita economica è avvenuta più nonostante lo Stato che grazie allo Stato, dal momento che l’impianto tradizionale dell’intervento straordinario tendeva piuttosto, attraverso il meccanismo delle incentivazioni finanziarie, a favorire l’iniezione di capitali che non la valorizzazione di risorse, anche immateriali, preesistenti (come ad esempio skills tradizionali da riconvertire in chiave innovativa).

Terza conseguenza. Nelle aree più dinamiche del Mezzogiorno si è formato un “blocco sociale di produttori” il cui destino è in larga parte indipendente dalla misura degli aiuti finanziari cui avrebbe accesso ed è viceversa ancorato alla capacità di reagire o di prevenire gli andamenti del mercato, specie internazionale. In queste aree si è allargato il peso di una classe sociale che chiede un ruolo più forte del sistema pubblico nei suoi compiti più naturali (garantire un adeguato livello di infrastrutturazione; assicurare condizioni migliori di sicurezza; agevolare con la semplificazione amministrativa le procedure di rilascio di autorizzazioni, concessioni, licenze; garantire condizioni di maggiore flessibilità e riduzioni di costo del lavoro che aiutino a fronteggiare la concorrenza internazionale; ridurre la pressione fiscale) e una sua ritirata da compiti impropri.

Quarta conseguenza. Se nel Mezzogiorno l’uscita dall’arretratezza si è avuta proprio nelle aree in cui meno forte è stato l’intervento finanziario dello Stato (anche attraverso il vecchio sistema delle partecipazioni), è indispensabile che le condizioni specifiche e generali che hanno determinato il relativo successo delle aree a sviluppo endogeno siano alla base di una nuova politica di sviluppo che punti a riprodurle, anche dove non sussistano basi storiche e sociali altrettanto forti. In breve, ciò equivale a sostenere che lo sviluppo del Sud dipende dalla possibilità di studiare i fattori specifici alla base dello sviluppo di alcune aree, per riscoprirne l’esistenza o per ricrearli altrove, secondo un processo di generalizzazione o di propagazione per imitazione di esperienze virtuose (nota 17).

Quinta conseguenza. Le leve sulle quali agire dovranno riguardare molto più l’emersione e la legittimazione delle risorse già disponibili che la creazione artificiale di nuove convenienze. Ciò significa che la strada della cosiddetta programmazione negoziata, in grado di mobilitare “dal basso” le risorse locali in uno sforzo collettivo e ampiamente condiviso di sviluppo, dovrà imporsi (non solo a livello di petizioni di principio, come invece finora è stato) come la strada maestra per rilanciare lo sviluppo del Sud. Allo stesso modo, il baricentro delle incentivazioni dovrà passare da meccanismi di natura discrezionale a meccanismi di natura automatica.

Non si può dire che di queste implicazioni tenga effettivamente conto la politica di sviluppo del Mezzogiorno immaginata dal governo. Da un lato, infatti, non si possono sottacere le nostalgie centralistico-dirigiste insite nella proposta di rilancio dell’Iri come “agenzia” per lo sviluppo dell’area (nota 18), per quanto smentite dalle posizioni contrastanti di un sottosegretario al Bilancio (nota 19). Dall’altro, non si può non evidenziare che sono parte della complessiva politica economica del governo l’adozione di meccanismi che potrebbero incidere in modo fortemente negativo sulla competitività delle imprese locali (applicazione per legge della riduzione a 35 ore dell’orario settimanale di lavoro), l’introduzione di nuove rigidità nel mercato del lavoro (regolamentazione del lavoro informale attraverso il cosiddetto “Statuto dei nuovi lavori”), l’impulso dato a strumenti neo-assistenzialistici (borse di lavoro), l’oggettivo inasprimento della pressione fiscale (introduzione dell’Irap). Orientamenti e decisioni che certamente non vanno nella direzione di una valorizzazione di quanto di meglio il Mezzogiorno ha fatto per cominciare ad affermarsi come società e come economia al contempo padrona del proprio destino e integrata nel mercato internazionale.

Certo va riconosciuto che, accanto a questi orientamenti ne emergono, all’interno del governo, altri che sembrano andare in direzioni più opportune (incentivi fiscali e contributivi alle imprese, salario d’ingresso, introduzione del lavoro interinale). Ma il carattere contraddittorio che l’azione complessiva riceve dalla coesistenza di orientamenti e decisioni differentemente ispirati determina un gioco che nel migliore dei casi potrebbe essere a somma nulla. Alimenta, inoltre, legittime perplessità la straordinaria lentezza con cui i buoni risultati della programmazione negoziata (patti territoriali, contratti d’area) conseguiti a livello locale trovano applicazione. Solo per fare un esempio, si pensi che per nessuno dei patti territoriali finora approvati sono stati ancora resi disponibili i cofinanziamenti di parte statale. Né adeguato risalto è stato dato a strumenti come i contratti di gradualità, attraverso i quali in alcune regioni si sta realizzando con successo la fuoriuscita dal sommerso di importanti pezzi dell’apparato produttivo.

In verità, sembra che, di fronte al permanere della “questione meridionale”, i poteri centrali preferiscano reagire rimettendo in piedi soluzioni dirigistiche tanto datate quanto inefficaci, fondate sulla tesi (per quanto inconfessata) che il Mezzogiorno non potrà mai “fare da sé”. In linea con una visione “tradizionale” della questione, si sta piano piano affermando l’idea che piuttosto che guardare a ciò che di positivo nel Sud è avvenuto e sta avvenendo (sviluppo dell’economia sommersa incluso) per farne emergere, estenderne e valorizzarne i risultati, sia meglio rimettere in piedi un intervento esterno “forte”, che “rimetta in riga” l’area.

C’è una visione molto deterministica dello sviluppo economico e una visione molto autoritaria dei compiti di politica economica dello Stato dietro questa posizione. Ed è una fortuna per il Mezzogiorno che i vincoli di finanza pubblica ne limitino le possibilità di attuazione. Ma è una sfortuna che il blocco sociale che ne risulterebbe penalizzato, dalle piccole e medie imprese a capitale locale alla vasta massa di disoccupati che dalle soluzioni dirigistiche non trarrebbero (nella migliore delle ipotesi) che benefici molto temporanei, sia ancora nel Sud minoritario e soprattutto frammentato.

Alessandro Napoli

Note

(Nota 1) La Svimez è stata, dalla fine degli anni Quaranta ai primi anni Ottanta, il think tank che ha ispirato la legislazione alla base dell’intervento straordinario, in particolare nelle sue varianti più centralistiche e dirigistiche, ispirate al modello della Tennessee Valley Authority dell’era rooseveltiana (legge del 1950 istitutiva della “Cassa”) o fortemente influenzate dalle teorie dello sviluppo “per poli” à la Perroux (legge del 1957 con la quale l’intervento dello Stato nel Mezzogiorno veniva orientato in una direzione marcatamente industrialista).
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(Nota 2) Si sottolinea che la voce “industria” comprende anche il comparto delle costruzioni, il cui peso sul totale del valore aggiunto è nel Mezzogiorno superiore che in altre ripartizioni. Va notato peraltro che l’incidenza del settore agricolo risulta addirittura in crescita negli anni più recenti, essendo passata (Istat, Rapporto Annuale 1996, Roma, 1997) dal 5,6% del 1990 al 6,4% del 1994.
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(Nota 3) Tasso di industrializzazione: (addetti all’industria/totale addetti) x 100.
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(Nota 4) Un importantissimo contributo alla comprensione del mercato del lavoro meridionale e della natura della disoccupazione nell’area è costituito dal recentissimo volume collettivo curato da S. De Nardis e G. Galli, La disoccupazione italiana, Il Mulino, 1997.
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(Nota 5) La spesa pubblica ha a lungo avuto un ruolo anticiclico nel Mezzogiorno, contribuendo a contenere più che in altre ripartizioni geografiche gli effetti dei cicli recessivi.
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(Nota 6) Esemplare in questo senso la polemica suscitata dal disegno di affidare a una holding e ad agenzie specializzate compiti di attuazione dell’intervento pubblico per lo sviluppo del Mezzogiorno e delle aree depresse, promossa da Rifondazione comunista e dal governo. Su posizioni critiche, oltre a Confindustria, si situano economisti, studiosi e opinionisti di diversa estrazione e formazione, come ad esempio N. Colajanni (Il Sole 24 ore, 14 novembre 1997), M. D’Antonio (Il Sole 24 ore, 14 novembre 1997), M. Lo Cicero (Il Sole 24 ore, 13 novembre 1997), A. Marzano (Il Sole 24 ore, 14 novembre 1997).
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(Nota 7) La delimitazione cui si fa riferimento è quella adottata per il periodo di programmazione dei fondi strutturali 1993-1999. La recente comunicazione della Commissione (“Agenda 2000’) che prospetta le linee-guida della riforma dei fondi strutturali sostiene invece la necessità di una più rigorosa applicazione del criterio del reddito pro-capite e ipotizza una riduzione del numero degli obiettivi che potrebbe portare a un ulteriore restringimento (dopo l’esclusione dell’Abruzzo) dell’area in cui il cofinanziamento Ue è ammesso nella misura massima prevista dai regolamenti dei fondi strutturali. Sulle conseguenze prevedibili della riforma dei fondi strutturali in alcune aree del Mezzogiorno si veda, ad esempio, A. Napoli, Sui nostri mezzi, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 4 agosto 1997, p. 1.
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(Nota 8) Spesso in aperta polemica con il meridionalismo tradizionale, gli economisti e i sociologi che hanno contribuito a fondare su basi nuove lo studio del Mezzogiorno hanno in comune una forte inclinazione alla ricerca sul campo e allo studio della nuova imprenditoria e dei fenomeni di sviluppo locale. Sui più giovani hanno senza dubbio avuto influenza l’approccio della cosiddetta “Scuola di Ancona”, guidata da G. Fuà, la riscoperta del modello marshalliano del distretto industriale avviata da G. Becattini, la confutazione del paradigma “dualistico” dello sviluppo economico italiano condotta da A. Bagnasco in Tre Italie, la problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, 1977, Il Mulino. Fra i primi ad aver centrato il lavoro di ricerca sui fenomeni di nuova imprenditoria va senza dubbio ricordato M. D’Antonio, Il Mezzogiorno degli anni ’80: dallo sviluppo imitativo allo sviluppo autocentrato, Milano, 1985, Angeli. Una lettura dell’economia meridionale molto attenta ai fenomeni del sommerso viene sviluppata da L. Meldolesi, in sintonia con gli insegnamenti “possibilistici” di A.O. Hirschman. Di Meldolesi si veda, in particolare, Spendere meglio è possibile, Bologna, 1992, Il Mulino. Tra i saggi recenti di impostazione sociologica in controtendenza rispetto alle metodologie e alle tesi del meridionalismo tradizionale si vedano, fra gli altri, A. Mutti, Sociologia dello sviluppo e questione meridionale oggi, in “Rassegna italiana di sociologia”, XXXII, n. 2, 1991 e C. Trigilia, Sviluppo senza autonomia, Il Mulino, 1994.
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(Nota 9) Censis, La nuova geografia del Mezzogiorno, Roma, 1982, Mimeo.
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(Nota 10) Cfr. Centro studi Confindustria, Indicatori economici provinciali, Roma, 1995, Sipi, p. XIV.
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(Nota 11) Per l’esame di una ampia massa di indicatori territoriali, disponibili a scala provinciale, si rinvia a Centro studi Confindustria, cit.
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(Nota 12) Tale graduatoria provinciale è stata elaborata dal Censis-Osservatorio per lo sviluppo della legalità. Per ragioni di spazio non è stato possibile riportarla in questo articolo.
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(Nota 13) Sui concetti di “area di concentrazione produttiva” e di “area-sistema” si veda G. Garofoli, Lo sviluppo delle aree periferiche nell’economia italiana degli anni Settanta, in “L’Industria”, 1981, n. 3.
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(Nota 14) Si veda a questo proposito l’interessante descrizione del funzionamento del “distretto” della calzatura sportiva di Barletta curata da M. d’Ercole in F. Onida, G. Viesti, A.M. Falzoni, I distretti industriali: crisi o evoluzione?, Milano, 1992, Egea, pp. 143-167.
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(Nota 15) Cfr. L. Baculo (a cura di), Impresa forte politica debole, Napoli, 1994, Liguori.
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(Nota 16) Cfr. G. Fuà, C. Zacchia, Industrializzazione senza fratture, Bologna, 1983, Il Mulino.
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(Nota 17) Su questa tesi si veda, ad esempio, G. Lizzeri, Mezzogiorno possibile, Milano, 1983, Angeli.
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(Nota 18) Cfr. N. Colajanni, cit.
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(Nota 19) Cfr. intervista al sottosegretario Isaia Sales, Il Sole 24 ore, 27/11/1997, p. 14.
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