da Ideazione - gennaio 1998
LA SCONFITTA DEL
"NUOVO MERIDIONALISMO"
di Massimo Lo Cicero

I caratteri del "nuovo meridionalismo" si vennero a determinare negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e si formarono nell’ambito di una singolare e mai più ripetuta rete di relazioni, che si formalizzò negli ultimi mesi del 1946 con la nascita della Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. L’iniziativa di coagulare quelle energie venne assunta da un ministro in carica, l’onorevole Rodolfo Morandi, ma le singole personalità coinvolte rappresentavano un gruppo ed una cultura omogenei ben prima di dare vita all’Associazione (nota 1). I legami esistenti tra loro e la comune analisi dei problemi che impedivano la crescita dell’economia italiana, così come le linee generali lungo le quali ricercare la soluzione di quei problemi, venivano da una tradizione ancora più remota: la lezione politica ed umana di Francesco Saverio Nitti; la scuola manageriale di Alberto Beneduce; la radice di una tradizione meridionalistica che, dal 1910, aveva dato vita all’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (nota 2).

La definizione di "nuovo meridionalismo" doveva, nell’opinione di quel gruppo intellettuale, marcare insieme la continuità con l’impegno civile per la ricomposizione del dualismo economico esistente nell’economia italiana e, nel medesimo tempo, segnalare la rottura metodologica che essi proponevano sul piano analitico come nell’architettura degli strumenti e nell’indicazione delle terapie per superare il dualismo stesso (nota 3). Le opzioni capaci di identificare emblematicamente l’apporto innovativo che essi intendevano innestare sulla tradizione cui si richiamavano erano tre: affiancare l’Italia al grande sforzo che le energie intellettuali del mondo occidentale promuovevano per diffondere e sostenere l’idea di uno sviluppo economico, promosso da azioni intenzionali ma realizzato senza rinunciare al paradigma più generale della libera iniziativa in campo economico; affidare all’espansione dell’industria la funzione di variabile chiave per ottenere la chiusura del dualismo territoriale che divideva il Paese e realizzare questa espansione attraverso la creazione di un sistema di esternalità favorevoli all’espansione industriale; creare un’organizzazione dotata di reputazione finanziaria internazionale, abilità tecnica ed ampia autonomia, dal sistema dell’amministrazione pubblica come delle assemblee rappresentative, alla quale affidare la missione di generare le condizioni favorevoli all’espansione.

I punti di riferimento di questa triplice prospettiva sono, a distanza di molti anni, assai più evidenti di quanto allora poteva apparire: dietro l’impegno di quel gruppo intellettuale si vede, con il senno del poi, la grande suggestione alimentata dalla creazione della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, oggi più nota come Banca mondiale. Ma sarebbe ingeneroso limitare le radici dell’operazione a questa specie di American dream (nota 4). Dietro il gruppo, riunitosi nella Svimez, c’erano anche le esperienze maturate nella lunga e difficile stagione che aveva consentito all’Italia di superare due grandi crisi bancarie: ai primi del secolo e negli anni Trenta.

C’erano, insomma, tutta l’esperienza e la passione accumulate dalle élites manageriali del Paese nel tentativo, riuscito, di evitare il dissesto del sistema bancario, superare i limiti della banca mista, importata su basi fragili dal modello "continentale" di crescita economica, consolidare le fondamenta patrimoniali della rete primaria delle infrastrutture e dell’industria pesante nazionale. Imprese, tutte, che erano state portate a termine grazie alla singolare creazione di una rete di enti finanziari, pubblici solo per l’esserci, ed alla parallela promulgazione di una legislazione bancaria che confinava il sistema delle aziende di credito nella ridotta sfera di attività tipica della banca di sconto e di deposito (nota 5).

La combinazione tra questa capacità di dare vita ad organizzazioni, che presentavano la reputazione dello Stato nazionale, unita all’abilità manageriale ed alla possibilità finanziaria di agire come grandi intermediari creditizi, si saldò con l’esperienza nel governo di grande concentrazioni industriali, che la guida di quelle organizzazioni aveva affinato. Alla scuola di Nitti e di Beneduce, quindi, era maturata la convinzione, per molti tra coloro che dettero vita e corpo al "nuovo meridionalismo", che solo un grande sforzo in direzione di una ripresa del processo di accumulazione industriale avrebbe generato la ricchezza necessaria al risanamento del sistema finanziario, compromesso dalle crisi attraversate e dalle singolari e negative abitudini dei circoli dirigenti della borghesia nazionale (nota 6). Questa fiducia nella necessità dell’accumulazione industriale come primo motore dell’allargamento possibile del benessere nazionale si colloca alla base della convinzione che solo l’industria avrebbe potuto consentire la soluzione definitiva per il problema dell’arretratezza dell’economia meridionale. La convinzione, altrettanto radicata, che non dovesse essere compito della politica economica dare vita a nuove iniziative industriali, ma solo creare le condizioni perché quelle iniziative venissero perseguite e realizzate da gruppi privati, indicò nella creazione di una rete di infrastrutture e nella modernizzazione delle condizioni di vita e di produzione nel sistema dell’agricoltura meridionale il compito esclusivo del nuovo ente economico cui affidare la missione di rendere possibile l’industrializzazione del Mezzogiorno.

La relazione tra queste convinzioni di principio e le soluzioni organizzative adottate non spinga il lettore ad immaginare una sorta di deformazione tecnocratica, manageriale od organizzativa per la cultura del "nuovo meridionalismo": una specie di deformazione professionale in chiave aziendalistica e microeconomica. Alla capacità analitica del gruppo non sfuggiva la dimensione tipicamente macroeconomica del problema che essi dovevano affrontare: trovare una possibile compatibilità tra un’accelerazione della crescita in una parte importante per dimensioni dell’economia nazionale senza compromettere l’equilibrio dei conti con l’estero dell’intero Paese. E, inoltre, realizzare questo traguardo in presenza dei corposi patrimoni liquidi, eredità dei recenti trascorsi di illegalità e disordine nelle transazioni commerciali in ragione della guerra appena terminata. La soluzione che essi costruirono rispettò i vincoli esistenti e consentì il raggiungimento degli obiettivi. La chiave di volta di questa compatibilità venne individuata nel finanziamento della crescita aggiuntiva attraverso i prestiti erogati dalla Banca mondiale alla neonata Cassa del Mezzogiorno. Anticipando in tal modo la tecnica delle sovvenzioni finanziarie globali che la stessa Banca mondiale adotterà per alimentare la crescita dei Paesi deboli negli anni Ottanta (nota 7).

L’ente economico nazionale, la Cassa del Mezzogiorno, assumeva su di sé le funzioni di screening e monitoring necessarie per l’individuazione e la realizzazione dei grandi progetti infrastrutturali al centro della politica domestica di espansione; la reputazione del nuovo ente garantiva la Banca mondiale dal rischio di azzardo morale implicito nella natura e nella dimensione delle operazioni; la credibilità personale e la capacità di coordinamento e cooperazione dimostrata dagli appartenenti al gruppo manageriale, che si poneva alla testa di quell’esperimento di politica economica e sociale, rappresentavano un’ulteriore garanzia della performance attesa e l’argine contro la possibile degenerazione della soluzione individuata (nota 8).

Pasquale Saraceno traccia nel 1962 un bilancio appassionato dei risultati raggiunti applicando i princìpi che abbiamo cercato di riassumere, ed individua i termini di una possibile integrazione della formula originaria attraverso una politica attiva per l’espansione ed il consolidamento della natura industriale nell’economia meridionale (nota 9). In quegli anni l’Italia ha compiuto il primo e decisivo passo in direzione della crescita e dell’integrazione con gli altri Paesi industriali. Le ricette suggerite dal "nuovo meridionalismo" hanno consentito di impiegare il risparmio del resto del mondo, canalizzato attraverso la relazione tra Banca mondiale e Casmez, per espandere il livello dell’attività economica nelle regioni meridionali: questa espansione ha alimentato la domanda di beni di consumo e di investimento nei confronti dell’altra sezione territoriale del Paese. L’integrazione commerciale tra l’economia nazionale e l’economia mondiale ha allargato i mercati delle industrie settentrionali ed è iniziato il processo migratorio che sposterà una larga quota delle risorse umane dal Sud al Nord del Paese. Si avvertono i limiti e si misurano i traguardi raggiunti, mentre si prende atto della necessità di adeguare strumenti e comportamenti a un cambiamento più generale che investe il quadro europeo e quello mondiale (nota 10).

La ricerca di un aggiornamento nella terapia di politica economica si affianca alla discussione ed al confronto per individuare un nuovo equilibrio politico. La convergenza tra cattolici e socialisti, che darà vita al centro-sinistra, si intreccia con i temi di una possibile diversa strumentazione economica. I rappresentanti di un punto di vista laico e liberale, che avevano avuto parte importante nell’affermarsi della formula organizzativa e strategica proposta dal "nuovo meridionalismo", avvertono il rischio di una compressione del proprio ruolo derivante dalla saldatura tra socialismo riformista e cattolici democratici. Il leader indiscusso di questo gruppo, Ugo La Malfa, avverte inoltre l’ulteriore possibile saldatura tra cattolicesimo democratico e movimento comunista, e si sforza di trovare un equilibrio possibile tra i contenuti di una diversa politica economica e la nuova configurazione che il sistema politico potrebbe assumere. Qualora, infatti, l’equilibrio delle forze si fosse fondato su cattolici democratici, sinistra socialista e movimento comunista, sarebbe stata compromessa la relazione fiduciaria, alternativa, tra cattolicesimo liberale, riformismo socialista e tradizione laica e risorgimentale (nota 11). Si osservi come l’intero paradigma culturale ed il riferimento politico naturale del "nuovo meridionalismo" fossero interamente risolti nella seconda tra le due triadi e come l’unico punto di contatto tra le due architetture possibili dell’alleanza strategica necessaria fosse rappresentato dal Partito repubblicano. Si osservi ancora come il tentativo, soggettivo, di Ugo La Malfa rappresentasse l’ipotesi di collegare attraverso un personale politico "illuminato" l’insieme delle forze in campo mentre, in parallelo, quel medesimo collegamento veniva realizzato, sotto un profilo oggettivo, attraverso una grande organizzazione capace di assorbire entrambe le prospettive al proprio interno, la Democrazia Cristiana.

Questa lunga parentesi ci ha costretto ad abbandonare il terreno della politica economica in senso stretto, ma ci ha anche consentito di segnalare le ragioni che conducono all’esaurimento della spinta propulsiva del "nuovo meridionalismo". Il successo politico incontrato dalla convergenza culturale tra cattolicesimo democratico e movimento comunista impone alla politica economica un accentuarsi dei caratteri statalisti nel processo di programmazione ed amministrazione della presenza pubblica. Si esauriscono, da una parte, i margini per un intervento pubblico "amico" dei mercati così come era stato disegnato dai fondatori della Svimez. Quella politica, d’altra parte, aveva toccato i propri limiti quando era stata posta di fronte al problema del finanziamento dell’espansione industriale in un contesto di progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari internazionali (nota 12).

L’opzione di canalizzare attraverso gli Istituti di credito speciale un addendum di risorse finanziarie, intermediate dalla pubblica amministrazione, direttamente verso le imprese impegnate nell’allargamento della base industriale nel Mezzogiorno mostrerà la corda nei due decenni successivi. Essa, probabilmente, fu condizionata nell’esito negativo anche dall’orizzonte più generale che veniva restringendo il campo della politica economica nazionale. Si era affermata una singolare miscela di intermediazione pubblica nell’uso delle risorse, che spinse Mario Monti a parlare dello Stato italiano come "banchiere occulto", e di rifiuto sistematico all’integrazione tra il mercato finanziario domestico e quello internazionale. Opzioni collegate tra loro dalla mutua necessità di isolarsi dal processo più generale di globalizzazione per accentuare il carattere di indirizzo politico ed amministrativo sul ciclo economico domestico e la necessaria parallela dilatazione del debito pubblico.

Testimoniano questa profonda degenerazione, ed uno scostamento dai princìpi culturali del "nuovo meridionalismo", la crescente farraginosità delle procedure e del sistema dei controlli che si leggono nella legge 183 del 1976 e, in termini ancora più antistorici e plateali, nel molto mediocre testo della legge 64 del 1986. Con esse si interrompe la storia positiva dell’intervento straordinario. Gli anni Ottanta, inoltre, anche in seguito alla legislazione promossa per intervenire sugli effetti del sisma che colpì la Campania e la Basilicata all’inizio del decennio, registrano una pesante trasformazione della condizione economica meridionale: sovrapponendo agli effetti dell’arretratezza un nuovo e diverso meccanismo di formazione e distribuzione delle risorse. Al Mezzogiorno che ricercava il catching up del Centro-Nord si viene sostituendo, secondo un processo che Paolo Savona ha definito come l’effetto "pentola bucata", un Mezzogiorno dipendente dai trasferimenti finanziari ricevuti dal Centro-Nord. Circostanza che riduce i divari di benessere esistenti nei confronti dell’altra sezione del Paese, ma lascia immutati i divari di produttività: creando le premesse di una sostanziale marginalità rispetto al nucleo duro dell’economia nazionale (nota 13).

Lo shock del 1992, che interrompe drasticamente il ciclo della dipendenza, apre una stagione di marcata deflazione nell’economia meridionale. Alla deflazione si accompagna, come era prevedibile, una diffusa crisi strutturale nel sistema delle banche, in ragione dell’insolvenza generalizzata che la contrazione del volume d’affari alimenta nel sistema delle imprese. Concorre nella crisi bancaria l’eredità negativa derivante dalla mancata internazionalizzazione del mercato dei capitali, che penalizza il Mezzogiorno in misura ancora maggiore, vista la sostanziale estraneità del suo sistema imprenditoriale anche al mercato internazionale delle merci, nonché la ventennale deformazione dell’attività bancaria, nel credito mobiliare, in direzione dei servizi di cassa e valutazione per conto della pubblica amministrazione, nell’erogazione di crediti agevolati e trasferimenti alle imprese in conto capitale. Si guardi alle dinamiche del prodotto interno lordo e dell’investimento pro capite, misurate in percentuale delle medesime grandezze osservate nel Centro-Nord, per il lungo periodo che separa il 1951 dal 1995 (nota 14). La prima fase, quella orientata dai princìpi del "nuovo meridionalismo", quando essi erano coerenti con il quadro internazionale e sostenuti da un equilibrio politico domestico ragionevolmente coerente con la loro applicazione, mostra una sostenuta crescita degli investimenti ed una ragionevole crescita del prodotto locale. Dagli anni Settanta si inverte la dinamica degli investimenti e si allinea ad una sostanziale stazionarietà il livello del prodotto interno: sono gli anni della dipendenza economica e finanziaria del Mezzogiorno. Gli anni Novanta, infine, segnalano chiaramente come sia in atto un precipitoso scostamento dal trend pluriennale di crescita che aveva caratterizzato la dinamica del prodotto interno locale rispetto a quello del Centro-Nord: esso infatti ritorna ai livelli osservati negli anni Sessanta.

Rimane da chiedersi se esista, ad oggi, ancora una lezione vitale nell’esperienza del "nuovo meridionalismo" ed in che cosa essa debba essere individuata. La prima risposta è dovuta con chiarezza ed è affermativa. Nelle ridotte dimensioni di questo scritto, si è cercato di mostrare come il "nuovo meridionalismo" sia stato piuttosto sconfitto dalle dinamiche profonde del sistema economico e politico nazionale piuttosto che da errori interni di valutazione o di impostazione. Al gruppo dei suoi eredi, piuttosto che a quello dei suoi promotori, deve forse essere contestata la mancata percezione delle nuove condizioni date all’indomani della prima crisi energetica (nota 15).

Come accade quando mutamenti strutturali deformano le condizioni dell’ambiente nel quale occorre sviluppare una politica economica la grande lezione, ancora feconda, che ereditiamo dagli uomini che dettero vita al "nuovo meridionalismo" è quella del metodo e dello stile di comportamento. Il metodo, ancora tutto da condividere, era e rimane quello di una visione generale dei problemi che si intende affrontare: nella prospettiva di soluzioni strumentali capaci di raggiungere una dimensione efficace della propria applicazione e di essere compatibili con la situazione macroeconomica e l’ambiente di riferimento più generale. L’ulteriore lezione è quella di scegliere soluzioni che forzino i tempi, imposti dalla lenta capacità di adeguamento alle aspettative, dei mercati sui quali si interviene ma che non rappresentino una radicale rottura con i princìpi che consentono a quei medesimi mercati di funzionare. Perché, in tal caso, come dimostrano in negativo l’improduttiva opzione italiana degli anni Settanta per l’autarchia dei mercati finanziari e la commistione tra attività bancaria ed incentivi finanziari erogati dallo Stato, in una logica di pieno dirigismo, gli effetti sono assai diversi dalle aspettative ed i costi, includendo anche quelli necessari per ritornare ad un ordinato svolgersi del ciclo economico, sono veramente eccessivi. La diffidenza verso le potenzialità che il governo assegna alla propria capacità di sostituirsi ai mercati e l’esigenza di accelerare il ritmo di espansione del reddito prodotto nell’area meridionale, invece di finanziarne un livello fragile di benessere attraverso trasferimenti di risorse spendibili ai soggetti sociali residenti, sono le due grandi coordinate di politica economica che appaiono compatibili sia con le motivazioni alle origini del "nuovo meridionalismo", sia con le regole di comportamento suggerite oggi dal medesimo organismo cui si richiamavano i suoi fondatori, la Banca mondiale (nota 16). Senza dimenticare, nella parte ancora vitale di quell’approccio, la necessità di creare organizzazioni coerenti con le finalità assegnate ed affidarne la guida a soggetti dotati di reputazione e adeguato profilo professionale. Circostanze, entrambe, capaci di minimizzare i rischi di "fallimento del mercato": le prime perché rappresentano esternalità positive per l’intero processo di crescita, i secondi, cioè i managers cui vengono delegate funzioni di indirizzo, perché concorrono a minimizzare il rischio di azzardo morale implicito nella delega.

Non è poco in un clima che sembra premiare il metodo della concertazione e del coinvolgimento delle parti sociali sul merito delle azioni da intraprendere e sulla valutazione analitica dei costi e dei benefici associati a singole scelte pubbliche. La globalizzazione del mercato finanziario internazionale e l’accettazione dei princìpi enunciati nel trattato di Maastricht, infine, impongono di abbandonare ogni suggestione per una politica industriale fondata sulla deformazione per via amministrativa dei comportamenti bancari. Allargamento del mercato dei capitali, regole chiare per la corporate governance, competizione tra banche italiane e banche straniere rappresentano il riferimento necessario per la futura espansione industriale e, per questo aspetto, rendono assolutamente inadeguate ed obsolete le soluzioni di finanza aziendale "amministrata" che riempirono il vuoto di proposte del "nuovo meridionalismo" all’indomani della crisi energetica del 1973.

Riferimenti bibliografici

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World Development report 1997, The State in a changing World, The World Bank 1997.

Note

1. Si vedano Negri Zamagni e Sanfilippo, 1988 e Svimez,1997.
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2. Così come riportato da Rossi-Doria in AA.VV., 1986.
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3. "Nuovo meridionalismo" è una definizione voluta e creata proprio dal gruppo che si riunì nella Svimez: le ragioni del nome vengono meticolosamente riproposte da Saraceno in molti suoi scritti. Tra gli altri si vedano Saraceno, 1986 e Saraceno, 1988.
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4. Guido Carli ritornerà molte volte sulla prospettiva atlantica ed occidentale delle élites italiane e sulla funzione positiva che essa assolve nello svolgersi della vita nazionale. Si veda Carli, 1993. Le caratteristiche tecniche e domestiche della proposta si leggono nei contributi di Saraceno riportati in Negri, Zamagni e Sanfilippo, 1988 ma anche in Saraceno, 1990.
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5. Si vedano alcuni testi di Menichella raccolti in Menichella, 1986 ma anche la relazione di Saraceno e gli interventi di Finoia e Pescatore in AA.VV., 1986. Per una ricostruzione più analitica degli effetti di quella stagione sulla struttura finanziaria nazionale sia consentito rimandare a Lo Cicero, 1996.
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6. A Menichella viene fatto risalire un simile giudizio, anche per l’influenza che ebbero sulla sua formazione i giudizi di Pantaleoni, così come è indicato da Carli sia in AA.VV., 1986 che in Carli, 1993. Dai medesimi testi si apprende della diffidenza di Menichella verso una rapida liberalizzazione per i flussi internazionali di capitale finanziario.
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7. Nel volume più volte citato (Carli, 1993) è proprio l’ex governatore a paragonare quelle operazioni agli impact loan successivamente sperimentati dalla Banca mondiale.
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8. La singolarità di un ente, attore dominante della politica pubblica ma estraneo ai controlli ed alle procedure della p.a., non sfugge ad un liberale dichiarato. Si vedano le pagine 108 e 109 in Leoni, 1997. La sua analisi, tuttavia, illumina il rischio di azzardo morale implicito nella gestione ed individua, per differenza, i limiti cui era, e sarebbe stata, progressivamente sempre più esposta una simile struttura organizzativa.
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9. Si veda Sareceno, 1990.
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10. Una diagnosi lucida ed anticipatrice della nuova agenda di politica economica viene proposta da Francesco Compagna; si legga Compagna, 1963.
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11. Ancora una volta occorre citare Carli, 1993, per la ricchezza di dettagli autobiografici come per la fredda lucida cronaca di anni che vedevano l’allora governatore tra i protagonisti degli eventi descritti.
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12. Tra i pochi contributi che posero la questione della relazione tra finanza e crescita, si veda Tamagna e Qualeatti, 1978. Sulla necessaria compatibilità tra governo e mercati si veda Shotter, 1991 ma si leggano anche Leoni, 1990 e Stiglitz, 1994.
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13. Si vedano Savona, 1984 e Savona, 1989 nonché il tentativo microeconomico di contestare la tesi di Savona in Prosperetti e Varetto, 1991.
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14. I dati sono esposti in Svimez, 1997.
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15. Si leggano, ad esempio, il testo di Un programma per il Mezzogiorno in Svimez, 1988 come Saraceno, 1988 per verificare la distanza ormai esistente tra le ipotesi avanzate dalla Svimez e la natura dei problemi da affrontare, in Italia e nel Mezzogiorno.
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16. Si vedano il WDR del 1997, i contributi di Kunt Levine, 1986 e di Levine, 1997 nonché quello di Stiglitz, 1994.
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Su molte delle questioni sollevate in tema di azioni pubbliche e sviluppo fornisce singolari suggestioni la lettura di Rist, 1997.

Massimo Lo Cicero


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