da Ideazione - luglio 1998
LA FEBBRE DELLE
FUSIONI BANCARIE

di Massimo Lo Cicero 

Il sistema bancario italiano attraversa un periodo difficile: cambiano le regole di comportamento sui mercati finanziari; cambia il regime monetario e più banale, centrato sulla specializzazione verso la banca di sconto e di deposito e la rigida separazione per scadenza temporale della raccolta e degli impieghi. In altre parole, un sistema fragile ma allineato sulla frontiera delle tecnologie contemporanee venne sostituito da un sistema stabile ma separato dal mercato europeo, per cultura ed atteggiamenti, ed iniziò un lungo periodo di isolamento internazionale, nella fase precedente il secondo conflitto mondiale ma anche nel cinquantennio successivo. Quando l’economia italiana accettò il regime dell’integrazione commerciale con il resto del mondo ma mantenne isolati ed autarchici, e dunque anche asfittici, i propri mercati del credito e della finanza.

Il vero costo che avrebbe inciso pesantemente sulla storia delle banche italiane, tuttavia, fu rappresentato dalla drastica trasformazione della loro base proprietaria: le grandi banche d’affari, Comit, Credit e Banco di Roma, confluirono nel sistema pubblico attraverso l’Istituto per la ricostruzione industriale; le banche di emissione del Regno borbonico, il Banco di Napoli e quello di Sicilia si affiancarono all’Istituto di credito agrario, che evolveva nella nuova configurazione del Banco di Sardegna; le due "banche paracomunali e parastatali", come le chiamava Raffaele Mattioli, il Monte dei Paschi di Siena ed il San Paolo di Torino, iniziavano la propria espansione senza rinunciare alla dimensione pubblica dei propri statuti. Completavano il quadro le molte casse di risparmio e le numerose banche popolari, prevalentemente concentrate nelle comunità locali del Centro-nord, di cui raccoglievano la tradizionale vocazione autonomista e "sussidiaria", come si direbbe oggi nel linguaggio del trattato di Maastricht, ed un assai ridotto numero di banche private, società per azioni, che con gli anni saranno in parte riassorbite dalle casse e dalle popolari, ben più dinamiche.

Dalla legge del 1936 fino alla legge Carli-Amato del 1990 questa è la "foresta pietrificata" del sistema bancario italiano; il quadro normativo muta, invece, precipitosamente negli ultimi dieci anni: con il Testo unico del 1993 e la "Bozza Draghi" nel 1997 che portano l’insieme delle norme sulla frontiera europea sia per l’attività bancaria sia per la disciplina delle operazioni finanziarie realizzate dalle società quotate sui mercati ufficiali.

La rapidità della trasformazione è strettamente collegata all’integrazione valutaria e finanziaria, che prelude all’unificazione monetaria, e si consolida con l’accettazione delle politiche fiscali orientate al ridimensionamento del settore pubblico che accompagnano la nascita dell’euro.

La grande occasione mancata per le banche italiane è stato il decennio degli anni Ottanta, che è stato speso in improbabili discussioni sulla banca polifunzionale e la banca universale ed in inutili reiterazioni di politiche "condominiali", tra banche e pubblica amministrazione, nella speranza di sostenere i processi di investimento privato nelle zone deboli del Paese attraverso misure di programmazione concertata ed incentivi creditizi e fiscali.

Nel periodo che precedette la crisi di aggiustamento del 1992, al contrario, avrebbero potuto essere introdotti, in forma meno traumatica, i cambiamenti imposti poi dalla precipitosa unificazione dei mercati europei. Il fatto che questo non sia avvenuto conferma la rigidità implicita del sistema allora esistente e la portata degli avvenimenti che ne determinarono la fine, a partire dalla caduta del muro di Berlino.

L’assetto bancario generato dalla crisi degli anni Trenta si fondava su poche ma robuste certezze e richiedeva, come condizione necessaria per il suo efficace funzionamento, l’isolamento del mercato finanziario domestico dal mercato internazionale ed un clima economico di stabilità dei prezzi interni.

Le banche, in questo scenario, rappresentavano prevalentemente un canale di trasmissione della politica monetaria ed un sostituto, per le imprese di piccole dimensioni, dell’esistenza di mercati mobiliari strutturati. Per garantire il trasferimento del risparmio interno ai progetti di investimento industriali agivano gli "Enti Beneduce", istituti di credito a medio termine, specializzati nell’emissione di obbligazioni e nella concessione di prestiti a lunga scadenza. L’architettura del sistema subì un primo scossone negli anni Sessanta: quando si manifestarono le prime avvisaglie di focolai inflazionistici interni e la pubblica amministrazione maturò il convincimento di poter canalizzare il risparmio verso gli investimenti politicamente desiderabili con un sistema di agevolazioni, erogate cumulando le stesse alla funzione di intermediazione svolta dagli istituti di credito a medio termine.

Bisogna ricordare lo spirito del tempo; erano gli anni della nazionalizzazione delle imprese elettriche e della politica di programmazione deliberata dai comitati interministeriali: anni di una politica economica pervasiva rispetto alla normale esistenza della comunità degli affari ed orientata all’allargamento del controllo del governo, e del Parlamento, sul processo di investimento.

Nel periodo tra la prima crisi seria congiunturale, il 1964, ed il primo deciso trauma esterno, la crisi energetica del 1973, l’architettura iniziale dei mercati creditizi richiese una correzione: nacque la doppia intermediazione. Le banche raccoglievano risparmio e lo usavano per finanziare gli istituti di credito a medio termine acquistandone le obbligazioni.

Il costo di quelle obbligazioni veniva agevolato da contributi pubblici per ridurre, solo in alcune forme di impiego ed in alcuni territori, il costo finanziario degli investimenti. Con il procedere degli anni Settanta si inasprisce l’inflazione e si allarga l’area della spesa controllata da governo e Parlamento: alle banche vengono posti ulteriori vincoli amministrativi; dall’agevolazione della provvista obbligazionaria si passa all’agevolazione diretta, in conto interessi, dei mutui industriali ed ai contributi agli investimenti, in conto capitale. Negli anni Ottanta si consuma l’illusione di poter mantenere un regime di pianificazione accentrata che governi la crescita economica nel Mezzogiorno con fallimentari risultati: sul piano della crescita economica ma anche, con conseguenze ancora in atto, su quello della diffusione di una moderna cultura degli affari tra gli unici attori possibili della crescita, le imprese e gli imprenditori.

Le banche, travolte dall’euforia degli anni Ottanta, non affrontano la sfida della propria radicale trasformazione e si trovano, di colpo, a scontare l’impatto traumatico del mercato unico europeo ed i costi, organizzativi e sociali, che il processo di adattamento comporta.

Il fallimento dell’ipotesi di uno sviluppo orientato e controllato dalla pubblica amministrazione nel Mezzogiorno, inoltre, produce un drammatico trauma sul sistema bancario locale: il brusco mutamento congiunturale ed il venire meno dei trasferimenti pubblici impongono un regime di stagnazione alle imprese.

Senza poter disporre di nuovi ricavi esse diventano insolventi per i vecchi debiti contratti e la loro insolvenza si traduce, ovviamente, in una generalizzata crisi delle banche.

La crisi viene arginata con prontezza dall’autorità monetaria e fronteggiata dalle strutture aziendali delle banche che riescono a difenderne la liquidità grazie al mantenimento di una costante corrente fiduciaria con la grande platea dei depositanti: il risparmio che non viene assorbito dalla crescita assicura alle banche meridionali la continuità aziendale. Il capitale di quelle banche, tuttavia, risulta falcidiato dall’insolvenza generalizzata delle imprese e viene ricostituito grazie ad apporti pubblici o all’intervento di banche esterne all’area. Ne deriva una drastica trasformazione della proprietà delle banche locali che prelude ad una ridefinizione dei relativi profili organizzativi e potrebbe determinare una frattura, culturale e di linguaggio, prima ancora che operativa, tra le strutture imprenditoriali e la rete delle organizzazioni finanziarie operanti nel Mezzogiorno.

Una trasformazione che meriterebbe, da sola, l’attenzione delle autorità come degli attori interessati alla crescita della parte più debole del Paese. Su questo processo, tuttavia, si innesta un’ulteriore dinamica, che è l’effetto della crisi più generale affrontata dal sistema bancario nazionale.

I sintomi di questa crisi, lo abbiamo già detto, sono la diminuzione del numero delle banche e l’aumento delle dimensioni unitarie delle stesse. Con questa rincorsa delle grandi dimensioni le banche intendono conseguire la condizione necessaria per poter partecipare al futuro quadro della competizione europea. Esse crescono nei volumi amministrati per tentare, attraverso la successiva espulsione di risorse umane, di allineare il prodotto ed i costi unitari agli standard del più grande mercato unico europeo. Questa prima trasformazione non sarà sufficiente a garantire loro di superare l’impatto con quel mercato. Essa rappresenta solo la condizione minima per tentare di superarlo. In questo percorso le banche inseguono due risultati: la diminuzione dei costi per unità di prodotto e l’aumento dei prodotti, che esse siano in grado di offrire al mercato, sulla base di una struttura organizzativa esistente comunque. In pratica, le banche cercano di cogliere sia un obiettivo di dimensione sia un obiettivo di scopo, o di diversificazione. Le difficoltà per giudicare il successo o il fallimento di una simile prospettiva strategica derivano da un solo problema: l’identificazione del prodotto bancario.

Secondo uno schema da manuale le banche vendono almeno tre generi di prodotti: esse forniscono un'attività di intermediazione dai settori che dispongono di fondi liquidi a quelli che necessitano di fondi liquidi. Nello schema più banale questa attività trasforma le famiglie in creditori delle banche e le imprese nei loro debitori. Il rischio dei progetti finanziati insiste, tuttavia, in prima battuta solo sul patrimonio delle banche e, per questo motivo, la loro attività non è esprimibile solo in termini di intermediazione ma deve anche essere considerata alla stregua di una funzione di ammortizzazione dei costi sociali per i fallimenti imprenditoriali.

Un secondo genere di prodotti deriva alle banche dalla natura dei propri debiti. Esse sono considerate liquide per eccellenza e, dunque, un credito verso la banca può fungere da moneta nel circuito delle transazioni: senza contare che il numero assai esteso dei corrispondenti e l’esistenza di una rete di pagamenti tra le banche stesse offrono lo strumento naturale di una vasta compensazione di crediti e debiti. La rete delle banche, insomma, è una sorta di esternalità positiva, un bene pubblico, che amplifica i vantaggi e le opportunità di un diffuso ed efficace sistema per realizzare i trasferimenti di fondi. Dall’assegno bancario alla carta di credito sono veramente molti i prodotti cui ha dato vita una simile circostanza.

Le banche, infine, proprio grazie alla ricognizione dei processi di investimento ed alla gestione dei sistemi di pagamento, acquisiscono una mole rilevantissima di informazioni sul funzionamento dei mercati: reali e finanziari. Esse sono, di conseguenza, i migliori consulenti per la gestione dei patrimoni personali. A ben vedere questa funzione rappresenta quasi un’evoluzione di quella che abbiamo definito di ammortizzatore del rischio sociale: alle origini la banca risponde con il suo patrimonio dei rischi che nascono dall’incrocio tra depositi ed impieghi. Nei moderni mercati finanziari la banca accompagna le imprese ai mercati, quando consiglia l’emissione di obbligazioni ed azioni, ed accompagna le famiglie all’investimento del proprio patrimonio, quando suggerisce l’acquisto di azioni ed obbligazioni. Requisiti di deontologia e reputazione si affiancano ai requisiti patrimoniali in questa delicata funzione e rappresentano il vero capitale, intangibile, che la banca ha accumulato nei secoli. Una risorsa che altri, i quali vogliano sfidare le banche più affermate, impiegheranno molto tempo per assicurarsi, non sempre riuscendo nell’impresa.

Per tutti questi motivi, nella comunità degli affari si ritiene improbabile l’esistenza di un paesaggio finanziario del quale non siano le banche il tratto dominante. Ma, come dovrebbe essere chiaro, le opportunità dell’attività bancaria si espandono in chiave più che proporzionale alle dimensioni dei mercati sui quali la banca opera. Per questi motivi è difficile applicare alla banca gli schemi classici dell’economia industriale, che definiscono le economie di scala e quelle di scopo come l’effetto di una caduta dei costi unitari al moltiplicarsi del numero dei prodotti realizzati in serie ed alla moltiplicazione dei prodotti realizzati con il medesimo complesso organizzativo, cioè con costi fissi d'impianto stabili.

Le banche italiane, per ora, vogliono adeguare le dimensioni della massa intermediata a quelle dei propri concorrenti europei: essendo condizionate dalle ridotte dimensioni attuali che scontano la circostanza di aver esse agito sempre e solo sul mercato domestico, in un regime che privilegiava la stabilità del sistema rispetto alle capacità competitive di ciascuna banca.

Nel mercato dei beni tradizionali questa contrapposizione tra l’industria, cioè l’insieme dei produttori, e la capacità di espandersi per ognuno di loro, le singole imprese, assume una singolare configurazione.

L’industria coincide con le dimensioni del mercato e, per essere efficiente, tende ad imporre un regime di competizione tra le singole imprese che operano al suo interno. L’impresa, invece, tende a ritagliarsi nel mercato una posizione di vantaggio, ad intercettare una rendita differenziale che sostenga la sua capacità di anticipare i bisogni dei consumatori e di difendere il perimetro della propria quota di mercato.

Le dimensioni del mercato, tuttavia, "fanno" nel lungo periodo la dimensione media e la numerosità delle imprese presenti in un’industria, se i mercati dei prodotti operano in regime di competizione e se è sempre possibile ad un nuovo imprenditore entrare negli spazi lasciati liberi da coloro che falliscono. Ci vuole competizione sui prodotti e libertà, di ingresso e di uscita, dai mercati per rendere efficiente la produzione nell’interesse dei consumatori. Ma questo non accade sempre ed accade difficilmente nel mercato del credito.

La competizione sui prodotti è resa ambigua dalla distribuzione asimmetrica delle informazioni tra le banche e tra le banche ed i loro clienti; la banca, inoltre, acquista e cede promesse e, dunque, sconta nella propria attività la reputazione altrui, la capacità dei propri clienti di onorare i contratti, oltre che la propria. Infine, nell’attività dell’industria bancaria, nell’esistenza della rete di relazioni tra le imprese, si intravede l’esistenza di un bene pubblico, la disponibilità del quale deve essere tutelata nell’interesse dei consumatori e degli attori economici e non solo nell’interesse delle banche.

Ma come tutelare la rete senza difendere l’esistenza delle singole maglie? Diventa difficile, in altre parole, favorire l’entrata e l’uscita delle singole banche dal sistema. Si rende necessario un "prestatore di ultima istanza" che lasci in vita le banche illiquide ma non insolventi nel lungo periodo. Insomma, per dirla in breve, il fallimento come via per uscire dai mercati non è diffuso tra le banche e, di conseguenza, la forma più diffusa per entrare è inglobare e non sostituire le banche deboli, cioè quelle inefficienti.

Siamo consapevoli della rozzezza di questa spiegazione ma essa dovrebbe suggerire, ad un lettore che non venga dall’interno del sistema bancario, le ragioni della febbre di fusioni ed acquisizioni in atto da quando al piccolo mercato domestico italiano si è sostituito il grande mercato europeo. Se si condivide questa analisi, tuttavia, si deve riconoscere come la febbre in corso sia solo la prima fase del processo di aggiustamento. Esso potrà dirsi compiuto solo quando le banche italiane residuali avranno trovato un loro equilibrio competitivo, come giocatori regionali, sul mercato europeo. Un mercato domestico che si colloca, a sua volta, nel mercato internazionale, dove giocano con la nascita dell’euro; cambia la scena macroeconomica, nella direzione che le banche amano meno, perché diminuisce l’inflazione ma non riprende la crescita a tassi sostenuti.

Questo triplice ordine di difficoltà si traduce in una generalizzata rincorsa delle grandi dimensioni ed in una prospettiva di espulsione di una larga quota del capitale umano impegnato altrettanto generalizzata.

Nell’area tradizionalmente debole del Paese, il Mezzogiorno, nel corso di una grave crisi economica, indotta dal traumatico aggiustamento culminato nella svalutazione del 1992, si è manifestata una vera e propria crisi bancaria, che è stata arginata solo al prezzo di mutare radicalmente la proprietà di tutte le banche meridionali.

Nel giro di pochi anni, dunque, il panorama dei mercati finanziari risulterà drasticamente trasformato: cambiano il numero e le dimensioni unitarie delle banche italiane; cambia la proprietà delle stesse, trasferendosi progressivamente dal settore pubblico al settore privato; cambia la distribuzione territoriale del sistema bancario accentuando la natura dipendente della parte più debole dell’economia nazionale, il Mezzogiorno.

Le origini di questo processo di trasformazione ed i possibili approdi dello stesso possono essere indagati ripartendo dalle tre ragioni individuate in premessa: la trasformazione delle regole, la nascita della moneta unica, la fine di un lungo ciclo di alta inflazione.

Le regole che hanno condizionato la formazione del sistema, e la sua attuale configurazione, sono state scritte negli anni Trenta, quelli della "grande crisi", in parallelo con il tentativo di dare vita ad organizzazioni che agissero come le banche senza esserlo: gli "Enti Beneduce", dal nome del fondatore, che avrebbero dovuto garantire la continuità del flusso di risparmio verso gli investimenti necessari alla crescita del Paese, nell’industria come nelle infrastrutture. Anche in quella occasione, alla radice della crisi bancaria italiana si potevano individuare problemi domestici ed internazionali: come il contraccolpo dell’onda lunga di instabilità, che percorreva il sistema economico occidentale partendo dalle coste degli Stati Uniti, e la fragilità originaria delle banche italiane.

L’Italia era stato uno degli ultimi Paesi arrivati sulla scena del decollo industriale in Europa, e la rincorsa degli altri Paesi comportava, di per sé, un maggior grado di rischio ed una sfida più difficile verso l’incertezza del futuro. Questi fattori di svantaggio erano, nel medesimo tempo, opportunità per le banche europee che si spostavano verso il mercato italiano dando vita a joint ventures e ad operazioni di project financing nel settore dei trasporti o nella creazione e nella distribuzione di nuove fonti di energia.

Questo carattere aperto alla cultura continentale della banca d’affari, come la relazione con gli ambienti della comunità tedesca e di quella francese, segnerà la fisionomia originaria del nostro sistema bancario e renderà amaro il trapasso, con la nuova legge emanata nel 1936, ad un regime di attori globali: quelli in grado di essere, contemporaneamente, presenti su tutti i mercati regionali.

Gli effetti principali dell’impatto con l’euro ed il mercato unico europeo sono questi ultimi; le modifiche durature cui assisteremo sono anticipate dal processo di concentrazione degli intermediari su due piazze nazionali, Roma e Milano, con la seconda che assumerà la rappresentanza piena degli interessi riconducibili alla comunità finanziaria.

Le grandi banche meridionali, per ora, sono state indirizzate verso la fusione con altre banche pubbliche. Le piccole sono state cedute alle banche, private o pubbliche, che intendevano espandersi e disponevano di adeguati mezzi patrimoniali.

Con il Duemila si chiuderà questa prima fase, che genera i propri effetti solo sulle banche, e avremo un nuovo e più elevato grado di concentrazione del sistema italiano ed una sua diversa presenza nel mercato europeo.

Più complessa ed incerta negli esiti appare, invece, la seconda fase, quella aperta dalla nascita delle Fondazioni bancarie: le creature ambigue, nate dalle proprie "figlie", le banche pubbliche, grazie alla legge Carli-Amato, che ora dovrebbero abbandonarne il controllo per dedicarsi esclusivamente alla produzione di beni pubblici per le comunità locali.

Un passaggio difficile da avviare e, forse, ancora più difficile da governare negli sviluppi possibili. perché mette in discussione, insieme, il controllo indiretto del governo sulle banche e quello, diretto, sulla politica dell’educazione, dei beni culturali o della sanità. Ma di questo parleremo in un prossimo articolo.

Massimo Lo Cicero


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