Una politica economica per accelerare
la crescita nel Mezzogiorno d'Italia.

Note sugli strumenti possibili e utili. 


1. La parabola dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno si apre nel 1946, con la fondazione della Svimez, e si chiude nel 1984 con la soppressione della Cassa del Mezzogiorno. Anche se la legge 64 del 1986 riproporrà enti e strumenti di coordinamento centrale - il Dipartimento e l’Agenzia - che, in concorso con le Regioni e gli enti locali, avrebbero dovuto gestire la farraginosa sequenza di tre piani triennali, articolati in programmi annuali, orientati dalla regia e dalla responsabilità del governo centrale. Il giudizio su quest’ultima ipotesi di lavoro è già stato pronunciato nei fatti e negli atti parlamentari. Con la legge 488 del 1992 viene liquidata quella prospettiva burocratica e dirigista e viene assunta come direttrice della politica economica la lezione delle politiche regionali a scala europea.

2. A distanza di sei anni non si può dire che il nuovo sistema, ancorato alle metodologie comunitarie, abbia conquistato sul campo una particolare reputazione di efficienza o di efficacia. Hanno concorso a questo risultato insoddisfacente sia ragioni di struttura sia motivi legati alla congiuntura attraversata dall’economia nazionale. Il nuovo quadro normativo viene formato all’indomani del trauma della svalutazione e sulla base della pesante eredità organizzativa di almeno dieci anni di disordine ed approssimazione. La vicenda “alta” dell’intervento straordinario, quella che si può considerare erede delle suggestioni elaborate dai padri fondatori della Svimez, si era conclusa nel 1965 quando, con la legge 717, la vita della Casmez, originariamente decennale, viene prorogata al 1980: e da una prospettiva orientata alla creazione di un ambiente favorevole all’industria si passa all’intervento diretto sulla finanza delle imprese, in un intreccio inefficiente di organismi pubblici ed interessi imprenditoriali.

3. Un solo dato statistico è sufficiente per esporre la natura oggettiva di questa ascesa e declino delle politiche per il Mezzogiorno, al di là della cronologia legislativa che recepisce piuttosto che promuovere le modificazioni dell’ambiente esterno. Quando si consideri la dimensione del prodotto e degli investimenti fissi lordi pro capite nel Mezzogiorno, facendo pari a 100 quelli corrispondenti nel Centro-Nord, si nota come la quota dei secondi prevalga su quella dei primi fino al 1971 in termini crescenti. In quell’anno, infatti, la quota degli investimenti risulta pari ad oltre il 90% di quella del Centro-Nord mentre la quota del prodotto pro capite si adegua ad altre il 60% di quella del Centro-Nord. Lo scarto positivo è nell’ordine del 30%. Nel 1951 quel medesimo scarto era stato inferiore al 3%. Da quel momento, il 1971, lo scarto si riduce sistematicamente e diventa negativo con il biennio 1994/95. Si tratta di un’evidente conferma dei risultati della ricetta voluta da Menichella e Saraceno per determinare condizioni favorevoli all’espansione dell’industria e degli affari, in un ambiente aperto al commercio internazionale ma caratterizzato da un sistema finanziario chiuso e senza legami operativi con gli intermediari dei mercati internazionali.

All’indomani dei traumi valutari e della crisi energetica degli anni Settanta, mentre l’economia e la società del Centro-Nord si collocano, ancorché confusamente, in una traiettoria che li condurrà all’integrazione con il mercato mondiale, le classi dirigenti del Mezzogiorno optano per l’accentuazione del carattere dirigista e burocratico della politica economica, ottenendo un’ulteriore divaricazione tra la cultura della crescita e la percezione delle opportunità economiche da parte della comunità locale degli affari rispetto al clima nazionale, che evolve in direzione diametralmente opposta. Basta ricordare il ciclo ascendente della Borsa negli anni Ottanta.

4. Si ricava da questa lezione la cocente sconfitta del tentativo di affidare a filtri burocratici e dipendenti dalle amministrazioni governative la selezione degli investimenti ed il monitoraggio della loro realizzazione, nel campo industriale come in quello delle infrastrutture. Questo giudizio negativo non discende solo da motivi legati alla moralità pubblica od alla trasparenza amministrativa di singole vicende. Nel suo complesso, infatti, è la performance macroeconomica del sistema che dimostra la sua inadeguatezza rispetto alla soluzione di allocare risorse scarse in maniera efficiente, in un contesto segnato da crescente incertezza e da rischi di azzardo morale, che innalzano la probabilità di default per i progetti industriali come per quelli infrastrutturali.

Sul piano delle dimensioni reali dell’economia, questa sequenza di eventi ha fatto evolvere le caratteristiche della struttura meridionale verso imprese di dimensioni troppo limitate per accedere ai mercati esteri; ha favorito la localizzazione di impianti dipendenti da sistemi industriali diretti dall’esterno dell’area; ha generato un sistema di infrastrutture, di comunicazione e trasporto, decisamente inadeguato che impedisce, ancora oggi, al mercato locale di espandersi, perché non riesce ad integrare le singole dimensioni regionali in un’unica rete di relazioni commerciali. Il risultato prospettico di queste circostanze è stato quantificato dalla Svimez in un tasso futuro di crescita, per il 1998, inferiore rispetto a quello pur basso del Centro-Nord. E questo in presenza di una disoccupazione crescente, in particolare tra i giovani, e di almeno due occasioni mancate per le imprese meridionali nel corso degli anni Novanta. Due stagioni espansive, “ripresine”, che potrebbero anche non ripetersi nel prossimo futuro, atteso che la situazione italiana è ormai polarizzata su due aree. Il Nord con chiari sintomi di eccesso di domanda rispetto ai fattori di produzione disponibili ed il Sud con altrettanto chiari sintomi di eccedenza di forza lavoro e risparmio rispetto ad una domanda interna insufficiente ma anche privo di organizzazioni capaci di collegare le risorse disoccupate alla domanda estera od anche solo a quella settentrionale.

5. È in questo contesto che il problema di un radicale intervento di politica economica in direzione della crescita si è proposto all’opinione pubblica e parlamentare. La natura degli strumenti fino ad ora proposti appare inadeguata alla soluzione per tre ordini di motivi: ripercorre le strade e le soluzioni della fase calante dell’intervento straordinario, quella compresa tra il 1972 ed il 1992, piuttosto che rifarsi, nonostante il carattere datato di quella lezione, al modello di Saraceno e Menichella; non tiene conto delle modalità che si affermano sulla scena mondiale e propone soluzioni provinciali perché imitative di altri contesti ormai superati dallo stato delle cose sulla scena internazionale; ripropone una filosofia di coordinamento e concentrazione della decisione nelle mani di burocrazie pubbliche e di organizzazioni governative. Opzione culturale, quest’ultima, assolutamente sfasata rispetto alla prospettiva delle grandi agenzie per la crescita dei Paesi arretrati - si pensi per tutte alla World Bank - e fortemente condizionata dall’esigenza di trovare una collocazione ed una missione per enti, società ed organizzazioni che, esaurite le proprie, dovrebbero solo e semplicemente essere liquidati.

Prima ancora che per ragioni di merito, delle quali sarà detto meglio nel seguito, le soluzioni proposte vanno rifiutate in punto di metodo.

Quando il coordinamento di una pluralità di azioni viene considerato determinante ed affidato ad un unico centro, holding, comitato o agenzia che essa sia, si deve ritenere che i proponenti assumano che il problema della crescita nel Mezzogiorno sia tutto compreso in una presunta unità e che quella unità vada affrontata dalle azioni coordinate del centro.

Ora, è evidente che esiste un unico Mezzogiorno, definito in termini di appariscenti negatività: la disoccupazione estesa, la diffusa criminalità, l’assenza di infrastrutture, la ridotta apertura agli scambi con l’estero.

Ma è altrettanto evidente che questa situazione si può aggredire solo con una pluralità di politiche; tutte, però, capaci di attivare un’ulteriore pluralità di soggetti ed interessi locali. Solo con una piena responsabilità degli attori sociali locali, infatti, verrà definitivamente liquidata la tentazione di cercare la soluzione della crescita nella trattativa con un potere centrale benevolo.

La creazione di un soggetto forte coordinatore ripropone, al contrario, l’esistenza di questa potente controparte e svuota di ogni contenuto responsabile le azioni locali.

6. Il sistema delle organizzazioni ereditate dal passato è strutturato intorno a tre epicentri: l’Iri ha sviluppato in due direzioni la propria influenza, i servizi alle imprese e la finanza di sostegno, attraverso la Gepi e la Spi. La Cassa del Mezzogiorno aveva agito nelle medesime direzioni, dando vita allo Iasm, oggi Ipi e collegato al Ministero dell’Industria per la gestione delle informazioni sulle agevolazioni alle imprese, ed al Formez nell’area dei servizi. Grazie al collegamento con il sistema bancario, essa aveva dato vita anche agli istituti di credito speciale per il Mezzogiorno ed al gruppo Fime. Larga parte di quest’ultimo sottoinsieme è stato posto in liquidazione dopo essere stato trasferito al controllo del Tesoro in ragione dello scioglimento della Cassa e del processo di riordino del Banco di Napoli. Sul medesimo segmento di attività sono oggi presenti numerose società, come Europrogetti e Finanza o la Sofipa, che si devono ricondurre al Mediocredito Centrale, a sua volta controllato dal Tesoro. Restano al margine due ulteriori strutture, la Ribs, una società finanziaria del Ministero delle Risorse Agricole, e la società per le infrastrutture idriche, di nuovo riconducibile al Tesoro.

Si osservi come l’architettura originaria, quella voluta dai padri fondatori della Svimez, fosse accentrata ma non tanto da sostituire una gerarchia dominante ad un sistema diffuso di responsabilità.

La Cassa era stata progettata - ed è stata fino a tutti gli anni Cinquanta - come un’agenzia capace di realizzare infrastrutture per creare un ambiente favorevole alla crescita.

La presenza della Cassa nel capitale di istituzioni finanziarie e la sua attività per promuovere associazioni e centri di servizi la qualificarono sempre e soltanto come un azionista od un promotore.

L’ambizione al coordinamento ed alla creazione di un vertice unico, che si legge nelle proposte in discussione, rivela, quindi, un’intenzione dirigistica ed una prospettiva gerarchica molto più intensa di quella sperimentata nella soluzione di Saraceno e Menichella.

7. Come si può notare, tutte le architetture ipotizzate nella discussione sul riordino del sistema non fanno che ricondursi al modulo originario: un soggetto controllato dal governo che coordina enti ed organizzazioni nel campo dei servizi alle imprese o nell’amministrazione di facilitazioni fiscali e nella creazione di strumenti finanziari per la crescita. In questi campi, coerentemente con la logica operativa degli organismi comunitari, che pure si dichiara di voler assorbire, non ha senso dare vita ad organizzazioni pubbliche che offrano sul mercato prestazioni professionali a prezzo zero. Vi è in questo atteggiamento, in primo luogo, un errore di comunicazione: perché, indipendentemente dal giudizio sulle esperienze passate, risulta chiaro che una prestazione senza prezzo è anche senza valore nella sensibilità dei potenziali consumatori. Si generano, dunque, per questa strada clamorosi fenomeni di selezione avversa: si attirano, in altre parole, non progetti ma speranze; non occasioni di crescita ma esigenze di tamponamento e difesa di emergenze patologiche. Le uniche per le quali la sopravvivenza a prezzo zero rappresenta un valore positivo. Non è un caso che le società del gruppo Mediocredito intendano operare sul mercato, almeno nelle intenzioni dichiarate, ed anche quando lavorano per le amministrazioni pubbliche pretendano adeguati corrispettivi. Il circuito alternativo cui bisogna dare alimentazione, dunque, è di natura assai diversa. Bisogna creare le condizioni per spingere le imprese locali alla formulazione di progetti espansivi dotati di respiro strategico. Consentire che questi progetti vengano supportati anche da investimenti immateriali, abbandonando la prospettiva di agevolare esclusivamente l’investimento nei capitali fisici, negli impianti e nelle attrezzature, ma sottoporre questi progetti al vaglio dei mercati e degli intermediari finanziari. Ricorrendo alle capacità di selezione e monitoraggio offerte dagli intermediari italiani e da quelli esteri: incentivando e accelerando, nel medesimo tempo, il processo di privatizzazione della proprietà delle banche italiane. Per evitare la facile critica di rifiutare le organizzazioni sottoposte al controllo governativo quando si occupano di investimenti e di espansione industriale, ma di privilegiarle quando si occupano di credito e mercati mobiliari.

8. Servizi e finanza non esauriscono lo spettro degli strumenti necessari. La variabile strategica determinante per il Mezzogiorno è ancora oggi la creazione di un’adeguata rete di infrastrutture nei trasporti e nelle comunicazioni. La leva congiunturale più significativa sarebbe, al contrario, quella del riordino urbano e della riqualificazione ambientale dell’intero territorio. In entrambi i casi non si può pensare di ripercorrere le macchinose procedure dei piani triennali e dei programmi annuali, che diventano liste composte dalle ipotesi più disparate, filtrate dalla benevolenza e dalla sensibilità di qualche autorità pubblica. Occorre individuare la linea di demarcazione che separa i beni pubblici tariffabili da quelli per cui è indispensabile il concorso dei fondi statali, per assicurarne la produzione e mobilitare, attraverso forme di project financing strutturate dalle banche, internazionali o domestiche, le risorse necessarie alla loro realizzazione. Se un simile processo di orientamento al mercato della domanda di infrastrutture avrà luogo, saranno coinvolte nella soddisfazione delle richieste anche le molte società di servizi cui hanno dato vita operatori privati, dentro e fuori del Paese: accelerando il formarsi di una diversa e comune cultura degli affari, lievito necessario ed utile alla stessa ripresa della crescita.

9. Questo insieme di considerazioni conduce a due conclusioni. Le organizzazioni e le società pubbliche che hanno esaurito la propria missione devono essere sciolte: anche per restituire al mercato le risorse umane e le competenze che in esse si sono formate. Con la chiusura di quelle esperienze, al contrario di quanto avviene nelle industrie della manifattura, non viene distrutto capitale fisico installato ma si immette sul mercato la residua potenzialità di un capitale umano, reso sterile e demotivato dalla permanenza in organizzazioni burocratiche e senza reputazione esterna consolidata.

Non si può e non si deve proporre, come si legge in molti disegni di legge ed ipotesi di lavoro, che interessi pubblici e privati trovino la propria composizione nella base azionaria di nuovi organismi e società per la politica economica. Il metodo della concertazione e della negoziazione tra le parti sociali non può e non deve essere trasferito nella vita delle assemblee disciplinate dal Codice civile: che restano strumenti di presidio dei diritti di controllo e dei diritti al dividendo, oggetto delle dinamiche societarie. Che senso avrebbe immaginare società miste per il merchant banking, o la pianificazione strategica ed il marketing, quando lo Stato viene invitato ad uscire dal capitale delle banche e delle società che producono energia e trasporti con il processo di privatizzazione? Secondo quali logiche investitori privati dovrebbero assumere la maggioranza in organismi di investimento (fondi chiusi o società di venture capital) nei quali lo Stato conferisca ex ante somme rilevanti? A chi andrebbe il controllo di una simile organizzazione, quando essa anche vedesse la luce grazie al concorso di una platea composta da numerosi investitori? Chi avrebbe il controllo dei dirigenti ed il potere di sindacarne le scelte: il governo od i privati?

Sembra più naturale, al contrario, che una legislazione di tutela della concorrenza e l’adozione di un sistema di corporate governance efficace, anche nelle società non quotate, offrano l’opportunità di emergere e di consolidarsi alle energie vitali diffuse nel tessuto sociale. Sembrano più utili alla crescita la diffusione dei mercati mobiliari e l’allargamento progressivo della sfera economica dell’iniziativa privata che la presenza di azionisti privati nell’ambito di organizzazioni saldamente controllate da canali riconducibili troppo direttamente al governo.


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