da Ideazione - gennaio 1998
IL TRENTENNIO
DEL DECOLLO MANCATO

di Celso Destefanis

Come era bello il Mezzogiorno nel 1962! C’era nell’aria il profumo del successo: i notiziari della Svimez pubblicavano, ogni quindici giorni, i bollettini sugli insediamenti industriali, sulla costituzione di società per azioni, sulle visite di delegazioni straniere, cui si era orgogliosi di mostrare le realizzazioni della riforma agraria, gli invasi e gli acquedotti della Cassa, le colture intensive della Pianura Pontina e del Metaponto. L’Italia era tutta come il Nord-Est di oggi ed era già tutta in Europa, compreso il Mezzogiorno, per il quale le convenienze di localizzazione erano talmente evidenti da attirare, in effetti, un flusso crescente di investimenti, anche stranieri. Secondo gli ortodossi, la differenza fra il Mezzogiorno e le aree depresse (o sottosviluppate: ancora non si era adottato l’orribile eufemismo in via di sviluppo), ben note alla teoria economica, consisteva nelle dimensioni e nei vincoli fisici posti dalla mancanza di connessioni con il grande sistema europeo in crescita: ma l’accortezza dei governanti italiani aveva riservato, con il protocollo aggiuntivo ai Trattati di Roma, un trattamento eccezionale per il Sud, che consentiva di fare praticamente tutto. Le risorse c’erano, non illimitate, ma autosufficienti, se bene impiegate, per consolidare un decollo (take off, termine rostowiano di moda) che, è bene ripeterlo, si poteva considerare già avviato. In termini economici si doveva massimizzare una serie di variabili-obiettivo, subordinatamente ad una serie di vincoli (risorse, distanze, prezzi internazionali), ovvero minimizzare l’impiego di una serie di risorse in vista del conseguimento di determinati obiettivi (in termini di programmazione lineare: soluzione ottima come n-pla ordinata di valori non negativi soddisfacenti il sistema vincolare e massimizzanti la funzione assegnata).

Io uscivo, allora, da una turbinosa esperienza politica, che mi aveva visto protagonista non secondario della battaglia per il centro-sinistra, come delegato nazionale del Movimento giovanile della Dc; lasciata questa carica nel giugno 1960, mentre si stava costituendo lo Iasm (Istituto per l’assistenza allo sviluppo del Mezzogiorno), che avrebbe dovuto promuovere l’imprenditorialità nel cosiddetto comprensorio della Cassa, mi sembrò che si trattasse di un organismo nascente dove potermi impegnare. Andai da Amintore Fanfani (allora presidente del Consiglio), che telefonò a Giulio Pastore; fui convocato da Enzo Scotti (allora vice-segretario del Comitato dei ministri per il Mezzogiorno) e così, tra la fine del 1961 e l’inizio del 1962, fui assunto come impiegato di concetto (a 90.000 lire al mese), primo dipendente di uno Iasm che occupava tutto il piano rialzato della palazzina di via Boncompagni, dove c’era solo il presidente, Alessandro Molinari, e la sua segretaria. Questo vecchio signore, che poi scoprii essere uno dei più grandi statistici italiani, e che teneva un ritratto di Rodolfo Morandi nel suo ufficio, mi affidò un insieme di fascicoli sconnessi, che erano i progetti preliminari dei Piani regolatori delle aree di sviluppo industriale nel Mezzogiorno.

Cominciò così il mio apprendistato della difficile arte della implementation, termine intraducibile in italiano - mi disse, poi, Beniamino Andreatta - anche se derivato dal latino. Ho visto dalla rassegna critica di Sandro Brusco (Giornale degli Economisti e Annali di Economia, giugno 1997), che il termine implementazione è ormai usato in senso molto circoscritto alla teoria dei giochi. Allora mi limitai a ricuperare, appena pubblicato, il brillante studio di Jeffray L. Pressman e di Aaron B. Wildavsky How great expectations in Washington are dashed in Oakland (University of California Press, 1971). In sostanza, implementation significava qualcosa di più della semplice esecuzione (peraltro sempre disprezzata in Italia), cioè un’attuazione creativa con una certa partecipazione al processo decisionale e, quindi, con un feed-back tra tecnici e politici.

Il “progetto Pastore”

Su questo sfondo, si può delineare il profilo di quello che fu l’intervento nel Mezzogiorno, dal punto punto di vista sia delle strategie, che dei fattori esogeni ed endogeni. Propriamente, non si può parlare di un “progetto” Pastore, ma uso questo termine per indicare un insieme di esperienze, di proposte innovative, di prospettive a largo raggio, la cui implementation venne assicurata dalla continuità e durata nella sua responsabilità ministeriale per il Mezzogiorno. Giulio Pastore prodigò le sue energie per il Mezzogiorno, portando nel suo incarico ministeriale una grande carica umana, un’impareggiabile esperienza sindacale (fondatore della Cisl), alcuni echi di un vecchio Piemonte ormai scomparso, nonché un cattolicesimo piuttosto tradizionale. Il discorso di Pastore al Senato del 10 maggio 1961, per la presentazione della II relazione sull’attività di coordinamento, e quindi sulla politica meridionalistica, mi sembra particolarmente significativo.

Poche frasi bastano per evidenziare lo spirito con cui Pastore affrontava il tema: «C’è qualcosa di nuovo, al di là di quanto ci dicono gli indici dei tassi di sviluppo. Questo qualcosa di nuovo è rappresentato da situazioni ricche di prospettive, situazioni decisamente diverse e migliori rispetto alla realtà meridionale di dieci anni fa. Ogni pessimismo è dunque fuori luogo […]. Niente e nessuno potrà mai dimostrare la legittimità dell’ingiusto rapporto che oggi corre tra Italia del Nord e Italia del Sud. Il fortunato rigoglio dell’attuale sviluppo dell’economia del Nord non discende da investitura divina, né è sufficiente dire che al Nord vi è iniziativa, attivismo […]. [A proposito dell’emigrazione] cosa ha rappresentato per il Mezzogiorno quel continuato trasferimento di energie umane, se non la premessa per un ulteriore impoverimento di capacità di sviluppo, senza costituire, d’altra parte, di per sé, alcun incentivo al progresso locale? A cosa sono servite le rimesse degli emigrati, dal momento che pervenivano in un ambiente incapace di assorbire ed utilizzare le disponibilità finanziarie […]? D’altra parte, cosa si poteva pretendere da una terra che l’emigrazione privava delle sue pur tenui energie attive? […] Un aspetto particolare è rappresentato dal comportamento degli operatori economici residenti nel Sud. Desidero non generalizzare, ma è comunque certo che nel Mezzogiorno emerge oggi una preoccupante carenza di mentalità imprenditoriale, quella mentalità che sa accettare il rischio come l’inevitabile anticamera del successo della impresa […]. Desidero, tuttavia, in questa sede, dare atto a tutti i coraggiosi imprenditori del Nord e del Sud, che affiancano oggi lo sforzo comune, con una presenza attiva e vitale nel nostro Mezzogiorno».

La siderurgia

Il 12 marzo 1949, in una lezione tenuta al XIV Corso per dirigenti di azienda del Politecnico di Milano, Oscar Sinigaglia affermava: «In primo luogo, non dobbiamo dimenticare che siamo tributari all’estero per gran parte delle nostre materie prime: carbone, minerali e rottami […]. Ma c’è di peggio: se noi volessimo diventare un grande Paese produttore siderurgico, dovremmo dedicarci seriamente all’esportazione; diventeremmo allora concorrenti seri dei Paesi stranieri, molto più potenti di noi, e che sono in gran parte gli stessi che ci devono dare le materie prime […]. Sappiamo bene che dopo i periodi grassi vengono i periodi magri. Tutte le contingenze industriali di affari, di prezzi, eccetera, seguono una sinusoide con le sue curve in alto e le sue curve in basso. Il giorno in cui intervenga una crisi, non dobbiamo metterci nella situazione in cui ci siamo trovati in passato, in cui siamo stati più volte ridotti con le nostre industrie agli estremi, all’orlo del fallimento».

Il padre di Sinigaglia era un grande commerciante di ferramenta, che si suicidò perché non poteva far fronte ai creditori; il figlio, giovanissimo, nel giro di pochi anni, coprì integralmente tutti gli impegni del padre (debito d’onore, non obbligo giuridico). Sinigaglia è stato un grande italiano - finanziatore dell’impresa di D’Annunzio a Fiume, fondatore del Fascio di Roma, collaboratore di Mussolini nel salvataggio del Banco di Roma, messo da parte perché ebreo, e infine protagonista della ricostruzione - e un geniale imprenditore a servizio dell’interesse nazionale (aveva imbroccato la soluzione vincente per la siderurgia italiana fin dal 1911, ma non lo lasciarono fare), nonché un paziente formatore di uomini (lo può testimoniare Gian Lupo Osti, che fu con lui nei primi anni del secondo dopoguerra). D’altra parte, il ragionamento di Sinigaglia era semplice: posto un fabbisogno di acciaio di 4/5 milioni di tonnellate, era prudente non espandere la capacità produttiva oltre i 3,5 milioni di tonnellate; se c’era il boom si importava, se c’era la crisi non si doveva chiudere nulla. Sinigaglia stesso avrebbe corretto il margine superiore in aumento, ma il concetto di non creare mai capacità produttiva in eccesso, era ferreo. E non si trattava solo di una regola empirica: è ben nota la sensibilità della siderurgia al ciclo economico, soprattutto per quanto riguarda le scorte.

Ma quanto è costata, all’economia italiana, al Mezzogiorno e, più terra terra, al contribuente italiano, la soddisfazione di poter coprire, con la Finsider, a partire dal 1980, il 100 per cento della produzione di acciaio e di laminati a caldo? È commovente vedere i disadorni fascicoletti con i bilanci Finsider, ancora firmati Sinigaglia, e poi da Manuelli, in cui si parlava di autofinanziamenti e si registravano utili, con conseguente distribuzione di dividendi. Stringe il cuore pensare che la gloriosa Finsider di Sinigaglia sia stata messa in liquidazione e tutte le attività passate all’Ilva, dal 1 gennaio 1989. Le perdite cominciarono a manifestarsi nel 1971 - prescindendo da prevedibili acrobazie contabili negli anni precedenti - ed i bilanci Finsider presentarono l’andamento che è riportato nella tabella (vedi pagina seguente).

Le perdite sono notevoli, ma io vorrei attirare l’attenzione anche sull’andamento, a dir poco singolare, dell’indebitamento. Saraceno ci aveva insegnato che gli investimenti si facevano quando erano opportuni e convenienti, indebitandosi a breve, salvo poi a consolidarli, con prestiti obbligazionari od emissioni azionarie, quando il mercato finanziario era favorevole, ma, nel caso della Finsider si è un po’ ecceduto. Quanto più si accresceva l’informazione disponibile per coloro che dovevano decidere, sia a livello politico che a livello aziendale, tanto più si moltiplicavano gli errori. Sul settimanale della Dc, La Discussione, pubblicai, il 23 settembre 1967, una nota di tre colonnine, molto cauta - l’avevo rivista con Malfatti, allora sottosegretario alle Partecipazioni statali - cui, però, i redattori dettero il titolo shock: Perplessità sul raddoppio di Taranto. Affermavo, in particolare: «La siderurgia italiana - dopo aver superato, per merito dell’intuizione di Oscar Sinigaglia e mediante gli impianti sul mare, la sfida della competitività internazionale - è entrata nel circolo comune alle siderurgie di altri Paesi: un eccesso di capacità produttiva impone […] un miglioramento continuo degli impianti, il che, date le tendenze prevalenti dell’innovazione tecnologica nel settore, esige anche ulteriori ampliamenti di dimensioni e quindi un accrescimento della capacità, la quale rischia di sopravanzare sempre la domanda effettiva, con ripercussioni ovvie sui bilanci aziendali e sul livello dei prezzi […]. La questione del raddoppio dell’impianto di Taranto presenta alcuni problemi:

- dal punto di vista meridionalistico sorge il dubbio che i 130 miliardi circa di contributi a fondo perduto e di finanziamenti agevolati richiesti per il raddoppio di Taranto, possano pregiudicare altri impieghi più redditizi dal punto di vista occupazionale;

- dal punto di vista dell’autonomia economica di un paese, la siderurgia non rappresenta una necessità prioritaria; nell’attuale situazione del mercato internazionale, e con gli attuali livelli dei prezzi, può essere più conveniente rifornirsi all’estero che produrre in proprio […];

- […] non si può negare il progressivo affinamento delle tecniche, che tende a diminuire la quantità di acciaio impiegato in vari settori (dalle autovetture alle costruzioni), non compensata dall’incremento complessivo della domanda: Shonfield parla di elasticità inferiore all’unità del consumo di acciaio rispetto all’incremento della produzione industriale; a ciò va aggiunto il problema degli acciai speciali;

- i capitali scarsi disponibili potrebbero essere sollecitati, oggi, da numerosi altri settori con buone possibilità di espansione, avanzata qualificazione tecnologica, effettivo rischio, per l’Italia, di rimanere sopravanzata da altri Paesi».

Questo articolo provocò non lieve agitazione negli ambienti Finsider, perché poteva - trattandosi di un collaboratore del ministro Pastore, per di più pubblicato su di un organo ufficiale della Dc - essere un segnale negativo per i finanziamenti già chiesti in deroga ai criteri previsti dal Piano di coordinamento della legge n. 717.

Pastore assicurò che Destefanis era un giovane che non aveva alcuna influenza decisionale e che il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno avrebbe fatto il suo dovere nei confronti della benemerita industria di Stato. Alberto Capanna, direttore generale della Finsider, mi fece l’onore di una risposta di ben sei colonne, dal titolo Il raddoppio di Taranto è una necessità obiettiva (su La Discussione, 21 ottobre 1967); correggeva, giustamente, alcuni miei errori di interpretazione sugli ammortamenti, e articolava sapientemente il suo ragionamento, concludendo: «Limitare gli investimenti [siderurgici] potrebbe essere un fatale errore e rispecchierebbe una ingiustificata sfiducia nell’industria italiana, che, specie in questo settore, è stata all’avanguardia delle soluzioni e ha mostrato la via a quelle di altri Paesi; mettere in dubbio la necessità del completamento di un impianto valido come quello di Taranto è ancora più grave». Voglio solo notare che già allora si sapeva che la capacità produttiva siderurgica degli Usa rimaneva stabile (nonostante il Vietnam): su una produzione mondiale passata da 130,3 milioni di tonnellate, nel 1950, a 264,5 milioni, nel 1960, l’incidenza degli Usa era scesa dal 48 per cento del 1950 al 27 del 1960 (per calare ulteriormente al 21 per cento nel 1970, su una produzione complessiva di 407,5 milioni di tonnellate).

L’organizzazione del territorio

Ho già accennato al fatto che Molinari mi affidò una serie di fascicoli riguardanti i piani regolatori delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale: capii più tardi che cercava di ottenere dei parametri di incidenza (in termini fisici e monetari) delle infrastrutture puntuali ed a rete, negli agglomerati industriali, in rapporto ai risultati ottenibili (in termini monetari e di occupazione). Successivamente divenni uno dei segretari della Commissione interministeriale, cui era demandata l’istruttoria degli elaborati presentati dai vari consorzi, di fatto approntati da società di consulenza o di progettazione. Acquisii, quindi, una conoscenza diretta - grazie ai ripetuti sopralluoghi effettuati dalla Commissione - di molti punti sensibili del Mezzogiorno: Taranto, Brindisi, Valle del Pescara, Siracusa-Catania, Valle del Basento, Napoli, Salerno, Cagliari, Avezzano, Reggio Calabria, Piana di Sibari, Sassari-Porto Torres, Sulcis-Iglesiente, Caserta (la Pianura Pontina la conoscevo per ragioni familiari). Imparai a rispettare i vincoli dell’approvvigionamento idrico, degli allacciamenti elettrici, dei raccordi ferroviari, dei collettori fognari: tutte risorse che dovevano essere concretamente e tempestivamente disponibili per attrarre insediamenti industriali, e non semplicemente indicate sulle planimetrie.

Ci si trovava, d’altro canto, in una sorta di “dilemma del prigioniero”: l’attrattiva di ciascun agglomerato dipendeva dalla realizzazione di un mix completo di attrezzature, ma non era possibile immobilizzare una mole così ingente di risorse. Era proprio il problema di Molinari e, da un altro punto di vista, quello degli uffici tecnici della Cassa. In termini puramente razionali, sarebbe stato logico concentrare tutti gli sforzi sulle aree più promettenti: Napoli, Bari-Taranto, Sicilia orientale.

Non era impossibile, tuttavia, individuare dei percorsi ottimizzanti: da questo punto di vista, il piano di coordinamento del 1967 rappresenta il punto più alto della pianificazione italiana, per il raccordo, mai più tentato successivamente, fra l’intervento ordinario e quello straordinario. Mario D’Erme compì uno sforzo meritorio, predisponendo dei quadri di riferimento, che mettevano in rilievo le connessioni fra le aree industriali, i comprensori agricoli e quelli turistici, nonché lo stato di avanzamento nella realizzazione delle infrastrutture (reti acquedottistiche, viabilità, ferrovie, porti). Ma la cultura urbanistica ufficiale, dominata dai Piccinato e dai Samonà, si chiuse in un altezzoso provincialismo, inseguendo folli sogni di esproprio generalizzato.

Il nascente ambientalismo non mosse un dito per impedire la devastazione della Piana di Gioia Tauro, prescelta per l’atterraggio del quinto Centro siderurgico - ancora - in seguito all’accordo Mancini-Misasi e alla rivolta di Reggio Calabria. La cementificazione delle coste ed il diffuso abusivismo potevano essere agevolmente evitati, applicando le norme vigenti (la legge “fascista” del 1942) e consolidando l’autonomia progettuale della pubblica amministrazione, che allora esisteva ancora.

Le amministrazioni locali

Il principale difetto del cosiddetto “progetto Pastore” era costituito dalla debolezza intrinseca dei comuni e delle province del Mezzogiorno. Grazie a Remo Gaspari e al prefetto Pianosa, tentai di inserire, nelle relazioni sull’attività di coordinamento, una fotografia puntuale ed aggiornata della finanza locale nel Mezzogiorno, premessa per ulteriori interventi più incisivi.

Pubblicai un’ampia sintesi di queste rivelazioni, con gli opportuni aggiornamenti (Civitas, marzo-aprile 1972): basti dire che, al primo gennaio 1966, i comuni meridionali coprivano il 56,1 % dell’indebitamento complessivo per spese correnti e soltanto il 14,8 % dell’indebitamento per spese di investimento; inoltre, sempre nel 1966, l’incidenza delle sole spese per il personale era, nei comuni di:

- Reggio Calabria, del 142,6 % di tutte le entrate correnti;

- Trapani, del 155,0 % di tutte le entrate correnti;

- Messina, del 208,5 % di tutte le spese correnti.

I comuni del Mezzogiorno non erano manifestamente in grado, soprattutto in presenza di impetuosi processi di crescita delle attività produttive, di adempiere alle loro precipue funzioni: come regolatori della vita comunitaria, compratori di beni e servizi, produttori di beni e servizi.

Parlai, in epoca non sospetta, di federalismo creativo, tenendo presenti le tesi di Haller e le ipotesi di Musgrave (Approaches to a fiscal theory of political federalism, Princeton, 1961), nonché suggestioni meno recenti di De Viti De Marco e di Casciani. Debbo oggi riconoscere che il Mezzogiorno avrebbe avuto bisogno, soprattutto, di un forte potere centrale.

Il varo delle Regioni a statuto ordinario ebbe ulteriori effetti devastanti, non per difetti intrinseci del disegno costituzionale, né per mancanza di norme (in particolare, l’art. 17 della legge sulla finanza regionale del 16 maggio 1970 n. 281), ma per il modo di applicazione, che amplificò tutti i difetti tradizionali della vita locale, condannando le Regioni del Sud all’instabilità e all’imitazione clientelare del centralismo statale. Del resto, le esperienze di autonomia speciale in Sicilia e Sardegna non erano state entusiasmanti.

Il grande balzo all’indietro

Credo di aver fornito elementi per un giudizio fondato su basi di verità, ma sono ancora convinto che il Mezzogiorno aveva, allora, la possibilità di decollare. Tutti gli indicatori di convergenza con l’Europa erano a vantaggio dell’Italia: stabilità monetaria, bassa incidenza dell’indebitamento sul pil, tassi di interesse elevati ma ragionevolmente contenibili grazie agli incentivi. L’alleanza fra capitalismo e democrazia, proposta da Ugo La Malfa, e che si è rivelata vincente in quasi tutti i Paesi del mondo, era però già stata colpita a morte dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica (il “sasso nell’ingranaggio” di Riccardo Lombardi), cui dette mano, purtroppo lo stesso La Malfa, che ne conosceva l’inutilità. Certo è che, ampliando la battuta di Churchill, il capitalismo e la democrazia sono i peggiori sistemi possibili, solo che non se ne conoscono di migliori.

Personalmente, venni convertito all’economia di mercato da Claudio Napoleoni, un affascinante comunista cattolico, che illustrò, nel corso della Svimez sullo sviluppo del 1963, il modello di equilibrio generale di Wabras con logica così stringente da persuadermi, una volta per tutte, che i prezzi non sono affatto arbitrari, ma indicatori di scarsità e di efficienza. Lo studio puramente accademico, peraltro, non mi interessava; ero impaziente di applicare quello che imparavo. Produssi quindi, nel 1965, un testo dal titolo Appunti mediocri e superficiali sulla questione meridionale, che circolò negli ambienti del Comitato del ministri per il Mezzogiorno e al quale, ancora oggi, non cambierei una virgola. In effetti, il Mezzogiorno fu vittima di quel dérapage, di quella sbandata, di quel grande balzo all’indietro, che travolse tutta l’Italia. Si volsero infatti le spalle all’Europa e venne innescato un “moltiplicatore rovesciato”, punitivo per il Mezzogiorno e, alla lunga, generatore di disagio per tutto il Paese e per tutte le classi sociali.

Ho vissuto anche questa fase, con la rabbia nel cuore, ma sempre tentando, nei limiti delle mie possibilità, di evitare il peggio. Incontrai Ugo La Malfa quando era vice-presidente del Consiglio con Aldo Moro e mi disse: «Il cancro è cementizio: nessuna struttura funziona». Risposi: «Onorevole, c’è sempre qualcosa da fare». Non a caso, stavo andando da Andreatta per aiutarlo a varare un provvedimento congiunturale sull’edilizia. L’ultima volta che vidi La Malfa fu, qualche mese prima che morisse, in un aereo diretto a Bologna. Mi fece sedere accanto a lui e si sfogò amaramente: «Cosa lasceremo alle giovani generazioni? Un panorama di rovine […]».

Con un’altra battuta di Churchill, si potrebbe dire che «Mai un così ridotto numero di persone ha fatto tanto male ad un Paese». E in questo senso i ricordi si affollano e l’indignazione ribolle. Vorrei solo accennare ad un episodio che ancora mi riempie di vergogna. Mi trovavo una sera a cena dal primo consigliere dell’ambasciata britannica, e Mosca, il sindacalista della Cgil, illustrò con molta verve gli sforzi che aveva dovuto fare per mobilitare i lavoratori del Mezzogiorno contro le cosiddette “gabbie salariali”: «Non potevo fare - disse - i cortei solo con i garzoni panettieri; ci volevano gli operai di Taranto, ma questi già ricevevano un salario superiore a quello dei loro colleghi del Nord; dovetti reinventarmi delle rivendicazioni aggiuntive, aziendali, per persuaderli». Mi sentii sprofondare per quelle parole pronunciate davanti ad uno straniero! Il cinismo e la durezza di cuore furono le caratteristiche fondamentali di un personale dirigente selezionato secondo la legge di Gresham. Si parlava, allora, di disincentivi al Nord.

Preparai, per Pastore, alcuni prospetti, desunti dalla Relazione generale sulla situazione economica del Paese: sarebbe bastato fermare il flusso di provvedimenti estemporanei a beneficio di singole categorie, settori, territori, per ristabilire l’equilibrio normale delle convenienze. Pastore era anche titolare della responsabilità ministeriale per le cosiddette aree depresse del Centro-Nord, in base alla legge del 29 luglio 1961 n. 635; più di un migliaio di comuni vennero riconosciuti depressi, e godevano di agevolazioni, a dire il vero, molto ridotte. Pastore ebbe la curiosità di conoscere cosa stava succedendo e mandò me ed Achille Parisi a fare un giro (utilissimo, per me, per conoscere, giusto in tempo, quelle che erano isole di povertà, ad esempio Bergamo). Arrivai in un comune della provincia di Siena, dichiarato depresso, dove non si scorgeva traccia di alcuna attività; ma a cinquanta metri di distanza, oltre un ponte, in un altro comune, fervevano le iniziative e tutti andavano a lavorare lì. Chiesi perché e mi risposero che in quel comune non si pagavano i contributi Inps, con il tacito accordo dei sindacati (cioè della Cgil). Di fronte all’evasione totale, la nostra modesta esenzione da ogni imposta sul reddito a favore delle piccole industrie con meno di cento dipendenti era veramente risibile. Di converso, i sindacati favorirono sistematicamente la diffusione delle pensioni di invalidità nel Mezzogiorno, considerate un ammortizzatore sociale e, in realtà, idonee soltanto a sovvenzionare la domanda di beni di consumo prodotti al Nord.

Riformare le riforme

Non disconosco il merito di Bettino Craxi di aver tentato, in una situazione ormai deteriorata, un serio avvicinamento all’Europa. Non dubito, comunque, che, in tempi brevi, il Mezzogiorno si troverà di fronte ad un’altra occasione favorevole.

Paradossalmente, la secessione propugnata da Bossi sarebbe estremamente favorevole proprio al Mezzogiorno, salvo che - senza la trasfusione del patrimonio genetico meridionale - la Padania sarebbe destinata a divenire, nel giro di trent’anni, una Repubblica islamica. Le stesse riforme istituzionali, timidamente avviate, e respinte pervicacemente per tanti anni, non avrebbero senso se non servissero a cambiare le pseudo-riforme che sconvolsero la crescita armoniosa del Paese: «risposte sbagliate a falsi problemi» le definimmo allora, mentre noi, invece, volevamo «ricostruire il ponte senza interrompere il traffico».

Ma questo è ciò che si deve fare oggi, ed è possibile farlo. Nessuno potrà, invece, riprodurre il fervore intellettuale di quegli anni: eravamo in presa diretta (anche se non c’eravamo mai stati) con l’irrigazione di Israele, con le new towns inglesi, con l’aménagement du territoire in Francia, con il Giappone dell’epoca Meji. Tutto ciò non era merito nostro, ma c’era stato consentito da uomini come De Gasperi, Sinigaglia, Saraceno, Scelba, Menichella e, perché no, anche Pastore.


Torna alle
pubblicazioni


Torna alla
home-page
dell'Osservatorio


Torna alla
home-page
del Centro