da Ideazione - gennaio 1998
LA MERIDIONALIZZAZIONE
ANTIMERIDIONALE

di Pietro Craveri

 La storia del Mezzogiorno nell’Unità italiana è contraddistinta, indubbiamente, dal riproporsi, con caratteri quasi ossessivi, di alcuni problemi di fondo, che rimangono sempre più o meno identici, con l’evolversi dei contesti e degli scenari della più generale storia nazionale, in parte determinandone le scelte e condizionandone gli esiti. Nell’arco di più di un secolo dal punto di vista dei livelli di reddito, del costume, dell’educazione e della stessa struttura produttiva, si compie nella società meridionale una grande trasformazione, ancor più evidente se per un momento non si guarda ad essa dall’ottica della comparazione dualistica con il Centro-Nord; ma resta nel contempo immanente e determinante un elemento di staticità e stagnazione, un rapporto di dipendenza e subalternità del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, una sua permanente estraneità ai fattori trainanti dello sviluppo nazionale, la cui natura, prima d’essere economica, è certamente d’ordine sociale e politico.

Questa così palese contraddizione può anche esprimersi dicendo che la notevole evoluzione della società meridionale è sicuramente il risultato del suo incorporamento nella vita dello Stato unitario, così come anche la sua irrisolta e pervicace forma di stagnazione va fatta risalire ad esso. Più propriamente, l’evoluzione dello Stato unitario, liberale, fascista e repubblicano, nel mutare della sua struttura istituzionale e del connesso sistema politico, presenta delle strozzature e delle incompletezze, quanto alla realizzazione dei suoi modelli di riferimento, che via via non consentirono mai di avviare in modo decisivo il superamento delle cause più profonde dell’arretratezza meridionale. Di queste strozzature e incompletezze la “questione meridionale” costituisce un elemento compositivo importante, ma non il solo, e mai quello decisivo. Gli elementi di staticità e stagnazione propri della società meridionale le conferiscono semmai una peculiare forma di interna incompiutezza e fragilità, da cui deriva quella tendenza, oggi particolarmente evidente, ad un’inversione ciclica nello sviluppo della sua vita civile e sociale, invece di quella normale evoluzione che le altre regioni d’Italia storicamente conoscono.

I principali problemi della realtà meridionale sono già quasi tutti presenti all’atto del compimento stesso dell’Unità e tuttora fa impressione, leggendo i documenti dell’epoca, constatare come lucida ne fosse la consapevolezza. Ne troviamo traccia perfino in una gustosa scenetta di corte d’oltralpe, descritta da Costantino Nigra in una lettera a Cavour da Fontainebleau, del giugno 1860. «L’Impèratrice - scrive Nigra - eut une idèe sublime; elle fit metre des lunnettes à l’un des ènvites et lui dit: vous serez Mr. de Cavour qui est le Gargantua des temps modernes. On vint me demander la permission que je m’empressai à accorder et on dressa la table devant V.E. On comança a porter du stracchino, puis du parmesan, puis de la mortadelle de Bologne. V.E. aceptait toujours, trovait tout excellent et avalait tout de la meilleurs grace du monde. On porta ensuite de l’aleatico, que V.E. trouva dèlicieux; et ensuite des oranges de Sicile qu’elle a ancore acceptès et mangès au millieu des applaudicements et des acclamations de l’Assemblèe. Enfin on lui a offert des maccaroni. Mais vous avez rèpondu: “C’est assez pour aujourd’hui. Gardez-moi cela pour domain”». È evidente come anche qui il costrutto ironico della scena non si riferisca tanto alla sequenza temporale degli avvenimenti, quanto a una diffusa immagine della realtà meridionale, che ne faceva il boccone più difficile da ingerire.

Il problema del Mezzogiorno, che all’atto dell’Unità, prima d’ogni altro, sembra preoccupare la classe politica risorgimentale è in realtà quello della carenza del suo ceto dirigente. Se si toglie la schiera degli esuli, con le sue numerose spiccate personalità, ma pur sempre esigua, soprattutto con pochissimo seguito a Napoli e nelle provincie, il quadro è deludente, anzi sconcertante, per la passiva accettazione del processo unitario, per la mancanza di partecipazione ai problemi politici del momento. Ancora Nigra, dal suo nuovo ufficio di segretario generale della Luogotenenza, scriveva da Napoli nel febbraio 1861 a Cavour: «Oggi Le spedisco i deputati e i senatori. V.E. vedrà che roba. Ma è malleabile. Sappia tirarne il meglio che potrà a vantaggio dell’Italia. Di ministeriabili non ne veggo uno. Osservi l’E.V. e sarà forse più fortunata di me. Se si tratta d’un semplice Ministro di Lavori Pubblici, d’Agricoltura, o d’Istruzione, la cosa è più facile».

Queste constatazioni, più d’ogni altra cosa, rendevano incerte le speranze per il prossimo futuro. Su quale classe sociale e politica si poteva nel Mezzogiorno fondare le fortune del nuovo Stato unitario? Il pessimismo inclinava verso due atteggiamenti diversi che troviamo ambedue irrisolti nei propositi dello stesso Cavour, tra il «reggere con leggi inflessibili e governare con la libertà», comunque nella convinzione che bisognava «essere inesorabili», giacché il nuovo regime era «sotto ogni aspetto preferibile» ed era dunque «lo scopo chiaro, non suscettibile di discussione. Imporre l’Unità alla parte più corrotta d’Italia. Sui mezzi non vi era pure gran dubbiezza: la forza morale, e se questa non bastava, la fisica».

La “questione meridionale” venne del resto ad incidere subito su di un aspetto determinante della “forma” dello Stato liberale. Come è stato sottolineato «fu precisamente l’annessione del Mezzogiorno il fattore determinante del crollo definitivo di qualsiasi illusione di decentramento in Italia». La questione è troppo nota per soffermarvisi, salvo mettere in luce un punto di solito trascurato, potremmo dire l’origine di un’ambivalenza, che tornerà a manifestarsi a più riprese, in forme diverse, nella seguente storia unitaria. Se l’arretratezza civile del Mezzogiorno determinò l’improponibilità stessa del discorso delle autonomie, c’era soprattutto un’altra regione, per motivi opposte, a rendere perplesso il ceto politico moderato del Risorgimento sull’opportunità di quest’approdo: la Lombardia, la cui prosperità e vitalità, l’assetto legislativo su cui poggiava il suo evoluto sistema civile, rendevano comunque problematico un suo inquadramento nello Stato unitario. Ed è anche questa una considerazione che vediamo serpeggiare nei documenti e nelle corrispondenze d’epoca, espressa, ad esempio, con foga da un esule meridionale, fedele al programma cavouriano, Giuseppe Massari, al suo ritorno, nell’agosto 1860, a Napoli: «Oh! Quella Napoli come è funesta all’Italia! Paese corrotto, vile, sprovvisto di quella virtù ferma che contrassegna il Piemonte, di quel senno invitto che distingue l’Italia centrale e Toscana in ispecie. Credetemi; Napoli è peggio di Milano».

Quella scelta, nei dieci anni dopo l’Unità, volle dire d’altra parte, per il Mezzogiorno, la sospensione di fatto del regime costituzionale, l’uso dell’esercito per la lotta contro il brigantaggio, che vide impegnati fino a 120mila uomini, con la restrizione delle libertà personali, mediante la larga pratica del domicilio coatto, su semplice deliberazione delle autorità amministrative, e il frequente ricorso allo stato d’assedio. Il governo della Destra poté così portare a compimento con razionale e conseguente determinazione il progetto di unificazione, attraverso l’uso decisivo della “forza fisica”. Avrebbe potuto seguire a ciò un maggiore dispiego di “forza morale”? Va sempre tenuto presente che lo Stato liberale fu, di seguito, almeno nel Mezzogiorno, assai poco liberale, quanto alla sua effettività come “Stato di diritto”, nell’imparzialità della pubblica amministrazione e nell’applicazione giudiziaria delle leggi, causa non secondaria dell’intrinseca debolezza storica che avrebbe in seguito dimostrata. Servì piuttosto «da garanzia e difesa di un vasto insieme di situazioni parassitarie e di privilegio», e precisamente su questa base si ebbe l’adesione al nuovo Stato di buona parte della classe dirigente meridionale. Il che fece dichiarare, nel 1876, al Sonnino, uomo non sospetto di eccessivo democratismo, «che la Sicilia, lasciata a se stessa, avrebbe trovato il rimedio alle proprie condizioni di arretratezza, rovesciando l’oppressione sociale e civile attraverso una soluzione rivoluzionaria, mentre lo Stato italiano aveva finito per fare da sostegno alle forze peggiori del latifondismo e dello sfruttamento».

Fu, del resto, quello l’anno della caduta della Destra, che ebbe come protagoniste decisive le deputazioni meridionali. Ed è proprio in questo contrasto che emergono nettamente per la prima volta quelli che saranno i più duraturi profili politici della “questione meridionale”. Ne è caratteristica la radicalità del programma espresso per la Sinistra meridionale da Nicotera (spesa pubblica, infrastrutture, agevolazioni fiscali, incentivazione dell’agricoltura) che avrebbe rappresentato «prima della grande rielaborazione nittiana tra la fine del secolo e gli inizi del secolo successivo, i cardini di tutto il dibattito e di tutte le rivendicazioni meridionalistiche». Così come fu decisiva la mediazione che ne fece il Depretis, riducendo le pretese, frantumando gli interventi e le ragioni di solidarietà parlamentare. Qualcosa di più delle autorizzazioni per l’esercizio di “sale e tabacchi”, come capitò a questi di schermirsi, ma comunque una politica che spezzava la pretesa, peraltro priva delle necessarie valenze di forza politica, di un blocco democratico meridionale volto a rivendicare le ragioni di progresso sociale ed economico della sua partecipazione alla vita nazionale, che sarà un motivo ricorrente nella successiva polemica democratica meridionalistica. Vale la pena citare in proposito una pagina di Nitti: «La sinistra meridionale, di cui non sarà mai detto male abbastanza, non fu un partito, fu l’insieme di tutti gli appetiti, lo sfogo di tutti i malcontenti: fu la negazione di ciò che era stata la Destra. Si personificò spesso in uomini privi di ogni morale, che confondevano interesse pubblico e privato e il primo sottomettevano quasi sempre al secondo. Ebbe nella politica qualche volta azione utile: nella morale pubblica quasi sempre dannosa. Raccoglieva antichi borbonici, liberali nuovi, ma abituati alle abitudini vecchie e desiderosi di prepotere; amanti dei metodi dell’assolutismo peggiore quando erano al governo, predicatori della peggiore anarchia quando erano all’opposizione [...]».

Siamo già nel cuore del “trasformismo”, come “ideologia italiana”, e all’origine di quel circolo vizioso che univa grandi elettori, deputati, ministri e prefetti, determinando la vita civile del Mezzogiorno. Il centralismo, nella misura in cui lo Stato si attribuiva le competenze di maggiore importanza, costituiva comunque un elemento di modernità, ma non propriamente un modello di efficienza e imparzialità amministrativa, certamente con un condizionamento decisivo della vita locale. Dal sovrapporsi e coagularsi di due politiche nel Mezzogiorno, quella della Destra e quella della Sinistra, prendeva forma quell’amalgama sociale, propriamente meridionale, che avrebbe fatto da sostanziale appoggio all’equilibrio politico moderato del Paese, sia nella sua versione conservatrice, e magari reazionaria, sia in quella più riformatrice. La componente meridionale del cosiddetto “blocco storico”, fin dalle origini, non è composta solo dal suo ceto agrario, ma anche dalla piccola e media borghesia, intermediaria della rendita agraria e partecipe, attraverso l’occupazione da essa effettuata degli enti locali e i suoi legami con gli uffici dell’amministrazione centrale, della distribuzione della spesa pubblica.

Se ad una lettura attenta della relazione Saredo, che concludeva l’inchiesta del 1904 sulla crisi amministrativa e sulla corruzione politica del comune di Napoli, con i suoi così puntuali strumenti di valutazione d’ordine amministrativo, sociologico e politologico, si fa seguire una comparazione con le riflessioni attuali sul ruolo distorsivo svolto dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti locali della Campania negli anni ’80, si potrà riscontrare l’analogia delle categorie di giudizio, nonché dei fenomeni analizzati; quanto alle differenze, oltre all’attuale più pervasivo e determinante ruolo della criminalità organizzata, non assente del resto neppure agli inizi di secolo, emerge oggi la preponderante, quasi esclusiva incidenza della spesa pubblica come base di tali fenomeni distorsivi, allora presente su di una base più circoscritta accanto alle forme prevalenti di intermediazione della rendita agraria.

Più difficile valutare il ruolo del ceto intellettuale e delle professioni liberali, almeno per la parte che era più identificata col modello dello Stato liberale, partecipe della vita civile e culturale nazionale, depositario, per la sua formazione nella tradizione liberale del Risorgimento, di una «coscienza dello Stato», quello che a Giustino Fortunato, riflettendo sull’avvento del fascismo, si presentava come «una sottile crosta di modernità» creata da «sessant’anni di lavoro e di studi» ed ora «rotta in pezzi».

Anche Croce, negli stessi anni, a conclusione della sua Storia del Regno di Napoli, teneva a sottolineare che «ricercando la tradizione politica nell’Italia meridionale, aveva trovato che la sola di cui essa potesse trarre intero vanto era appunto quella che metteva capo agli uomini di dottrina e pensiero, i quali compierono quanto di bene si fece in questo Paese, all’anima di questo Paese, quanto gli conferì decoro e nobiltà, quanto gli preparò e gli schiuse un migliore avvenire, e l’unì all’Italia».

Salvo che quel “ceto intellettuale”, nella continuità della sua tradizione culturale e civile, entrava a pieno titolo nella vita nazionale, svolgendovi un ruolo di primo piano, nella cultura, nella pubblica amministrazione e nelle professioni liberali, di cui del resto Croce stesso poteva dirsi un esempio preclaro, come lo era stato il suo ascendente, Silvio Spaventa, che bocciato, a seguito della rivoluzione parlamentare della Sinistra meridionale, guidata dal Nicotera, nei suoi collegi d’Abruzzo, sarebbe stato rieletto per più legislature dalla città di Bergamo. Nella vita locale sembra invece che esso svolgesse una funzione diversa, in parte a cavallo tra professioni liberali e notabilato politico, in parte in un ruolo più defilato da dirette responsabilità civili e politiche. È il caso, ad esempio, della classe forense napoletana, fucina di personale politico locale e nazionale, ma anche contraddistinta da una peculiare inclinazione a porsi in posizione arbitrale tra la società e lo Stato, che faceva valere la propria autorevolezza sociale in un “officio di giustizia”, pregiudiziale al giudizio dei tribunali. Un’idea di legalità, come pura forma, che alcune di queste personalità trasferivano anche nella vita politica nazionale. È, ad esempio, il caso di Enrico De Nicola, con la sua fragile ed elegante vocazione, non priva di assonanze “scarpettiane” ed “eduardiane”, che svolgeva, appunto, sempre nella vita pubblica una funzione di arbiter.

Sporadico e frammentario è poi lo sbocco di questi contesti sociali nelle attività finanziarie e manifatturiere, che pure fin dal compimento dell’Unità rimangono «le componenti meno inerti e le leve principali di accumulazione della ricchezza». Anche dopo che, col primo quindicennio del ’900, alla prevalente iniziativa estera, la nota dominante, accanto all’intervento pubblico, è data da energie imprenditoriali autoctone, queste non segnano tuttavia, com’è noto, un inizio pervasivo di “imprenditorialità” e, inoltre, non assumono un rilievo centrale, non vengono a costituire un fattore di trasformazione nello sviluppo della vita sociale e politica locale.

Questo quadro della società meridionale agli inizi di questo secolo, qui sommariamente accennato, e che esce confermato anche dagli studi più recenti, ha determinato un singolare iato per la storiografia economica volta a ricostruire il processo di industrializzazione italiano, che si manifesta con riferimento al Mezzogiorno proprio nella difficoltà di coniugare storia economica e storia sociale e politica. Lo esprime, ad esempio, Giuseppe Galasso nel ricapitolare la posizione centrale che in questi studi ebbe ad assumere la ricostruzione di Rosario Romeo. «Il lavoro di Romeo - scrive Galasso - attende ancora una ripresa che, sviluppandone le possibilità critiche sul piano della storia politico-sociale, dia un senso nuovo e diverso al postulato della centralità rivendicata in sede storica e in sede politica al problema meridionale nella storia dell’Italia unita».

Gli studi, anche numerosi, di storia economica locale meridionale non hanno tuttavia propriamente colmato questa discrasia. Potremmo dire che essi non hanno intaccato la conseguenza che derivava dal modello interpretativo adottato da Romeo. Quanto in essi si guadagna in termini di concretezza storico-sociale, potremmo dire che si perde in termini appunto di modello interpretativo generale. Anche adottando una modellistica in parte diversa da quella di Romeo, quali che siano i rapporti che si vogliano sottolineare, circa le modalità di formazione dello stock finanziario (a partire dalla polemica intorno a questo problema, impostata da Nitti), delle conseguenze dovute alla creazione del mercato unificato, dello sviluppo delle infrastrutture amministrative e di trasporto, dell’allargamento della rete terziaria e commerciale ed infine dei progressi dell’attività manifatturiera nel processo storico di accumulazione capitalistica in Italia, l’esito sottolinea infatti sempre comunque il determinarsi del “dualismo” produttivo, di cui le fenomenologie sociali e politiche sono conseguenza, e per il Mezzogiorno il permanere, pur nella lenta e variegata progressione, d’una sostanziale staticità e stagnazione del contesto sociale.

In realtà, sul piano storico la discrasia sta anche nel fatto che non si può parlare di una centralità economica, se non come problema, sebbene di una centralità politica della “questione meridionale” nella storia dell’Italia unitaria. Del resto, fu proprio questo elementare assunto a rendere efficace la ricostruzione storica di Romeo, nel risvolto polemico da cui aveva tratto spunto, contro l’interpretazione gramsciana e quelle post-gramsciane, centrate su di un’analisi economica che voleva essere in primo luogo socio-politica.

E questa osservazione può introdurci a mettere in luce un’ulteriore difficoltà, che invece è stata propria della pubblicistica politica, quella in cui si compendia principalmente il grande dibattito sulla “questione meridionale”, da Salvemini a Nitti, a Sturzo, a Dorso, allo stesso Gramsci. L’età giolittiana offriva un quadro di interrelazioni tra le classi sociali nuovo e assai più complesso, nel compiersi della prima fase dello sviluppo industriale italiano, sebbene l’asse dell’equilibrio moderato del Paese conservasse tutte le sue originarie caratteristiche. L’inserimento nella dinamica politica dell’emergenza conflittuale delle nuove classi operaie del Nord richiedeva anzi per l’equilibrio moderato un rafforzamento delle vecchie prassi nel Mezzogiorno, se vogliamo un implicito inasprimento del suo regime di separatezza. È, infatti, appunto su ciò che si appunta la polemica salveminiana, facendo poi da battistrada alle altre.

La “questione meridionale” cessa di essere l’analisi attenta delle cause e dei rimedi possibili di una naturale e storica arretratezza, come era stata nell’ultimo scorcio del secolo XIX con il lavoro illuminato dei Sonnino, Franchetti, Villari - salvo Giustino Fortunato, nessuno meridionale di nascita -, preoccupati principalmente da un problema tipicamente conservatore, cioè che lo squilibrio Nord-Sud non assumesse dimensioni che potevano infine costituire un pericolo per l’equilibrio politico-istituzionale. Essa diviene allora un programma e un obiettivo politico volto a rompere le caratteristiche stagnanti della società meridionale e ad accelerare il suo sviluppo economico, di cui si fa protagonista una generazione nuova di intellettuali e politici propriamente meridionali. Se dovessi ricorrere ad un’immagine direi che si tratta di una galleria di statue senza piedistallo. Perché appunto la difficoltà e la debolezza, a cui facevo cenno più sopra, in quest’ultima letteratura meridionalistica stavano nel formulare progetti di trasformazione politica ed istituzionale per la rinascita del Mezzogiorno (si pensi al regionalismo di Salvemini e di Sturzo), senza riuscire ad individuare mai propriamente i referenti sociali che nella vita meridionale e nazionale ne fossero i plausibili protagonisti. Il programma nittiano poggia principalmente sull’intervento statale. Sturzo e Salvemini, con impostazioni diverse, immaginano possibile una democrazia rurale, come esito della lotta al latifondo e della liberazione dall’ipoteca centralistica, con i suoi effetti politici di corruttela e stagnazione. Dorso, analizzando i fenomeni a ridosso dell’avvento del fascismo, con una sorta di realismo utopistico, postula «una élite anche poco numerosa, ma che abbia le idee chiare», non diversa da quella «sottile crosta di modernità» che Fortunato aveva visto rompersi proprio con il fascismo, del cui avvento Dorso peraltro precisava con lucidità, sulle colonne de La Rivoluzione liberale di Gobetti, i seguenti riflessi sulla vita del Mezzogiorno: «Il fascismo settentrionale, l’unico e vero erede dell’unitarismo storico nella funzione di oppressione del Mezzogiorno, ne schiacciò ben presto le pretese autonomiste, quando riprodusse nuovamente il prepotere dei trasformisti della violenza».

Diverso, naturalmente, l’esito della riflessione di Gramsci, perché essa presupponeva tutto questo, ma era anche una strategia politica rivoluzionaria, concreta analisi storica connessa a un’idea politica. Lo scontro tra le due componenti antagoniste del “blocco storico”, così come Gramsci le aveva concepite, capitalistico-agraria, operaio-contadina, doveva poi in effetti verificarsi in quello snodo cruciale della vita italiana che fu il secondo dopoguerra, e determinare conseguenze profonde per il Mezzogiorno. Condizionato dalla guerra fredda, accompagnato dalla stabilizzazione economica e politica del ’47 e dal voto del ’48, che aveva congelato la conflittualità della classe operaia del Nord, il ceto contadino meridionale vide, come esito della sua più grande stagione di mobilitazione politica, attraverso il movimento di occupazione delle terre, la riforma agraria. Con essa si sradicava dal Mezzogiorno la tradizionale posizione dominante delle classi agrarie, che uscivano dalla scena politica del Paese. Non ne conseguiva tuttavia, com’è noto, il radicamento di una piccola proprietà contadina, con un ruolo trainante nella sviluppo economico, e anche il movimento contadino cessava di essere nel suo complesso il possibile referente primario di una rivoluzione civile meridionale.

Così gli anni ’50 segnano l’inizio di una grande trasformazione per il Mezzogiorno, col mutamento via via più radicale del suo regime fondiario, con l’ultimo e maggiore dei suoi grandi cicli migratori, più accentuato di quello stesso del primo quindicennio del secolo, rispetto al quale, se nella sua componente estera più esiguo è il saldo finale tra le uscite e i rientri, con la minore consistenza relativa della sua componente transoceanica rispetto a quella europea, del tutto diverso è l’esito della sua componente interna, dal Sud al Nord del Paese, per le dimensioni del fenomeno e per il suo carattere permanente. Sono gli anni in cui anche si configura, com’è noto, un intervento straordinario dello Stato per il Mezzogiorno senza precedenti nella storia unitaria. Ad emergere in questo contesto, facendo leva sul volano della spesa pubblica, è la centralità sociale e politica delle tradizionali classi medie meridionali intorno alla Democrazia Cristiana e ai partiti di governo.

Valgano, in proposito, tre considerazioni. La prima è d’ordine economico e riguarda l’intervento straordinario. La fine degli anni ’50, con la fase preparatoria del centro-sinistra, corrisponde ad un suo momento di ridefinizione, che avrebbe dovuto segnare il passaggio dai prevalenti programmi infrastrutturali a quelli di industrializzazione. Nacquero i consorzi, pensati come poli di sviluppo, la cui attuazione non si ispirò, come era stato teorizzato, a strategie pubbliche di intervento, ma seguì piuttosto la logica prevalente delle pressioni locali e clientelari. Si ebbe fin dalle origini una dilatazione del sistema lungo due direzioni, la moltiplicazione degli incentivi e delle gestioni separate dei medesimi e in secondo luogo lo spostamento verso l’alto dei limiti della media impresa finanziabile, via via che l’espansione dei grandi complessi industriali piegava alle proprie esigenze gli incerti disegni pubblici. Erano le premesse, come è stato più volte sottolineato, di uno sviluppo privo di una guida pubblica e propriamente privo di effettivi vincoli di mercato. Uno sviluppo non solo “senza autonomia”, ma potremmo dire anche con un eccessivo tasso di “anomia”. Quando la coalizione di centro-sinistra prese ad occupare stabilmente la scena politica, ogni capacità direttiva del sistema, pur continuando a discutersi intorno ad essa, attraverso il tema della programmazione, in realtà si poteva dire fosse già interamente esaurita nell’effettiva prassi di governo. Questo processo segna probabilmente la definitiva eclissi della politica meridionalistica così come era stata pensata nel lungo ed intenso dibattito sulla questione meridionale, che aveva preso le mosse agli inizi di secolo ed era stato ripensato con una certa continuità di obiettivi nel secondo dopoguerra.

Gli anni ’60 sono caratterizzati dallo stabile impianto di quello che possiamo definire un “condominio” a gestione politica dorotea, e che nella storia unitaria è l’ultima e più estesa applicazione, mai teorizzazione, di quella che abbiamo accennato essere una peculiare “ideologia italiana”, dal “trasformismo” al “consociativismo”, in cui la funzione propria della rappresentanza, da veicolo istituzionale della domanda sociale, trova una risposta disarticolata nell’azione dell’esecutivo, la quale a sua volta passa in buona parte attraverso una frantumazione gestionale dell’apparato pubblico, con un sempre più accentuato condizionamento di fattori corporativi e localistici, che a loro volta diventano i canali sempre più privilegiati del consenso politico. Un circolo vizioso nel quale, lungo tutta la storia unitaria, il Mezzogiorno, con il suo esiguo dinamismo sociale ed economico, si trova immerso pressoché tutto intero, a differenza di altre regioni dove il fenomeno assume più ridotta configurazione.

Ed è questa la seconda considerazione, di ordine politico, che va sottolineata anche per le evidenti conseguenze che ne derivano nell’erogazione distorsiva della spesa pubblica, oggetto di particolare analisi della più recente letteratura sul Mezzogiorno: essa ne introduce una terza di ordine istituzionale, che riguarda la latitudine delle modificazioni appunto istituzionali, che i fattori politici determinano col volgere degli anni ’60, una sorta di modifica latente della Costituzione materiale. Per fornirne un’idea, non potendo intraprenderne in questa sede un’analisi, mi riferirò alle risposte che sulla fine degli anni ’70 un giurista, come Sabino Cassese, dava alla domanda: esiste un governo in Italia? La sua analisi partiva dalla descrizione del grado di decentramento e frantumazione delle sedi decisionali ed operative, che non aveva precedenti in altre democrazie. Poneva poi l’accento sia sul fattore del decentramento, sia su quello della frantumazione - che sono concettualmente e fenomenologicamente assai diversi, ma che nella realtà italiana si mostravano fortemente commisti -, rilevando come in numerose democrazie occidentali si diano sistemi anche più decentrati di quello italiano, ma nessuno come il nostro così destrutturato e frammentato, cosicché l’iterazione dei due fenomeni ne era diventata una peculiare caratteristica. Ne concludeva, attraverso un’analisi accurata delle cause e delle conseguenze, che gli apparati centrali, che conservavano una capacità di implementazione e controllo delle politiche di indirizzo generale, potevano farsi risalire ad un nocciolo duro di istituzioni di governo, che faceva capo alla funzione di coordinamento politico della presidenza del Consiglio e al ruolo ancora preminente sulle amministrazioni, esercitato dal ministero del Tesoro e da quello dell’Interno, essendo la Banca d’Italia l’unica istituzione effettivamente garante della continuità delle linee primarie della politica economica.

Come si vede, questa analisi ci porta per certi versi perfino oltre le odierne più radicali suggestioni federalistiche. Potremmo, anzi, forse dire che il federalismo o un più accentuato e meglio disegnato sistema di autonomie regionali sono oggi ricette volte a razionalizzare il processo di disarticolazione che si è già andato verificando nell’ultimo trentennio della Repubblica e che conservava come principale perno unitario quasi più soltanto la compattezza del sistema politico, sotto la direzione del partito cattolico. E il principale intervento razionalizzatore dovrebbe essere volto a spezzare il circolo vizioso costituito da un governo e da una rappresentanza parlamentare nazionale, che svolgono il ruolo di collettori ed erogatori di una spesa pubblica centralizzata a predeterminazione e destinazione corporativa e localistica. Una soluzione istituzionale per un problema di chiara origine politica, e che conserverebbe comunque la sua valenza politica, anche se con più ridotte conseguenze, in un diverso quadro istituzionale.

Ma attraverso ipotesi siffatte, quando non preconizzino la sostanziale rottura della trama unitaria del Paese, non c’è dubbio che il Mezzogiorno può e deve trarne un vantaggio, finora non conseguito nella sua lunga esperienza storica nazionale, che non è solo quello della sua “autonomia”, ma di una diversa “coscienza di sé”, volta a valorizzare tutte quelle energie di modernizzazione che pure nel suo ambito possiede. È esattamente ciò che il meccanismo commisto, con cui si è proceduto in questi ultimi decenni, di frantumazione e decentramento dei poteri statali non ha affatto favorito, determinando anzi circuiti di estrema deresponsabilizzazione. Mai nella storia unitaria del Paese, come appunto da un trentennio a questa parte, i fattori degenerativi della vita nazionale hanno così largamente coinciso nella loro fenomenologia con alcune tare tradizionali della vita del Mezzogiorno, cosicché esso stesso non ha trovato nello Stato nazionale quegli argini naturali, che bene o male in altre epoche avevano esercitato un ruolo determinante Sotto questo aspetto si potrebbe anche parlare di un’ultima e perversa centralità della “questione meridionale”, ma sarebbe paradosso, poco storico, perché a questo male nazionale il Mezzogiorno sembra aver partecipato, né più, né meno, che per la sua parte. Può invece forse dirsi che l’Italia neo-guelfa, che ha dato la sua impronta a questi ultimi cinquant’anni di vita nazionale, con la sua straordinaria vitalità e i grandi progressi conseguiti, per una sua insufficiente, in parte premoderna, concezione dello Stato e dello stesso sviluppo economico, ha finito per determinare un eccesso di meridionalizzazione della vita pubblica nazionale.

La parabola dello Stato unitario si conclude dunque nell’ultimo venticinquennio in un suo progressivo indebolimento, sia dall’interno per i fenomeni di destrutturazione e frammentazione a cui si è accennato, sia dall’esterno per il trasferimento di sovranità ad organismi sovranazionali, di cui l’approdo europeo è l’aspetto primario. La conclusione inevitabile che questo processo ci propone oggi è propriamente la fine della “questione meridionale”, come questione nazionale, non per la soluzione dei problemi della società meridionale che le sono stati storicamente connessi, ma per il venir meno del presupposto che essi possano essere risolti a partire dallo Stato nazionale. Certo, lo Stato nazionale ha ancora un ruolo decisivo da svolgere, ma a partire da due precondizioni che non sono state realizzate e non sono state neppure ritenute determinanti, come invece lo sono ora: da un lato, l’intermediazione di un sistema efficiente di autonomie regionali e locali; dall’altro, la piena agibilità delle funzioni di mercato, di cui il Mezzogiorno resta carente, forse ancor più che nel passato, per i fenomeni che si sono descritti e principalmente per due effetti conseguenti di essi, tra loro strettamente intrecciati: la bassissima accountability dei soggetti istituzionali statali, locali, privati, e il ruolo pervasivo e diffusivo che nelle attività economiche della società meridionale svolge la criminalità organizzata.

L’analisi neoliberista più lucida dello sviluppo del Mezzogiorno nel secondo dopoguerra, quella di Trigilia, ci consegna l’immagine di un Mezzogiorno non più omogeneo nei suoi problemi di arretratezza, ma territorialmente segmentato in aree di diversa consistenza strutturale, sotto l’aspetto sia della stagnazione, sia delle potenzialità di sviluppo: l’area del declino industriale, quella della stagnazione metropolitana e periferica e, infine, quella della sviluppo diffuso, che riguarda la fascia adriatica e alcune zone interne, lungo una diagonale che lega alcune provincie del Lazio e della Campania. Queste ultime sono aree che hanno, per ragioni e stimoli diversi, trovato un rapporto di integrazione con i processi di sviluppo caratteristici del Centro-Nord. Le altre, le plurime aree del declino, sono il retaggio dell’esaurirsi dei modelli di intervento straordinario, da Nitti a Cirino Pomicino. Ma in nessuna di queste aree le sopra ricordate precondizioni di sviluppo sono in effetti interamente operanti. Il Mezzogiorno conserva per intero il suo segno di arretratezza socio-politica. Solo che la strada per uscirne si presenta ora, per certi versi, più lineare, ma più difficile. Non implica infatti prioritariamente il coinvolgimento dello Stato, ma della società meridionale che deve diventare protagonista della sua rinascita. Siamo tornati a Salvemini e Sturzo, nelle stesse condizioni di debolezza che resero precarie le loro tesi meridionaliste, senza il riferimento, che a loro pareva determinante come fattore risolutivo, dello Stato unitario.

Per iniziare questo nuovo corso parrebbe un tratto positivo la pressoché completa eclissi della vecchia classe politica, in particolare democristiana e socialista. Lo sarebbe in effetti, se nel sostituirla le nuove dirigenze di sinistra e di destra mostrassero di sapere che cosa debbono fare. La sinistra sembra più consapevole dei contesti generali in cui si colloca oggi una politica meridionalistica, ma non mostra di avere altre ricette se non quelle di prima, necessariamente ridotte nella misura, anche se più accortamente proceduralizzate. La destra tenta di saldare i nuovi miraggi liberisti ad un rapporto organico con la più vecchia realtà sociale del Mezzogiorno. Un mix che in alcune realtà, come quella napoletana, ad esempio, si manifesta come assurdo, e fornisce assurdi risultati. Ma così né la sinistra né la destra riescono ad innescare un rapporto capace di sviluppi positivi nella realtà meridionale. Stiamo attraversando una nuova fase di stagnazione, che per certi versi può diventare più pericolosa di quella di prima. Perché prima i processi degenerativi, soprattutto sul lato delle pubbliche istituzioni, erano quelli che abbiamo descritti, ma la società meridionale nel suo complesso rimaneva legata dalla rete capillare di legami e cointeressenze che la vecchia classe politica aveva creato. Rotta la grande ragnatela, c’è il vuoto. Non un vuoto immobile, ma attraversato da grandi tensioni, alcune delle quali, quelle più propriamente sociali, rimangono latenti (ma fino a quando?), altre, come quella determinata dalla capillare presenza della criminalità organizzata, vengono lasciate gestire da alcuni poteri dello Stato, sostanzialmente la magistratura, senza il corredo di politiche necessarie, specialmente di trasformazioni profonde nell’assetto delle pubbliche amministrazioni. La destrutturazione della vecchia classe politica, che segue quella analoga, da questa compiuta ai danni dell’insieme delle istituzioni pubbliche, non viene in realtà colmata da una dinamica nuova del sistema politico.

Mai il Mezzogiorno, nel bene e nel male, è stato così abbandonato a se stesso e con una coscienza di sé così inferiore a qualsiasi possibile prospettiva e sviluppo.

Pietro Craveri


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