da Ideazione - gennaio 1998
NEL SUD, LABORATORIO
DEL POST-MODERNO
di Eugenia Roccella

Perché queste terre sono così felici, così belle, così fortunate, se non perché la natura ha voluto compiacersi dell’opera propria?», si chiedeva il grande naturalista Plinio il Vecchio, descrivendo la Campania. E ne enumerava le bellezze in un crescendo ammirativo: «Queste brezze sempre vitali e salubri, questa dolcezza di cielo, questi campi così fertili, queste colline così soleggiate, queste foreste così abbondanti, questi boschetti così ombrosi, questi monti che sfumano nel cielo, queste distese di messi, questa abbondanza di viti e ulivi, questa lana così fine e questi tori così grassi, tutti i laghi e la ricchezza di acque, tanti mari e tanti porti!».

L’Italia meridionale, cuore del Mediterraneo e della civiltà occidentale, è stata, fin dall’antichità, identificata con il luogo incantato della dolcezza del vivere, dell’abbondanza, della benevolenza del clima e della natura. Un paradiso terrestre. Come ogni Eden, è minacciato e circoscritto: fuori dai suoi ideali cancelli la natura è nemica, ostile, pericolosa. Persino al suo interno, il doppio volto della natura, madre e matrigna, si manifesta: l’ombra del vulcano grava sulla dolce vita napoletana, e le fiamme possono in un solo momento spazzare via le ville romane lambite dalle acque di Posillipo.

L’uomo deve rimanere in guardia, perché lasciarsi andare al piacere è un rischio mortale, come dimostra il mito delle Sirene. Lo splendore del paesaggio può agire sugli esseri umani come una droga, produrre effetti inebrianti ed euforizzanti che ottundono i sensi e allentano la vigilanza. La lotta tra la tentazione dell’abbandono e il mantenimento della consapevolezza, unica difesa umana, è simboleggiata nel racconto omerico dalla volontà di controllo di Odisseo, che arriva a imporsi la costrizione fisica per resistere al richiamo dolcissimo delle Sirene. E sarà di fondamentale importanza che i luoghi del ciclo troiano vengano identificati nelle coste tirreniche e ioniche italiane, che restano così nell’immaginario occidentale il prolungamento ideale di quelle dell’Egeo.

Il mito del Sud è già tutto qui, racchiuso nei tanti testi della classicità che configurano il Sud come Eden vagheggiato, luogo della narrazione mitologica, della grecità, già “altro” rispetto al luogo della norma che ormai è Roma. Un’inesistente Arcadia dell’armonia tra uomo e natura, cantata da greci e latini e ripresa, con diversa connotazione moderna, dal Sannazzaro. Negli anni in cui scrive Sannazzaro, infatti, l’armonia, se mai è esistita, è già perduta. Gli umanisti quattrocenteschi sono consapevoli che il mondo classico è un passato remoto da cui il medioevo e il cristianesimo ci hanno irrimediabilmente allontanati. L’Occidente fa i conti con la cesura profonda che attraversa la sua storia, separandolo dalle sue radici: il vagheggiamento si colora di tinte malinconiche, l’elegia è già nostalgia.

Ma è la modernità settecentesca, l’epoca dei lumi, che riformula, e consegna al futuro, l’antico topos del Meridione come Eden. Nell’Europa che cambia, con la formazione degli Stati nazionali e la rivoluzione industriale, l’Italia meridionale comincia ad essere percepita come un confine, un territorio radicalmente diverso. L’Europa si caratterizza sempre più come continentale, costituita da Stati indipendenti, nordica, protestante, urbana, ricca, industriale e industriosa; il nostro Sud è cattolico, agricolo, miserabile, occupato da potenze straniere, proteso nel Mediterraneo verso l’Africa, privo di agglomerati urbani importanti (con l’eccezione di Napoli, che, peraltro, costituisce un caso abnorme e inquietante).

La nuova classe dirigente europea si forma, in quegli anni, anche attraverso la pratica conoscitiva del viaggio, il grand tour, di cui l’Italia è tappa fondamentale. Nei resoconti, nei diari, nelle lettere di questi viaggiatori, tra cui moltissimi sono i nomi noti, si precisa via via un’immagine del Meridione come non-Europa che ne estremizza l’alterità e la complementarità. Nel mondo classico la diversità del Sud, in particolare di Napoli, era vissuta come interna, situabile dentro un’unità sostanziale; Napoli era il luogo del temporaneo smemoramento dai doveri, luogo di nobili otia, dove era dolce vivere in villa, comporre versi, intrecciare conversazioni filosofiche. Era lo spazio in cui simbolicamente si dismetteva la toga romana in favore del pallio greco, ma sempre luogo di cittadinanza romana, di comune appartenenza culturale, in cui l’origine greca si fondeva con la radice latina.

L’Illuminismo, invece, separa, definisce una linea di demarcazione invisibile ma netta. C’è l’Europa della modernità e della storia, e c’è il luogo del selvaggio, del pre-moderno, che è fuori dalla storia. Nel momento in cui nasce il mito dello stato di natura, il “buon selvaggio” viene collocato non soltanto nell’India misteriosa, nelle Molucche o fra primitive tribù esotiche, ma anche assai più vicino, nel nostro Sud. Come spiega Dupaty, qui vige la législation du soleil, e cioè regna una fisiologica indolenza, un’abitudine al parassitismo giustificata (o determinata) dal clima. Chi mai può ambire a lavorare, in questo Paese di Bengodi dove per ripararsi basta una grotta, per sfamarsi basta cogliere un frutto o cercare un mollusco nella sabbia tiepida, per dissetarsi basta una fonte? È ovvio che la gente canti, balli, faccia l’amore e sia felice con poco. Naturalmente, tanta felicità naturale non produce le conquiste tecnologiche che si vedono al Nord.

Berkeley, affascinato dal ballo della tarantola nelle campagne pugliesi come dall’incredibile ricchezza di acque termali della tiepida e rigogliosa Ischia, è colpito dall’innocenza dei suoi abitanti, che non conoscono e non distinguono il bene dal male. Ischia è l’isola felice, il giardino paradisiaco prima del peccato: l’Arcadia originaria che si lega inscindibilmente al progetto utopico. Il filosofo inglese sognerà una comunità ideale nelle Bermude (dove non andrà mai), rivelando lo stretto legame che intercorre tra mito arcadico e mito utopico. Il Sud è ormai l’eterotopia, l’immagine del luogo altro che riecheggia l’armonia del passato e promette un futuro di perfezione.

La modernità che man mano stravolgerà il paesaggio, che sovrapporrà ai ritmi biologici il tempo dell’innovazione tecnologica, che cambierà la vita dell’uomo, ha bisogno di un Eden passato o futuro, ha bisogno di un altrove idilliaco da sognare, che sia agreste o comunista, naturale o rigidamente progettato.

Il Meridione d’Italia svolgerà (e in parte svolge ancora) questo ruolo, caricandosi di tutte le condanne e le esaltazioni che comporta. La rivoluzione partenopea del 1799 sarà la metafora fatta carne (e soprattutto sangue) di questa lacerazione. Le bande contadine del cardinale Ruffo che ammazzano con impressionante ferocia (nota, di etnologica ritualità) la minoranza intellettuale giacobina sono l’incarnazione visibile delle forze oscure della storia. Una sorta di inconscio gigantesco e ripugnante, di ingovernabile potenza, che impedisce il percorso verso il progresso, la luce promessa dagli illuministi.

Il meridionalismo ottocentesco non farà che confermare nella sostanza questa immagine, con l’aggravio di un vittimismo di accenti e di analisi (soprattutto negli scrittori, si pensi alla Serao) che si diffonderà ulteriormente nel Novecento. Per i meridionali, il paradiso è anche un inferno: chi lo vive dall’interno non può subire il fascino dell’alterità, e avverte invece di essere tagliato fuori da un processo storico. La questione meridionale, come del resto quella femminile, nasce come lo scandalo di una cittadinanza mancata, di diritti incompleti, una forma di minorità.

Ad accentuare la diversità d’immagine del Mezzogiorno è stata anche la lunga permanenza, durata fino alle grandi trasformazioni degli anni Cinquanta, di un’economia fondamentalmente agricola. Nella letteratura meridionalista questo elemento, che legava il Sud all’antichissima questione della distribuzione e della proprietà della terra, si lega al sapore arcaico di una civiltà contadina, patriarcale, certamente superata ma portatrice di solidi valori. Il contadino è l’homo naturalis che si contrappone all’uomo diventato ormai animale urbano, privo di contatti con la natura. In una società in cui si fa strada un’evidente paura dello stravolgimento dei rapporti con la natura, visibile sia nel catastrofismo ecologico-cinematografico, sia in certe forme di esasperato conservatorismo di nicchia (i ricorrenti e nevrotici appelli a difendere a spada tratta ora la foca monaca, ora il muflone del Tibet), il Meridione è stato visto anche come l’ultimo avamposto di un’umanità in via di estinzione.

Vittorio Dini sintetizza la questione attraverso la posizione di due grandi scrittori, La Capria e Pasolini. Il primo, narrando per tutta la vita la sua città, Napoli, mette l’accento sulla modernità mancata, il treno perduto verso l’Europa, per chiudersi nei ricordi di passata grandezza e nell’autoreferenzialità protettiva. Il secondo, invece, difende questa estrema chiusura e autodifesa dei napoletani, che, scrive, sono come una tribù in via di estinzione, come i Tuareg o i Boja, i quali, piuttosto che omologarsi, preferisconoil suicidio collettivo.

La polarizzazione schematica è affascinante, ma certo non rende giustizia a Pasolini, che all’ombra dell’antimodernità elabora una complessa poetica di sacralizzazione dell’umile e dell’innocente, e tantomeno a La Capria, che dietro il suo illuminismo (come spesso accade) maschera una profonda vocazione romantica, la nostalgia segreta dell’armonia perduta, l’ineffabile desiderio di un ricongiungimento alle proprie radici naturali e culturali.

Questo schema caratterizza il Sud come luogo pre-moderno, a cui si possono applicare due diversi atteggiamenti: di chi ne vuole preservare la speciale identità, sottraendolo in qualche modo all’omologazione inevitabile, e di chi invece ritiene sia ora di abbandonare il colore locale in favore di un certo grado di “normalizzazione”. Anche le particolari caratteristiche e i comportamenti della classe dirigente meridionale sono stati interpretati come mediazione necessaria tra forme sociali opposte. Negli anni Settanta, Percy Allum, in Potere e società a Napoli nel dopoguerra, vede i politici locali, soprattutto democristiani (in questo caso la dinastia dei Gava), come necessari mediatori tra potere centrale e società meridionale, adottando la distinzione di Tönnies tra Gesellschaft (società) e Gemeinschaft (comunità). E sono ancora categorie che sottintendono una contrapposizione tra moderno e pre-moderno.

Ma la modernità nel Sud è da tempo arrivata. Può non essere immediatamente riconoscibile se viene identificata solo con alcuni stereotipi, e cioè con la civiltà industriale nei suoi aspetti classici. È arrivata come “modernità squilibrata”, o come modernità senza sviluppo. La si può leggere nel territorio devastato dall’edilizia abusiva e senza piano, dall’intersecarsi di piloni, cavalcavia e tangenziali privi di rispetto nei confronti dei vecchi muri cittadini, dagli impianti industriali isolati e spesso abbandonati, e in generale da quel tipico aspetto di non finito di ogni realizzazione. Il paesaggio del Sud, urbano e non, è segnato dalla provvisorietà, da quella estetica del rotto e del mutevole che caratterizza l’adattabilità meridionale. Il Mezzogiorno è un precoce e particolare laboratorio del post-moderno, in cui paesaggio degradato, kitsch, scarti della civiltà dei consumi costituiscono un nuovo testo, non più leggibile attraverso i codici culturali consueti.

Per alcuni, come Bocca, e per chi si accontenta delle semplificazioni leghiste, l’antico paradiso si è ridotto a un orribile inferno. Per altri, come i sostenitori del “pensiero meridiano” (per esempio, Franco Cassano e Vittorio Dini), il Sud può essere il simbolo di una cultura di frontiera, di contaminazione e apertura che contrasti la marcia vittoriosa del pensiero unico liberale. Ancora una volta, in sostanza, ci si divide tra chi propone un unico modello di sviluppo e riconosce un solo esempio di civiltà, quella razionalista dell’Occidente, e chi interpreta la specificità del Sud come una diversità tanto forte da poter fare argine alla disumanità del mercato globale.

Ma vogliamo citare un altro scrittore, il quasi dimenticato Carlo Bernari, con due narrazioni speculari dell’impotenza meridionale: il romanzo di esordio del 1934, Tre operai, e Era l’anno del sole quieto, scritto trent’anni dopo. Nel primo, i protagonisti percorrono infelicemente e senza scopo una Napoli squallida, grigia e piovosa, lontanissima dalla caratterizzazione coloristica a cui il lettore è abituato. Sono, più che altro, non-operai, visto che per gran parte del racconto sono disoccupati: lo status di operaio è l’approdo sognato che fornirebbe loro non solo un lavoro, ma una speranza e un ruolo sociale. Nell’altro romanzo, un professore di ecologia del Nord, Orlando Rughi, tenta invano di impiantare nella provincia campana un sofisticato complesso chimico ad alto contenuto tecnologico. Non ci riuscirà, nonostante la tenacia e i sacrifici, perché la sfuggente resistenza ambientale, impersonata dall’invisibile e irraggiungibile dottor Puntillo, glielo impedirà.

Insomma: la modernità è arrivata, ma senza industrie, come testimonia l’Italsider, il “gigante d’acciaio” abbandonato sulla spiaggia di Bagnoli come il relitto di un’epoca mai arrivata ma già passata. Un totem o, se si preferisce, un monumento che ricorda il fallimento di una teoria e di una politica. L’economia meridionale, più che testimoniare un percorso autonomo, un modello diverso, sembra una mimesi contraddittoria e malriuscita della civiltà del benessere, come quella simbolicamente rappresentata dal Museo del falso che Salvatore Casillo, professore di sociologia, ha allestito a Salerno. Vi sono conservati tutti i campioni dei mille prodotti che la fiorente e clandestina industria campana della contraffazione sforna senza sosta.

Difficile, dunque, partire da un modello di forte diversità, dalla teorizzazione della “porosità” meridionale contrapposta alla rigida impermeabilità di un Occidente nordico ed economicista. Non solo si rischia di sovrapporre un nuovo schema ideologico alla realtà del Sud, ma se ne possono ulteriormente smarrire i pochi tratti ancora caratterizzanti, ancora percepiti come propri dai meridionali.

Se fosse possibile azzerare la falsa coscienza che il meridionalismo ha contribuito a creare, sarebbe probabilmente un grande guadagno. L’idea di separatezza, di contrapposizione, che il Meridione ha per lungo tempo agitato e sventolato come una bandiera, gli è stata improvvisamente scippata dal leghismo, rovesciando i termini della questione meridionale. Non ci si aspettava che il ruolo di vittima della storia, la colpevolizzazione e la richiesta d’aiuto, l’accentuazione degli aspetti folklorici della propria cultura venissero presi in parola e ribaltati: adesso, in risposta alle tammurriate e al rap napoletano ci sono le musiche celtiche, al golfo di Mergellina si contrappone l’ampolla di acqua del Po, alle pizzerie le birrerie.

Lo spiazzamento è assoluto. Il meridionalismo va ripensato dalle fondamenta, o forse va abbandonato definitivamente. Il Mezzogiorno deve separarsi dalla coscienza di sé che lo ha accompagnato per tanti anni, deve trovare nuove chiavi di lettura, a partire non tanto da una diversità, ma, ci sembra, da una complementarità. L’omogeneità non è solo omologazione, sperdimento dell’identità, ma definizione di un’identità più complessa, più articolata. Se non si vede il Sud ancora come possibile paradiso, forse si potrà smettere di vederlo come inferno.

Omogeneità e diversità tra Sud e Nord dell’Italia andrebbero ridefinite secondo criteri di lettura diversi, che tengano conto pienamente dei processi già avvenuti.

Eugenia Roccella


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