Perché queste terre sono così felici, così belle, così
fortunate, se non perché la natura ha voluto compiacersi dellopera propria?», si
chiedeva il grande naturalista Plinio il Vecchio, descrivendo la Campania. E ne enumerava
le bellezze in un crescendo ammirativo: «Queste brezze sempre vitali e salubri, questa
dolcezza di cielo, questi campi così fertili, queste colline così soleggiate, queste
foreste così abbondanti, questi boschetti così ombrosi, questi monti che sfumano nel
cielo, queste distese di messi, questa abbondanza di viti e ulivi, questa lana così fine
e questi tori così grassi, tutti i laghi e la ricchezza di acque, tanti mari e tanti
porti!».
LItalia meridionale, cuore del Mediterraneo e della civiltà
occidentale, è stata, fin dallantichità, identificata con il luogo incantato della
dolcezza del vivere, dellabbondanza, della benevolenza del clima e della natura. Un
paradiso terrestre. Come ogni Eden, è minacciato e circoscritto: fuori dai suoi ideali
cancelli la natura è nemica, ostile, pericolosa. Persino al suo interno, il doppio volto
della natura, madre e matrigna, si manifesta: lombra del vulcano grava sulla dolce
vita napoletana, e le fiamme possono in un solo momento spazzare via le ville romane
lambite dalle acque di Posillipo.
Luomo deve rimanere in guardia, perché lasciarsi andare al
piacere è un rischio mortale, come dimostra il mito delle Sirene. Lo splendore del
paesaggio può agire sugli esseri umani come una droga, produrre effetti inebrianti ed
euforizzanti che ottundono i sensi e allentano la vigilanza. La lotta tra la tentazione
dellabbandono e il mantenimento della consapevolezza, unica difesa umana, è
simboleggiata nel racconto omerico dalla volontà di controllo di Odisseo, che arriva a
imporsi la costrizione fisica per resistere al richiamo dolcissimo delle Sirene. E sarà
di fondamentale importanza che i luoghi del ciclo troiano vengano identificati nelle coste
tirreniche e ioniche italiane, che restano così nellimmaginario occidentale il
prolungamento ideale di quelle dellEgeo.
Il mito del Sud è già tutto qui, racchiuso nei tanti testi della
classicità che configurano il Sud come Eden vagheggiato, luogo della narrazione
mitologica, della grecità, già altro rispetto al luogo della norma che ormai
è Roma. Uninesistente Arcadia dellarmonia tra uomo e natura, cantata da greci
e latini e ripresa, con diversa connotazione moderna, dal Sannazzaro. Negli anni in cui
scrive Sannazzaro, infatti, larmonia, se mai è esistita, è già perduta. Gli
umanisti quattrocenteschi sono consapevoli che il mondo classico è un passato remoto da
cui il medioevo e il cristianesimo ci hanno irrimediabilmente allontanati.
LOccidente fa i conti con la cesura profonda che attraversa la sua storia,
separandolo dalle sue radici: il vagheggiamento si colora di tinte malinconiche,
lelegia è già nostalgia.
Ma è la modernità settecentesca, lepoca dei lumi, che
riformula, e consegna al futuro, lantico topos del Meridione come Eden.
NellEuropa che cambia, con la formazione degli Stati nazionali e la rivoluzione
industriale, lItalia meridionale comincia ad essere percepita come un confine, un
territorio radicalmente diverso. LEuropa si caratterizza sempre più come
continentale, costituita da Stati indipendenti, nordica, protestante, urbana, ricca,
industriale e industriosa; il nostro Sud è cattolico, agricolo, miserabile, occupato da
potenze straniere, proteso nel Mediterraneo verso lAfrica, privo di agglomerati
urbani importanti (con leccezione di Napoli, che, peraltro, costituisce un caso
abnorme e inquietante).
La nuova classe dirigente europea si forma, in quegli anni, anche
attraverso la pratica conoscitiva del viaggio, il grand tour, di cui lItalia è
tappa fondamentale. Nei resoconti, nei diari, nelle lettere di questi viaggiatori, tra cui
moltissimi sono i nomi noti, si precisa via via unimmagine del Meridione come
non-Europa che ne estremizza lalterità e la complementarità. Nel mondo classico la
diversità del Sud, in particolare di Napoli, era vissuta come interna, situabile dentro
ununità sostanziale; Napoli era il luogo del temporaneo smemoramento dai doveri,
luogo di nobili otia, dove era dolce vivere in villa, comporre versi, intrecciare
conversazioni filosofiche. Era lo spazio in cui simbolicamente si dismetteva la toga
romana in favore del pallio greco, ma sempre luogo di cittadinanza romana, di comune
appartenenza culturale, in cui lorigine greca si fondeva con la radice latina.
LIlluminismo, invece, separa, definisce una linea di
demarcazione invisibile ma netta. Cè lEuropa della modernità e della storia,
e cè il luogo del selvaggio, del pre-moderno, che è fuori dalla storia. Nel
momento in cui nasce il mito dello stato di natura, il buon selvaggio viene
collocato non soltanto nellIndia misteriosa, nelle Molucche o fra primitive tribù
esotiche, ma anche assai più vicino, nel nostro Sud. Come spiega Dupaty, qui vige la
législation du soleil, e cioè regna una fisiologica indolenza, unabitudine al
parassitismo giustificata (o determinata) dal clima. Chi mai può ambire a lavorare, in
questo Paese di Bengodi dove per ripararsi basta una grotta, per sfamarsi basta cogliere
un frutto o cercare un mollusco nella sabbia tiepida, per dissetarsi basta una fonte? È
ovvio che la gente canti, balli, faccia lamore e sia felice con poco. Naturalmente,
tanta felicità naturale non produce le conquiste tecnologiche che si vedono al Nord.
Berkeley, affascinato dal ballo della tarantola nelle campagne
pugliesi come dallincredibile ricchezza di acque termali della tiepida e rigogliosa
Ischia, è colpito dallinnocenza dei suoi abitanti, che non conoscono e non
distinguono il bene dal male. Ischia è lisola felice, il giardino paradisiaco prima
del peccato: lArcadia originaria che si lega inscindibilmente al progetto utopico.
Il filosofo inglese sognerà una comunità ideale nelle Bermude (dove non andrà mai),
rivelando lo stretto legame che intercorre tra mito arcadico e mito utopico. Il Sud è
ormai leterotopia, limmagine del luogo altro che riecheggia larmonia del
passato e promette un futuro di perfezione.
La modernità che man mano stravolgerà il paesaggio, che
sovrapporrà ai ritmi biologici il tempo dellinnovazione tecnologica, che cambierà
la vita delluomo, ha bisogno di un Eden passato o futuro, ha bisogno di un altrove
idilliaco da sognare, che sia agreste o comunista, naturale o rigidamente progettato.
Il Meridione dItalia svolgerà (e in parte svolge ancora)
questo ruolo, caricandosi di tutte le condanne e le esaltazioni che comporta. La
rivoluzione partenopea del 1799 sarà la metafora fatta carne (e soprattutto sangue) di
questa lacerazione. Le bande contadine del cardinale Ruffo che ammazzano con
impressionante ferocia (nota, di etnologica ritualità) la minoranza intellettuale
giacobina sono lincarnazione visibile delle forze oscure della storia. Una sorta di
inconscio gigantesco e ripugnante, di ingovernabile potenza, che impedisce il percorso
verso il progresso, la luce promessa dagli illuministi.
Il meridionalismo ottocentesco non farà che confermare nella
sostanza questa immagine, con laggravio di un vittimismo di accenti e di analisi
(soprattutto negli scrittori, si pensi alla Serao) che si diffonderà ulteriormente nel
Novecento. Per i meridionali, il paradiso è anche un inferno: chi lo vive
dallinterno non può subire il fascino dellalterità, e avverte invece di
essere tagliato fuori da un processo storico. La questione meridionale, come del resto
quella femminile, nasce come lo scandalo di una cittadinanza mancata, di diritti
incompleti, una forma di minorità.
Ad accentuare la diversità dimmagine del Mezzogiorno è stata
anche la lunga permanenza, durata fino alle grandi trasformazioni degli anni Cinquanta, di
uneconomia fondamentalmente agricola. Nella letteratura meridionalista questo
elemento, che legava il Sud allantichissima questione della distribuzione e della
proprietà della terra, si lega al sapore arcaico di una civiltà contadina, patriarcale,
certamente superata ma portatrice di solidi valori. Il contadino è lhomo naturalis
che si contrappone alluomo diventato ormai animale urbano, privo di contatti con la
natura. In una società in cui si fa strada unevidente paura dello stravolgimento
dei rapporti con la natura, visibile sia nel catastrofismo ecologico-cinematografico, sia
in certe forme di esasperato conservatorismo di nicchia (i ricorrenti e nevrotici appelli
a difendere a spada tratta ora la foca monaca, ora il muflone del Tibet), il Meridione è
stato visto anche come lultimo avamposto di unumanità in via di estinzione.
Vittorio Dini sintetizza la questione attraverso la posizione di due
grandi scrittori, La Capria e Pasolini. Il primo, narrando per tutta la vita la sua
città, Napoli, mette laccento sulla modernità mancata, il treno perduto verso
lEuropa, per chiudersi nei ricordi di passata grandezza e
nellautoreferenzialità protettiva. Il secondo, invece, difende questa estrema
chiusura e autodifesa dei napoletani, che, scrive, sono come una tribù in via di
estinzione, come i Tuareg o i Boja, i quali, piuttosto che omologarsi, preferisconoil
suicidio collettivo.
La polarizzazione schematica è affascinante, ma certo non rende
giustizia a Pasolini, che allombra dellantimodernità elabora una complessa
poetica di sacralizzazione dellumile e dellinnocente, e tantomeno a La Capria,
che dietro il suo illuminismo (come spesso accade) maschera una profonda vocazione
romantica, la nostalgia segreta dellarmonia perduta, lineffabile desiderio di
un ricongiungimento alle proprie radici naturali e culturali.
Questo schema caratterizza il Sud come luogo pre-moderno, a cui si
possono applicare due diversi atteggiamenti: di chi ne vuole preservare la speciale
identità, sottraendolo in qualche modo allomologazione inevitabile, e di chi invece
ritiene sia ora di abbandonare il colore locale in favore di un certo grado di
normalizzazione. Anche le particolari caratteristiche e i comportamenti della
classe dirigente meridionale sono stati interpretati come mediazione necessaria tra forme
sociali opposte. Negli anni Settanta, Percy Allum, in Potere e società a Napoli nel
dopoguerra, vede i politici locali, soprattutto democristiani (in questo caso la dinastia
dei Gava), come necessari mediatori tra potere centrale e società meridionale, adottando
la distinzione di Tönnies tra Gesellschaft (società) e Gemeinschaft (comunità). E sono
ancora categorie che sottintendono una contrapposizione tra moderno e pre-moderno.
Ma la modernità nel Sud è da tempo arrivata. Può non essere
immediatamente riconoscibile se viene identificata solo con alcuni stereotipi, e cioè con
la civiltà industriale nei suoi aspetti classici. È arrivata come modernità
squilibrata, o come modernità senza sviluppo. La si può leggere nel territorio
devastato dalledilizia abusiva e senza piano, dallintersecarsi di piloni,
cavalcavia e tangenziali privi di rispetto nei confronti dei vecchi muri cittadini, dagli
impianti industriali isolati e spesso abbandonati, e in generale da quel tipico aspetto di
non finito di ogni realizzazione. Il paesaggio del Sud, urbano e non, è segnato dalla
provvisorietà, da quella estetica del rotto e del mutevole che caratterizza
ladattabilità meridionale. Il Mezzogiorno è un precoce e particolare laboratorio
del post-moderno, in cui paesaggio degradato, kitsch, scarti della civiltà dei consumi
costituiscono un nuovo testo, non più leggibile attraverso i codici culturali consueti.
Per alcuni, come Bocca, e per chi si accontenta delle
semplificazioni leghiste, lantico paradiso si è ridotto a un orribile inferno. Per
altri, come i sostenitori del pensiero meridiano (per esempio, Franco Cassano
e Vittorio Dini), il Sud può essere il simbolo di una cultura di frontiera, di
contaminazione e apertura che contrasti la marcia vittoriosa del pensiero unico liberale.
Ancora una volta, in sostanza, ci si divide tra chi propone un unico modello di sviluppo e
riconosce un solo esempio di civiltà, quella razionalista dellOccidente, e chi
interpreta la specificità del Sud come una diversità tanto forte da poter fare argine
alla disumanità del mercato globale.
Ma vogliamo citare un altro scrittore, il quasi dimenticato Carlo
Bernari, con due narrazioni speculari dellimpotenza meridionale: il romanzo di
esordio del 1934, Tre operai, e Era lanno del sole quieto, scritto trentanni
dopo. Nel primo, i protagonisti percorrono infelicemente e senza scopo una Napoli
squallida, grigia e piovosa, lontanissima dalla caratterizzazione coloristica a cui il
lettore è abituato. Sono, più che altro, non-operai, visto che per gran parte del
racconto sono disoccupati: lo status di operaio è lapprodo sognato che fornirebbe
loro non solo un lavoro, ma una speranza e un ruolo sociale. Nellaltro romanzo, un
professore di ecologia del Nord, Orlando Rughi, tenta invano di impiantare nella provincia
campana un sofisticato complesso chimico ad alto contenuto tecnologico. Non ci riuscirà,
nonostante la tenacia e i sacrifici, perché la sfuggente resistenza ambientale,
impersonata dallinvisibile e irraggiungibile dottor Puntillo, glielo impedirà.
Insomma: la modernità è arrivata, ma senza industrie, come
testimonia lItalsider, il gigante dacciaio abbandonato sulla
spiaggia di Bagnoli come il relitto di unepoca mai arrivata ma già passata. Un
totem o, se si preferisce, un monumento che ricorda il fallimento di una teoria e di una
politica. Leconomia meridionale, più che testimoniare un percorso autonomo, un
modello diverso, sembra una mimesi contraddittoria e malriuscita della civiltà del
benessere, come quella simbolicamente rappresentata dal Museo del falso che Salvatore
Casillo, professore di sociologia, ha allestito a Salerno. Vi sono conservati tutti i
campioni dei mille prodotti che la fiorente e clandestina industria campana della
contraffazione sforna senza sosta.
Difficile, dunque, partire da un modello di forte diversità, dalla
teorizzazione della porosità meridionale contrapposta alla rigida
impermeabilità di un Occidente nordico ed economicista. Non solo si rischia di
sovrapporre un nuovo schema ideologico alla realtà del Sud, ma se ne possono
ulteriormente smarrire i pochi tratti ancora caratterizzanti, ancora percepiti come propri
dai meridionali.
Se fosse possibile azzerare la falsa coscienza che il meridionalismo
ha contribuito a creare, sarebbe probabilmente un grande guadagno. Lidea di
separatezza, di contrapposizione, che il Meridione ha per lungo tempo agitato e sventolato
come una bandiera, gli è stata improvvisamente scippata dal leghismo, rovesciando i
termini della questione meridionale. Non ci si aspettava che il ruolo di vittima della
storia, la colpevolizzazione e la richiesta daiuto, laccentuazione degli
aspetti folklorici della propria cultura venissero presi in parola e ribaltati: adesso, in
risposta alle tammurriate e al rap napoletano ci sono le musiche celtiche, al golfo di
Mergellina si contrappone lampolla di acqua del Po, alle pizzerie le birrerie.
Lo spiazzamento è assoluto. Il meridionalismo va ripensato dalle
fondamenta, o forse va abbandonato definitivamente. Il Mezzogiorno deve separarsi dalla
coscienza di sé che lo ha accompagnato per tanti anni, deve trovare nuove chiavi di
lettura, a partire non tanto da una diversità, ma, ci sembra, da una complementarità.
Lomogeneità non è solo omologazione, sperdimento dellidentità, ma
definizione di unidentità più complessa, più articolata. Se non si vede il Sud
ancora come possibile paradiso, forse si potrà smettere di vederlo come inferno.
Omogeneità e diversità tra Sud e Nord dellItalia andrebbero
ridefinite secondo criteri di lettura diversi, che tengano conto pienamente dei processi
già avvenuti.
Eugenia Roccella