Quando Gaetano Salvemini scrisse la sua prima inchiesta su Molfetta,
destinata a diventare un punto di riferimento per la questione meridionale, era il 1897.
Interessato a come volgere alla causa socialista le dinamiche che agitavano le classi
sociali ed affascinato dalla categorie materialistiche di Achille Lauria, il giovane
Salvemini descrisse una popolazione di 37mila abitanti, che poteva «dividersi
allingrosso in tre categorie: marinai, cittadini e contadini. Su 10.000 maschi
superiori ai quindici anni, circa 3000 son marinai; 4000 cittadini; 3000 contadini».
Allepoca, dunque, sei molfettesi su dieci vivevano di pesca e di agricoltura. Cento
anni dopo, il tessuto produttivo e sociale della città è ovviamente cambiato, ma dietro
le percentuali stravolte è possibile trovare ancora elementi di continuità con la
situazione affrontata da Salvemini. Unanalisi che voglia rinnovare lapproccio
alla questione meridionale dovrà dare una risposta sia ai vecchi problemi sia alle
fratture emerse sul territorio nellultimo secolo.
Il numero degli abitanti oggi è giunto a quota 65.1901. Di questi,
23.756 compongono la popolazione in età lavorativa, allinterno della quale si
trovano anche 6.120 lavoratori potenziali, in quanto al momento disoccupati o
ancora in cerca di prima occupazione. Le 20.386 persone in condizione
professionale - definizione Istat che comprende chiunque abbia avuto almeno una
volta un regolare contratto di lavoro - sono così divise: 5.731 addetti
allindustria, 5.066 impiegati pubblici e 7.624 lavoratori del terziario, mentre solo
567 molfettesi vivono di pesca e 1.398 di agricoltura.
Questultima, frazionata comè, merita un capitolo a
parte. Secondo il censimento agrario del 91, la superficie coltivata del comune di
Molfetta è divisa tra 3.935 aziende, ognuna delle quali possiede, in media, 1,4 ettari di
terreno. Un valore che contribuisce non poco a deprimere la media provinciale di 3,7
ettari. Inoltre, mentre nella provincia il raffronto con il censimento precedente indica
un lento processo di concentrazione della proprietà, a Molfetta si assiste ad una rapida
disgregazione, se è vero che nel 1981 le aziende agricole erano 2.844 ed ognuna
possedeva, in media, 2 ettari. Lincremento delle aziende osservato nellarco
del decennio è dovuto solo allaumento delle proprietà più piccole, quelle che
possiedono meno di un ettaro. Tra le due rilevazioni è scomparsa anche lunica
azienda che possedeva più di 50 ettari. Oggi la superficie della cinque aziende più
grandi va dai 20 ai 50 ettari. E non è certo un processo transitorio, visto che già
Salvemini lo sottolineava un secolo fa. La causa, adesso come allora, è la frammentazione
degli assi ereditari. Così oggi a Molfetta abbiamo solo agricoltura di sussistenza, che
invece di produrre ricchezza ne consuma: nei piccoli appezzamenti di terreno, i molfettesi
investono parte dello stipendio ottenuto dal lavoro dipendente. Quanto alle cooperative,
non sono mai decollate sul serio, anche a causa delle furberie e dei piccoli interessi dei
singoli agricoltori. Altro che sfida al mercato europeo, altro che economie di scala.
Il tasso di disoccupazione è del 25,8%, più che doppio rispetto
alla media nazionale e superiore al valore medio della provincia barese (24,7%). Tra i
giovani, lindice sale al 49,4%, contro il 46,8% dellintera provincia di Bari.
Dieci anni prima i disoccupati ufficiali erano pari al 21,2%. Insomma, a prima vista gli
indicatori più importanti fanno di tutto per dipingere lennesima provincia
meridionale più povera che ricca, in continuo decadimento dopo essere stata per secoli
dipendente da due settori - pesca e agricoltura - che oggi hanno perso tutto il loro
potere trainante. Eppure...
Eppure in corso Umberto I, la via dello struscio, le
gioiellerie, i tanti negozi di abbigliamento e di elettronica da consumo non hanno nulla
da invidiare a quelli della miracolosa provincia veneta. Eppure, nel centro della città
non cè isolato che al piano terra non ospiti almeno uno sportello bancario: e chi
li tiene aperti non sono i malridotti istituti di credito meridionali, ma mostri di
efficienza come il San Paolo di Torino, la Comit e la Deutsche Bank. Che hanno i loro
buoni motivi, visto che le statistiche sul credito dicono che nelle banche della città
sono depositati 13 milioni per ogni abitante, bambini compresi. E se il parco macchine dei
molfettesi appare nuovo, il merito non può essere tutto della legge sulla rottamazione.
La domanda da porsi, allora, è quella a cui cercò di rispondere lo stesso Salvemini in
una seconda inchiesta, stavolta priva di intenti ideologici, condotta nel 1954: «Come fa
a magnà tutta sta gente?». Anzi, occorre andare oltre e chiedersi: come fa «tutta
sta gente» a permettersi un simile tenore di vita?
Non con la pesca o con lagricoltura, come visto. Tanto meno
adesso che la manodopera locale deve fare i conti con limmigrazione albanese. Gran
parte dei nuovi arrivati lavora per la raccolta delle olive, dei pomodori e della frutta.
Sono pagati 40-50mila lire al giorno, contro le 80-90mila che chiedono i professionisti
molfettesi. E siccome anche tra gli albanesi gente esperta di mare non manca, per molti di
loro è facile trovare posto su uno dei 150 pescherecci locali, e pure questo contribuisce
a deprimere le retribuzioni dei molfettesi. Quanto allindustria, inutile chiedere in
giro il nome di un imprenditore locale di qualche rilievo, di uno stabilimento che dia
lavoro a più di una ventina di persone. Non ve ne sono. Quasi tutti i molfettesi che
lavorano nelle imprese manifatturiere devono farsi ogni giorno la strada che li porta a
Bisceglie, Terlizzi, Bitonto o Trani, dove li attendono tante piccole aziende, soprattutto
tessili. Qualcuno - ma si contano sulle dita di una mano - lavora allo stabilimento di
Melfi. Se proprio Fiat deve essere, allora meglio lindotto: alla Camera di Commercio
sono registrate 98 imprese di Molfetta (contro le 15 del 1980) specializzate in trasporti
terrestri, e molte di queste oggi si occupano proprio di trasportare a Bari le vetture
costruite a Melfi.
Il turismo, allora? Macché. A Molfetta ci sono solo due alberghi.
Larenile lungo la città è formato da grandi blocchi di cemento, impraticabili per
i bagnanti. Nel tratto di ponente la spiaggia è compromessa dai terminali dei depuratori
di tutti i paesi vicini, mentre a levante, dove pure la costa è più bella e le acque
sono pulite, il pericolo è costituito dal materiale detonante abbandonato da chi, dopo la
guerra, pensò bene di prelevare il metallo dagli ordigni bellici lasciando
lesplosivo sulla costa. Il risultato è che chi vuole fare il bagno sceglie la
vicina Bisceglie, mentre a Molfetta è rimasto il turismo dei poveri: quello giornaliero e
soprattutto il turismo di ritorno, generato dalle migliaia di molfettesi che
lavorano al Nord o allestero e che si riaffacciano per le feste.
Certo, unindustria che tira più delle altre cè, ed è
la stessa indicata da Salvemini nel 54: quella delle costruzioni. Le stime ufficiali
dicono che dà lavoro a 2.421 persone, impiegate in 635 imprese, alcune delle quali di
dimensioni più che rispettabili. Ma le cifre reali che stanno dietro alledilizia
sono più sconosciute qui che altrove. Non solo molti muratori che lavorano in proprio
preferiscono svolgere lattività, se non proprio in nero, almeno in
grigio: si iscrivono alla Camera di Commercio, aprono regolare partita Iva, ma da
questo momento in poi dichiarano il minimo di entrate indispensabile per ottenere i
vantaggi garantiti dalla legalità. A Molfetta si fa di più: capita spesso che una
dozzina di muratori esperti crei una vera e propria impresa edile in nero. Il gruppo
quindi si trasferisce in blocco in Lombardia o in altre regioni settentrionali, prende
in subappalto dalle imprese legali del Nord la costruzione di uno o più
edifici, ed a missione conclusa torna a casa. «Trovano lavoro facilmente, perché la
nostra manodopera, oltre a farsi pagare meno di quella del Nord, è più professionale»,
sottolinea con orgoglio un abitante di Molfetta. Questo lavoro può rendere anche 200mila
lire al giorno, che - va da sé - non appariranno mai su nessun modello 740 o documento
dellInps.
Una forma di marketing tutta particolare le imprese edili - quelle
vere - lhanno escogitata per attrarre i 4.153 molfettesi residenti allestero,
soprattutto in Venezuela ed Australia. Gran parte di loro pare abbia fatto fortuna e, non
appena possono, si comprano lennesima casa in città. Fiutato laffare, i
costruttori hanno promosso la creazione di numerose associazioni di molfettesi
allestero, che ovviamente si occupano soprattutto di mettere in contatto le imprese
edili con gli arricchiti doltre Oceano.
Il grosso del sostentamento della città è garantito dal terziario
e dalla pubblica amministrazione. Lascesa degli impiegati statali e parastatali è
impressionante: il censimento dell81 ne trovò 3.992, quello successivo - a
popolazione totale quasi invariata - 5.066. Viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato del
tenore di vita dei molfettesi senza questa valanga di oltre cento assunzioni lanno.
Stabile, di fatto, il terziario: nell81 dava lavoro a 7.599 molfettesi, che dieci
anni dopo risulteranno essere appena 25 in più. A Molfetta limpiego pubblico si
conferma essere così, una volta di più, il vero ammortizzatore economico del
Mezzogiorno, lunico capace di assorbire i contraccolpi sociali provocati dalla crisi
dei settori tradizionali.
A questo proposito, la recente storia economica della città forse
può far cambiare idea a chi pensa che la mondializzazione interessi soprattutto Bill
Gates ed i mercati asiatici. Negli anni Sessanta, e fino agli anni Ottanta, si sono
registrati picchi di 15mila molfettesi imbarcati, ad ogni livello gerarchico, sulle navi
mercantili o passeggeri di tutto il mondo. Questo perché il reddito dei marittimi era
elevato, e corrispondeva a 4-5 volte quello di un operaio a terra. In questo modo si venne
a creare a Molfetta una straordinaria disponibilità di liquidità. E siccome le rimesse
dei marittimi erano utilizzate quasi esclusivamente per lacquisto di case, assieme
alla crescita della popolazione impiegata per mare si è assistito al boom
delledilizia ed al rapido aumento dei prezzi degli appartamenti. Tutto questo
comportò labbandono - anche da parte delle autorità locali - di ogni interesse
verso le attività artigianali tradizionali, che proprio in quegli anni, attraverso
processi di innovazione e di trasformazione, avrebbero dovuto crescere. Fu in questo
periodo che molte aziende si trasferirono nelle città vicine.
Durò sino al 1982. Sin quando, cioè, nel settore marittimo iniziò
ad essere introdotta nuova tecnologia in dosi massicce. Questa da un lato rese obsolete le
competenze dei marittimi molfettesi, legati a schemi troppo vecchi, e dallaltro
comportò la riduzione di personale sulle navi. Iniziò anche ad essere imbarcata gente
dei Paesi extracomunitari, che, oltre ad avere spesso un livello culturale elevato ed una
buona conoscenza dellinglese, chiedeva paghe più basse. Questo problema si aggravò
via via, sino ad esplodere con la dissoluzione del blocco Est europeo, che riversò anche
sulle navi masse di lavoratori con una preparazione elevata e basse pretese.
«Non si faccia ingannare da quello che vede per strada. Questa è
una città in crisi. Il periodo doro dei marittimi è finito, e lagricoltura e
la pesca ristagnano da tempo. Oggi tutto è sulle spalle del terziario e della pubblica
amministrazione. Ledilizia? Serve a ridistribuire la ricchezza, non a crearla».
Ecco perché, passeggiando sul molo, Dante Altomare, assessore comunale alle Attività
produttive, indica Mausoleo ad Icaro, una scultura di Antonio Paradiso datata 1995.
Rappresenta - no, non rappresenta: è - una Citröen Due cavalli schiacciata tra due
enormi cubi di pietra di Apricena. Un incubo postmoderno, piazzato lì, tra i vecchi
pescherecci e il Duomo. «In questo monumento - spiega lassessore - non cè
niente di rassicurante. Ce lo abbiamo messo apposta, per dare uno shock a questa città,
per farle ritrovare il suo orgoglio. Basta con le immagini rassicuranti: Molfetta deve
ricominciare a sporcarsi le mani e rimettersi a lavorare». Ed elenca i progetti in
cantiere, dalla zona artigianale, che già ospita una trentina di aziende e ne aspetta
altrettante, allarea di sviluppo industriale prossima ventura, al nuovo mercato
ortofrutticolo allingrosso («il più grande a Sud di Napoli, Sicilia esclusa»).
Ed i lavoratori fuori dal mercato? «Per quanto riguarda i marittimi
in difficoltà, ci stiamo occupando di come riconvertirli verso altri settori.
Cè poco da fare, più di due-tremila marittimi questa città non può averne.
Formarne di nuovi non ha senso, e quelli che oggi non trovano posto domani da qualche
parte devono andare. Quanto ai giovani, ci stiamo muovendo sulla strada della formazione
professionale per la creazione di impresa».
Già, i giovani. A Molfetta ce ne sono sempre meno. Nel 1981 gli
under 20 erano 22.660; oggi lanagrafe comunale ne conta 15.125. Listituto
superiore più frequentato è il tecnico commerciale intestato proprio a Gaetano
Salvemini, che lo scorso anno scolastico ha contato 1.288 iscritti. Seguono
listituto magistrale (830 iscritti) ed il liceo scientifico (692). Il preside del
Salvemini è il professor Giuseppe Morrone. Quello che vede dal suo
osservatorio particolare lo racconta così: «Molti ragazzi, circa il 20 per cento,
frequentano questa scuola perché vi intravedono il mezzo per una crescita sociale della
famiglia. Sono i figli di coloro che navigano e degli agricoltori. In molti altri casi la
scelta è legata a precisi bisogni familiari: chi ha una piccola impresa commerciale,
vuole che il figlio faccia il ragioniere per poter guidare meglio la contabilità; chi
possiede una piccola azienda edilizia, vuole fare del figlio il geometra
dellimpresa».
Da buon preside, è convinto che il ritorno di Molfetta allo
sviluppo passi attraverso la scuola. «Pensiamo allagricoltura. Le colture che
insistono sulla zona di Molfetta sono particolarmente interessanti da un punto di vista
organolettico. In parole povere, commercializzare gli olii prodotti nella zona di Molfetta
significa immettere sul mercato un prodotto di alta qualità. Discorso analogo per la
produzione ittica, che oltre ad essere abbondante è di livello qualitativo elevato.
Proprio per questo è necessario che dalle scuole escano giovani preparati, che sappiano
inserire il prodotto locale a livello nazionale ed internazionale. La sola ricchezza del
Meridione è nei meridionali, nel loro saper essere autonomi. Del resto, è proprio questo
che voleva dirci Salvemini, no?».
Fausto Carioti