da Ideazione - gennaio 1998
A MOLFETTA,
CENTO ANNI DOPO

di Fausto Carioti

Quando Gaetano Salvemini scrisse la sua prima inchiesta su Molfetta, destinata a diventare un punto di riferimento per la questione meridionale, era il 1897. Interessato a come volgere alla causa socialista le dinamiche che agitavano le classi sociali ed affascinato dalla categorie materialistiche di Achille Lauria, il giovane Salvemini descrisse una popolazione di 37mila abitanti, che poteva «dividersi all’ingrosso in tre categorie: marinai, cittadini e contadini. Su 10.000 maschi superiori ai quindici anni, circa 3000 son marinai; 4000 cittadini; 3000 contadini». All’epoca, dunque, sei molfettesi su dieci vivevano di pesca e di agricoltura. Cento anni dopo, il tessuto produttivo e sociale della città è ovviamente cambiato, ma dietro le percentuali stravolte è possibile trovare ancora elementi di continuità con la situazione affrontata da Salvemini. Un’analisi che voglia rinnovare l’approccio alla questione meridionale dovrà dare una risposta sia ai vecchi problemi sia alle fratture emerse sul territorio nell’ultimo secolo.

Il numero degli abitanti oggi è giunto a quota 65.1901. Di questi, 23.756 compongono la popolazione in età lavorativa, all’interno della quale si trovano anche 6.120 lavoratori “potenziali”, in quanto al momento disoccupati o ancora in cerca di prima occupazione. Le 20.386 persone “in condizione professionale” - definizione Istat che comprende chiunque abbia avuto almeno una volta un regolare contratto di lavoro - sono così divise: 5.731 addetti all’industria, 5.066 impiegati pubblici e 7.624 lavoratori del terziario, mentre solo 567 molfettesi vivono di pesca e 1.398 di agricoltura.

Quest’ultima, frazionata com’è, merita un capitolo a parte. Secondo il censimento agrario del ’91, la superficie coltivata del comune di Molfetta è divisa tra 3.935 aziende, ognuna delle quali possiede, in media, 1,4 ettari di terreno. Un valore che contribuisce non poco a deprimere la media provinciale di 3,7 ettari. Inoltre, mentre nella provincia il raffronto con il censimento precedente indica un lento processo di concentrazione della proprietà, a Molfetta si assiste ad una rapida disgregazione, se è vero che nel 1981 le aziende agricole erano 2.844 ed ognuna possedeva, in media, 2 ettari. L’incremento delle aziende osservato nell’arco del decennio è dovuto solo all’aumento delle proprietà più piccole, quelle che possiedono meno di un ettaro. Tra le due rilevazioni è scomparsa anche l’unica azienda che possedeva più di 50 ettari. Oggi la superficie della cinque aziende più grandi va dai 20 ai 50 ettari. E non è certo un processo transitorio, visto che già Salvemini lo sottolineava un secolo fa. La causa, adesso come allora, è la frammentazione degli assi ereditari. Così oggi a Molfetta abbiamo solo agricoltura di sussistenza, che invece di produrre ricchezza ne consuma: nei piccoli appezzamenti di terreno, i molfettesi investono parte dello stipendio ottenuto dal lavoro dipendente. Quanto alle cooperative, non sono mai decollate sul serio, anche a causa delle furberie e dei piccoli interessi dei singoli agricoltori. Altro che sfida al mercato europeo, altro che economie di scala.

Il tasso di disoccupazione è del 25,8%, più che doppio rispetto alla media nazionale e superiore al valore medio della provincia barese (24,7%). Tra i giovani, l’indice sale al 49,4%, contro il 46,8% dell’intera provincia di Bari. Dieci anni prima i disoccupati ufficiali erano pari al 21,2%. Insomma, a prima vista gli indicatori più importanti fanno di tutto per dipingere l’ennesima provincia meridionale più povera che ricca, in continuo decadimento dopo essere stata per secoli dipendente da due settori - pesca e agricoltura - che oggi hanno perso tutto il loro potere trainante. Eppure...

Eppure in corso Umberto I, la “via dello struscio”, le gioiellerie, i tanti negozi di abbigliamento e di elettronica da consumo non hanno nulla da invidiare a quelli della miracolosa provincia veneta. Eppure, nel centro della città non c’è isolato che al piano terra non ospiti almeno uno sportello bancario: e chi li tiene aperti non sono i malridotti istituti di credito meridionali, ma mostri di efficienza come il San Paolo di Torino, la Comit e la Deutsche Bank. Che hanno i loro buoni motivi, visto che le statistiche sul credito dicono che nelle banche della città sono depositati 13 milioni per ogni abitante, bambini compresi. E se il parco macchine dei molfettesi appare nuovo, il merito non può essere tutto della legge sulla rottamazione. La domanda da porsi, allora, è quella a cui cercò di rispondere lo stesso Salvemini in una seconda inchiesta, stavolta priva di intenti ideologici, condotta nel 1954: «Come fa a magnà tutta ’sta gente?». Anzi, occorre andare oltre e chiedersi: come fa «tutta ’sta gente» a permettersi un simile tenore di vita?

Non con la pesca o con l’agricoltura, come visto. Tanto meno adesso che la manodopera locale deve fare i conti con l’immigrazione albanese. Gran parte dei nuovi arrivati lavora per la raccolta delle olive, dei pomodori e della frutta. Sono pagati 40-50mila lire al giorno, contro le 80-90mila che chiedono i professionisti molfettesi. E siccome anche tra gli albanesi gente esperta di mare non manca, per molti di loro è facile trovare posto su uno dei 150 pescherecci locali, e pure questo contribuisce a deprimere le retribuzioni dei molfettesi. Quanto all’industria, inutile chiedere in giro il nome di un imprenditore locale di qualche rilievo, di uno stabilimento che dia lavoro a più di una ventina di persone. Non ve ne sono. Quasi tutti i molfettesi che lavorano nelle imprese manifatturiere devono farsi ogni giorno la strada che li porta a Bisceglie, Terlizzi, Bitonto o Trani, dove li attendono tante piccole aziende, soprattutto tessili. Qualcuno - ma si contano sulle dita di una mano - lavora allo stabilimento di Melfi. Se proprio Fiat deve essere, allora meglio l’indotto: alla Camera di Commercio sono registrate 98 imprese di Molfetta (contro le 15 del 1980) specializzate in trasporti terrestri, e molte di queste oggi si occupano proprio di trasportare a Bari le vetture costruite a Melfi.

Il turismo, allora? Macché. A Molfetta ci sono solo due alberghi. L’arenile lungo la città è formato da grandi blocchi di cemento, impraticabili per i bagnanti. Nel tratto di ponente la spiaggia è compromessa dai terminali dei depuratori di tutti i paesi vicini, mentre a levante, dove pure la costa è più bella e le acque sono pulite, il pericolo è costituito dal materiale detonante abbandonato da chi, dopo la guerra, pensò bene di prelevare il metallo dagli ordigni bellici lasciando l’esplosivo sulla costa. Il risultato è che chi vuole fare il bagno sceglie la vicina Bisceglie, mentre a Molfetta è rimasto il turismo dei poveri: quello giornaliero e soprattutto il turismo “di ritorno”, generato dalle migliaia di molfettesi che lavorano al Nord o all’estero e che si riaffacciano per le feste.

Certo, un’industria che tira più delle altre c’è, ed è la stessa indicata da Salvemini nel ’54: quella delle costruzioni. Le stime ufficiali dicono che dà lavoro a 2.421 persone, impiegate in 635 imprese, alcune delle quali di dimensioni più che rispettabili. Ma le cifre reali che stanno dietro all’edilizia sono più sconosciute qui che altrove. Non solo molti muratori che lavorano in proprio preferiscono svolgere l’attività, se non proprio in nero, almeno “in grigio”: si iscrivono alla Camera di Commercio, aprono regolare partita Iva, ma da questo momento in poi dichiarano il minimo di entrate indispensabile per ottenere i vantaggi garantiti dalla legalità. A Molfetta si fa di più: capita spesso che una dozzina di muratori esperti crei una vera e propria impresa edile in nero. Il gruppo quindi si trasferisce in blocco in Lombardia o in altre regioni settentrionali, prende “in subappalto” dalle imprese legali del Nord la costruzione di uno o più edifici, ed a missione conclusa torna a casa. «Trovano lavoro facilmente, perché la nostra manodopera, oltre a farsi pagare meno di quella del Nord, è più professionale», sottolinea con orgoglio un abitante di Molfetta. Questo lavoro può rendere anche 200mila lire al giorno, che - va da sé - non appariranno mai su nessun modello 740 o documento dell’Inps.

Una forma di marketing tutta particolare le imprese edili - quelle vere - l’hanno escogitata per attrarre i 4.153 molfettesi residenti all’estero, soprattutto in Venezuela ed Australia. Gran parte di loro pare abbia fatto fortuna e, non appena possono, si comprano l’ennesima casa in città. Fiutato l’affare, i costruttori hanno “promosso” la creazione di numerose associazioni di molfettesi all’estero, che ovviamente si occupano soprattutto di mettere in contatto le imprese edili con gli arricchiti d’oltre Oceano.

Il grosso del sostentamento della città è garantito dal terziario e dalla pubblica amministrazione. L’ascesa degli impiegati statali e parastatali è impressionante: il censimento dell’81 ne trovò 3.992, quello successivo - a popolazione totale quasi invariata - 5.066. Viene da chiedersi cosa ne sarebbe stato del tenore di vita dei molfettesi senza questa valanga di oltre cento assunzioni l’anno. Stabile, di fatto, il terziario: nell’81 dava lavoro a 7.599 molfettesi, che dieci anni dopo risulteranno essere appena 25 in più. A Molfetta l’impiego pubblico si conferma essere così, una volta di più, il vero “ammortizzatore” economico del Mezzogiorno, l’unico capace di assorbire i contraccolpi sociali provocati dalla crisi dei settori tradizionali.

A questo proposito, la recente storia economica della città forse può far cambiare idea a chi pensa che la mondializzazione interessi soprattutto Bill Gates ed i mercati asiatici. Negli anni Sessanta, e fino agli anni Ottanta, si sono registrati picchi di 15mila molfettesi imbarcati, ad ogni livello gerarchico, sulle navi mercantili o passeggeri di tutto il mondo. Questo perché il reddito dei marittimi era elevato, e corrispondeva a 4-5 volte quello di un operaio a terra. In questo modo si venne a creare a Molfetta una straordinaria disponibilità di liquidità. E siccome le rimesse dei marittimi erano utilizzate quasi esclusivamente per l’acquisto di case, assieme alla crescita della popolazione impiegata per mare si è assistito al boom dell’edilizia ed al rapido aumento dei prezzi degli appartamenti. Tutto questo comportò l’abbandono - anche da parte delle autorità locali - di ogni interesse verso le attività artigianali tradizionali, che proprio in quegli anni, attraverso processi di innovazione e di trasformazione, avrebbero dovuto crescere. Fu in questo periodo che molte aziende si trasferirono nelle città vicine.

Durò sino al 1982. Sin quando, cioè, nel settore marittimo iniziò ad essere introdotta nuova tecnologia in dosi massicce. Questa da un lato rese obsolete le competenze dei marittimi molfettesi, legati a schemi troppo vecchi, e dall’altro comportò la riduzione di personale sulle navi. Iniziò anche ad essere imbarcata gente dei Paesi extracomunitari, che, oltre ad avere spesso un livello culturale elevato ed una buona conoscenza dell’inglese, chiedeva paghe più basse. Questo problema si aggravò via via, sino ad esplodere con la dissoluzione del blocco Est europeo, che riversò anche sulle navi masse di lavoratori con una preparazione elevata e basse pretese.

«Non si faccia ingannare da quello che vede per strada. Questa è una città in crisi. Il periodo d’oro dei marittimi è finito, e l’agricoltura e la pesca ristagnano da tempo. Oggi tutto è sulle spalle del terziario e della pubblica amministrazione. L’edilizia? Serve a ridistribuire la ricchezza, non a crearla». Ecco perché, passeggiando sul molo, Dante Altomare, assessore comunale alle Attività produttive, indica Mausoleo ad Icaro, una scultura di Antonio Paradiso datata 1995. Rappresenta - no, non rappresenta: è - una Citröen Due cavalli schiacciata tra due enormi cubi di pietra di Apricena. Un incubo postmoderno, piazzato lì, tra i vecchi pescherecci e il Duomo. «In questo monumento - spiega l’assessore - non c’è niente di rassicurante. Ce lo abbiamo messo apposta, per dare uno shock a questa città, per farle ritrovare il suo orgoglio. Basta con le immagini rassicuranti: Molfetta deve ricominciare a sporcarsi le mani e rimettersi a lavorare». Ed elenca i progetti in cantiere, dalla zona artigianale, che già ospita una trentina di aziende e ne aspetta altrettante, all’area di sviluppo industriale prossima ventura, al nuovo mercato ortofrutticolo all’ingrosso («il più grande a Sud di Napoli, Sicilia esclusa»).

Ed i lavoratori fuori dal mercato? «Per quanto riguarda i marittimi in difficoltà, ci stiamo occupando di come “riconvertirli” verso altri settori. C’è poco da fare, più di due-tremila marittimi questa città non può averne. Formarne di nuovi non ha senso, e quelli che oggi non trovano posto domani da qualche parte devono andare. Quanto ai giovani, ci stiamo muovendo sulla strada della formazione professionale per la creazione di impresa».

Già, i giovani. A Molfetta ce ne sono sempre meno. Nel 1981 gli under 20 erano 22.660; oggi l’anagrafe comunale ne conta 15.125. L’istituto superiore più frequentato è il tecnico commerciale intestato proprio a Gaetano Salvemini, che lo scorso anno scolastico ha contato 1.288 iscritti. Seguono l’istituto magistrale (830 iscritti) ed il liceo scientifico (692). Il preside del “Salvemini” è il professor Giuseppe Morrone. Quello che vede dal suo osservatorio particolare lo racconta così: «Molti ragazzi, circa il 20 per cento, frequentano questa scuola perché vi intravedono il mezzo per una crescita sociale della famiglia. Sono i figli di coloro che navigano e degli agricoltori. In molti altri casi la scelta è legata a precisi bisogni familiari: chi ha una piccola impresa commerciale, vuole che il figlio faccia il ragioniere per poter guidare meglio la contabilità; chi possiede una piccola azienda edilizia, vuole fare del figlio il geometra dell’impresa».

Da buon preside, è convinto che il ritorno di Molfetta allo sviluppo passi attraverso la scuola. «Pensiamo all’agricoltura. Le colture che insistono sulla zona di Molfetta sono particolarmente interessanti da un punto di vista organolettico. In parole povere, commercializzare gli olii prodotti nella zona di Molfetta significa immettere sul mercato un prodotto di alta qualità. Discorso analogo per la produzione ittica, che oltre ad essere abbondante è di livello qualitativo elevato. Proprio per questo è necessario che dalle scuole escano giovani preparati, che sappiano inserire il prodotto locale a livello nazionale ed internazionale. La sola ricchezza del Meridione è nei meridionali, nel loro saper essere autonomi. Del resto, è proprio questo che voleva dirci Salvemini, no?».

Fausto Carioti