Leo Longanesi, l'italiano contro

Quei circoli per un'altra Italia
di Cristiana Vivenzio
Ideazione di marzo-aprile 2007

«Oggi nel mondo delle idee c’è un solo modo di agire: pensare contro. Essere favorevoli a qualcosa o a qualcuno è già un modo di rinunciare alla propria libertà».

Nel 1953, quando Leo Longanesi scriveva queste righe sulle colonne del Borghese, la storia d’Italia stava cambiando. La svolta che le elezioni di quell’anno avrebbero imposto alla situazione politica del paese si poteva presagire. Longanesi continuava ad essere il castigatore dei costumi di sempre, quell’antitaliano alla Prezzolini (ma in fondo anche alla Gobetti), come dirà di lui l’amico Montanelli, «che condivide tutti i difetti degli italiani sapendoli però individuare e denunciare». Continuava ad essere il caustico moralizzatore degli esordi, così come gli chiedevano la sua natura e il suo “caratteraccio”. Il Longanesi che, nonostante il suo anticlericalismo battagliero, in fondo suggeriva di “votare democristiano senza dirlo ai vicini”, poiché bisognava rassegnarsi: «La dc è l’unico partito che provveda a tutto: battesimo, matrimonio e morte».

Su questo atteggiamento – come rileva Raffaele Liucci in un bel libro dedicato a quegli anni (L’Italia borghese di Longanesi, Marsilio, 2002) – molto influiva l’opinione che Longanesi e quelli del Borghese, da Giovanni Ansaldo a Giuseppe Prezzolini e Indro Montanelli, avevano di De Gasperi, e contava forse ancor di più la convinzione che agli inizi degli anni Cinquanta ancora, e in qualche modo, fosse possibile che le tendenze conservatrici presenti all’interno della dc, se sostenute e rafforzate da un elettorato conservatore laico, alla fine potessero avere un peso sulla direzione politica del partito di maggioranza di governo, orientato per vocazione, secondo le parole di De Gasperi, a «guardare a sinistra».

Ciò nonostante, egli continuava a professare per sé e per i suoi la dichiarazione di fede delle origini: «Il Borghese non è democristiano né comunista, né fascista né liberale, e nemmeno socialista e combatte ogni forma di retorica e di soprusi politici». Ma non rinunciava, mai, neppure per un attimo, ad auspicare l’avvento di una destra futuribile. Non, quindi, una destra passatista e nostalgica di tipo postfascista – l’unica nostalgia che Longanesi prova è per un mondo, come molti hanno scritto, per metà ottocentesco e per metà inventato – ma una destra idealmente «conservatrice e altera, sobria e meritocratica, colta e pessimista, scettica, ironica, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, ambientalista e diffidente della società di massa e dei suoi umori e malumori, anti-antifascista – appunto – ma spoglia di rimpianti nostalgici». Insomma, una destra fiera, che non si vergognasse di definirsi tale.

La destra che non c’è
Ma una destra simile esisteva seppure potenzialmente nella società italiana? Aveva una volto, una fisionomia, un corpo sociale oltre ad avere una qualche missione politica? Nella mente di quelli del Borghese esisteva eccome. Si trattava di una destra – come scriveva Montanelli – «al di fuori di quella ufficiale; che ha incominciato a capire quello […] che deve essere una Destra vera: conservatrice sul piano morale e del costume, ma soltanto lì, perché sul piano economico, anzi è molto più a sinistra dei compagni rosa e di quelli rossi».

È una destra individualista e liberista, anche incline all’anarchismo. Non vuole che lo Stato intervenga nei propri affari, poiché è convinta che compito dello Stato sia «assicurare l’ordine pubblico e non imporre modelli etici e collettivistici a senso unico». Oltre ad esistere aveva anche un modello di riferimento: quella vecchia borghesia di stampo ottocentesco che nel Novecento tramanda la propria identità ad «alcune centinaia di migliaia di persone che fanno bene, con cura e scrupolo, quello che fanno; che non arraffano, che non rabberciano, che non barano; che credono ancora in un “Ordine” basato su un alto concetto del “Dovere” individuale. Nauseate dai giornali che leggono, convinte che a Roma tutto diventa fradicio, persuase che la coscienza oggi è un peso e un impaccio» ma che tuttavia «continuano ad obbedire alle vecchie regole di un decoro passato di moda. Perché essi hanno imparato dai nonni, dai bisnonni a stare dalla parte del Bene, anche se circondate dal Male».

Nulla a che fare con la lotta di classe, dunque, e tanto meno con la ricchezza. «Non si tratta soltanto di borghesi, di poveri borghesi, di modesti contacentesimi, di piccoli fabbricanti, di oscuri artigiani, di magistrati, di professori, di pensionati. Si tratta anche di operai, si tratta di industriali e di facoltosi commercianti. E noi li chiamiamo “borghesi” solo in riferimento a questo costume di vita, che appunto la borghesia inventò, ma senza farne il monopolio e il privilegio di una classe».

In realtà si trattava di conservatori non certo di reazionari, sostenuti da un sentimento religioso ma non clericale, di buona educazione, dalla moralità irreprensibile ma non necessariamente di ricchi. Lo status borghese si sostanziava più in un’etica della responsabilità, in una categoria dello spirito che in una condizione socio-economica, anche perché Longanesi e i suoi sapevano bene che «accanto ai vecchi borghesi proliferano i nuovi rozzi, corrotti dall’incipiente società dei consumi e sempre inclini, per trasformismo, opportunismo e quieto vivere a contaminarsi con le ideologie sinistrorse e odoranti di sacrestia». Solo alla prova dei fatti avrebbero dovuto accorgersi quanto la società italiana degli anni Cinquanta era lontana dai loro miraggi.

L’era post-degasperiana
Dopo il fallimento del premio di maggioranza De Gasperi esce dalla scena politica italiana. Nel gennaio del 1954 l’incarico di formare il nuovo governo viene affidato ad Amintore Fanfani, che dopo il ritiro di Dossetti dalla vita politica, è il principale esponente della sinistra democristiana. Nonostante il suo esecutivo non ottenga la fiducia, l’incarico viene visto come una sorta di segno dei tempi. Segno che diventa tangibile quando il 29 aprile del 1955 Giovanni Gronchi – candidato della sinistra dc – viene eletto presidente della Repubblica. E Gronchi è tra i più accesi sostenitori dell’apertura a sinistra del partito.

La sterzata della dc rompe in qualche modo gli scenari e impone un mutamento di rotta anche agli intellettuali del Borghese. «Qui la invito, caro Longanesi – scriveva Indro Montanelli all’amico di sempre – a cominciare a fare quello che ora si impone. Non essere con nessuno dei partiti oggi in lizza non basta più. […] Dalla cittadella in cui ci siamo asserragliati per tanto tempo per difendervi un patrimonio più morale che politico, è ormai giunto il momento di tentare la sortita. E non più con la sola arma di un giornale […] il “quarto potere” dacché è libero, è impotente. Tutta la stampa della Penisola messa insieme non ha impedito l’avvento di Gronchi al Quirinale. Non perda di vista questo esempio, caro Longanesi, è decisivo».

Di fatto Montanelli – ma certamente non solo lui, erano centinaia le lettere che in quei mesi giunsero alla redazione del giornale per chiedere di fare qualcosa – chiedeva a Longanesi di andare oltre gli intenti programmatici, di rompere gli indugi, di trasformare le tante parole corse su pagine e pagine di giornali in azioni concrete. Se quella destra che loro tutti descrivevano e auspicavano esisteva veramente era giunto il momento che trovasse una sua rappresentanza politica. Da qui, da questa convinzione, da questo proposito nascono i Circoli del Borghese. Era il 1955.

Per dare un’organizzazione a quelle voci singole ma non certo disparate che si riconoscevano nel modo di essere evocato dal Borghese, in molte città d’Italia vennero costituiti dei Circoli, che dalla rivista di Longanesi presero il nome. Si trattava per lo più di luoghi di incontro in cui discutere, organizzare conferenze, avviare dibattiti, anche con la partecipazione dei giornalisti e dei collaboratori della rivista. Piccoli laboratori di pensiero destinati a misurare se «esiste ancora, specie in provincia, un’Italia di persone ammodo che sinceramente soffrono di vedere la loro patria caduta così in basso e molto più che di destra o di sinistra si pongano un problema di moralità e di decoro».

Nell’immaginario longanesiano si trattava, lo scrisse lui stesso a Montanelli, di «allestire qualcosa come le Case della Cultura». In realtà, in quegli stessi anni Mario Pannunzio tentava di battere la stessa strada con Il Mondo e gli “Amici del Mondo”, costituendo una sorta di «estensione lobbistica e organizzativa della rivista». Estensione che nell’esperienza del Mondo di lì a poco avrebbe dato vita alla fondazione del Partito radicale e in quella del Borghese ad una drammatica presa di coscienza collettiva.

L’autobiografia del borghese
Cercando di tratteggiare una «autobiografia corale del borghese», sulle pagine del giornale si aprì un acceso dibattito sull’identità dei lettori e dei simpatizzanti, che facesse da preludio per fornire orientamenti morali e indicazioni concrete. Ci si faceva forti del fatto che tutti coloro che si riconoscevano in quell’impresa avevano un passato, non erano fuoriusciti dalla storia e dalla vita italiana: «Abbiamo vissuto sotto il fascismo anche quando non ne condividevamo più i metodi e i fini; e continuiamo a vivere sotto la democrazia, pur disprezzandola […] la gente che non è mai scappata, non ha mai dissolidarizzato dai propri compatrioti rifugiandosi all’estero, o in una sacrestia o in una cellula comunista che non sono meno estero di Mosca o di Parigi […] abbiamo “girato” con l’Italia. E ce ne vantiamo. Non siamo nati il 25 luglio, come tanti nostri colleghi; e non siamo rinati il 25 aprile. Per noi queste sono altrettante “date” di una storia cominciata molto prima e che deve ancora avere un lungo seguito». Non si leggeva certo tra le righe quanto forte e duraturo fosse il senso di appartenenza alla storia d’Italia. Quanto sentita e rispettata fosse la tradizione del Risorgimento. Quanto credessero e auspicassero il compimento dell’identità della nazione. Non restava che scendere su un piano sempre più operativo.

«I circoli cominciano a muoversi. Sono stato a Verona alla prima riunione, non ti dico! Una serata memorabile, nella casa di un riccone, dove erano raccolti tutti i notabili della città. […] Ieri in ufficio riunione del circolo di Genova che è il più agguerrito. I capi sono tipi in gamba (naturalmente ex fascisti di Salò, giovani, decorati (parola illeggibile!). Promettono bene». Evidentemente Montanelli, l’autore di queste righe, non si accorgeva però che nell’Italia democratica avere come compagni di strada gli ex fascisti di Salò rappresentava un handicap più che un vantaggio.

Il progetto era quello di combattere la corruttela del regime democristiano, fornendo una alternativa da destra. Tale alternativa perché avesse una valenza politica doveva contemplare l’unità di azione tra le forze politiche di destra esistenti nel paese, i missini e i monarchici prima di tutto. Nel giugno del 1955 i Circoli si riunirono a Milano confluendo nella “Lega Fratelli d’Italia”. L’appello alla tradizione risorgimentale e l’opposizione al regime democristiano che «ha corrotto il costume della Nazione ed ha tradito la fiducia degli elettori e dei cattolici convinti di trovare in essa la difesa del paese contro il comunismo» facevano da collante.

Ma l’iniziativa del Borghese di lì a poco si rivelò fallimentare. «L’adunata di Longanesi – avrebbe scritto Goffredo Parise – era stata una cosa pietosa, perché v’era tutto il mondo che Longanesi ha sempre preso in giro, compresa una donna di ottant’anni che gridava: viva Cavallotti!». Anche Montanelli non partecipò all’evento milanese, e avrebbe scritto successivamente ricordando quegli anni: «Abbiamo cercato una destra in cui arruolarci, ma non abbiamo trovato che dei faccendieri […] delle brave vecchie signore piene di blasoni e di ricordi, indaffarate a ricamare bandiere con lo scudo per mandarle al re in esilio e alcuni forsennati che vorrebbero mettersi a saltare ora, a cinquanta o sessant’anni, quelle siepi di baionette su cui impararono quando ne avevano venti o trenta».

Erano lontani i tempi in cui si credeva in un’Italia giovane, solidale con se stessa, alla ricerca di un suo proprio destino. I giovani fascisti de l’Italiano e di Omnibus non c’erano più. Nell’Italia degli anni Cinquanta restava solo un monito: «I nostri ammiratori, Dio mio, meglio non conoscerli!».

 


Cristiana Vivenzio, redattore di Ideazione.

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