«Di solito ciò che si scrive su di me mi annoia terribilmente…» ebbe occasione di dire Dino Buzzati durante un’intervista. Con questo pensiero mi incammino per le strade di una Milano che sembra fuori dal tempo, in questa giornata di autunno caldo. Ripercorro il tragitto ripetuto per giorni e poi anni, instancabilmente. Via Solferino, via della Moscova e poi via via, fino a casa: viale Vittorio Veneto 24. Decimo piano. Lei è lì, ad aspettare fuori della porta di casa. Una lunga treccia a raccogliere i capelli. Un abito verde. Niente trucco. Mi accoglie con il sorriso di chi non si stanca mai di parlare di quegli anni, di quel marito lontano che ha segnato tutto il corso della sua esistenza. Quella è la casa dove Almerina e Dino Buzzati iniziano la loro vita insieme nel 1966. Lei ha venticinque anni, lui già sessanta. Le lunghe tende socchiuse per evitare che la luce arrivi troppo diretta sui quadri. I quadri. Opere d’arte contemporanea dappertutto, sui soffitti, in ogni angolo di casa. E poi foto, ritratti di Dino, oggetti di ogni genere, ricordi di viaggio. Una fila di elefanti costeggia la libreria appoggiata alla parete. Si fa fatica a leggere i titoli perché anche alla libreria sono appesi quadri d’autore. E sopra il lungo tavolo libri di Buzzati di ogni genere e lingua. «Lo sa che traducono i racconti di Dino anche in cinese?» Naturalmente lo ignoro.
Ogni angolo di quella
casa parla di lui, anche dopo più di trent’anni dalla sua scomparsa.
«Guardi, guardi che vista. Dino amava l’altezza, la vista che si perde
nell’orizzonte. Forse gli sembrava di scalare le sue amate montagne, e
la vista del parco laggiù lo illudeva di poter dominare dall’alto la
vita». Su quel tavolo dirimpetto alla grande vetrata che affaccia sui
giardini di Porta Venezia Dino Buzzati amava disegnare fino a notte
fonda, mentre Almerina, in quegli ultimi anni di vita insieme, si
aggirava per casa divertita quanto affascinata. «Quando si sedeva a
dipingere si liberava. I pensieri scomparivano e la quiete calava su
queste stanze. Ricordo quegli anni lontani con una grande nostalgia e
grande commozione. Oltre che intimamente divertita. Gli anni più belli
furono quelli di Poema a fumetti. Circa due anni in cui lui si dedicò
soprattutto a ciò che più lo divertiva: dipingere. Quando uscì questo
libro fece un grande scalpore e si vendette moltissimo – anche Indro
Montanelli disse “un nudo in più che si poteva evitare”. C’è dentro
tutto, vede?» – mi fa sfogliando le pagine del libro – «La sua Africa, i
suoi incontri». E anche lei… «certo, ci sono anch’io, naturalmente.
Spesso dipingeva le cose che vedeva. Vede quella torre là? La si ritrova
identica anche qui, nel Poema. E poi ci sono i navigli, il duomo. Dino
amava Milano». Chissà se l’avrebbe amata ancora… «Questa città è
cambiata troppo. Non so se gli sarebbe piaciuta così com’è diventata».
Parliamo di lui
attraverso uno dei modi che meno apprezzava?
Dino era molto restìo alle interviste, è vero. Ma anche in questo aveva
un che di geniale: quando gli si faceva una domanda era di un’abilità
diabolica a girare la questione. Non rispondeva mai. Sfuggire ai suoi
interlocutori diventava un divertimento.
Eppure concesse
un’intervista che poi è diventata un libro…
L’intervista a Panafieu la rilasciò nel settembre del 1971. Sapeva di
essere malato.
Una sorta di
testamento?
Credo che molto più semplicemente si trattasse di aiutare un giovane
aspirante professore universitario nella sua carriera. E lui quando si
trattava di giovani autori non ha mai rifiutato il suo aiuto. L’idea non
era certo quella di scrivere il libro. L’idea è venuta con la morte. Del
resto Dino sapeva che sarebbe stata la sua ultima intervista. E l’ha
accettata. Lo sa? Sono andati avanti per settimane, dalla mattina alla
sera, incessantemente. Fui io, ad un certo punto, a mandar via Panafieu.
Non era più possibile andare avanti. Ogni sera ero costretta a chiamare
il medico. Del resto Panafieu ignorava tutto. Tanto che lui stesso venne
a chiedermi scusa il giorno dopo la morte di Dino. Non sapeva che era
malato. Questo la dice lunga su chi fosse davvero mio marito. Aveva
fatto della morte il tormento della sua vita, l’aveva resa protagonista
assoluta dei suoi scritti. Poi, quando si trovò a pochi passi da lei,
rifiutò addirittura di parlarne. Bisognava conoscere l’individuo. Io
stessa non l’ho conosciuto bene. Posso dire di averlo conosciuto solo
dopo.
Che rapporto aveva
Buzzati con l’universo giovanile? Che poi vuol dire con lei, che
all’epoca del vostro incontro aveva appena vent’anni…
Un bellissimo rapporto. Lui cercava di aiutare i giovani come poteva. E
dalla sua “scuola” ne sono usciti molti. Due nomi tra tutti: Alberto
Cavallari e Carlo Castellaneta. Dino ricordava sempre quando Cavallari
gli inviò le copie di un giornaletto del suo paese. Quando lesse i suoi
scritti rimase così colpito e compiaciuto che lo invitò a venire a
trovarlo a Milano. Invece, aveva conosciuto il padre di Carlo
Castellaneta durante il servizio militare; e il giovane Carlo, dalle
aspirazioni giornalistiche, si giocò la sua chance inviando a Dino una
sua foto col padre durante la leva. Si conobbero perché andò a trovarlo
al Corriere. Dino gli commissionò un articolo. Carlo lo scrisse, glielo
portò, Dino lo lesse in sua presenza e gli disse: non si scrive così.
Invece con lei
com’era?
Non ci crederà ma la persona matura, quella di esperienza, tra i due ero
io. Anche perché Dino era sempre vissuto in famiglia. Non si è mai
occupato delle cose pratiche, come la gestione di una casa. Non sapeva
neanche che la bolletta della luce va pagata. Ricordo che una sera,
tornati a casa a notte fonda la luce non si accese. Per lui fu un vero e
proprio dramma.
Ma con me era allegro, divertente... Anche nelle sue fissazioni mi divertiva; come quando andava spasmodicamente a caccia di un’idea per scrivere l’elzeviro della settimana. L’idea dell’idea l’ha perseguitato tutta la vita. Se doveva scrivere un pezzo doveva avere un’idea. Quante volte insieme ad altri amici ci trovavamo qui, su questo divano, a parlare del più e del meno, e tutto d’un tratto l’idea arrivava. Io lo capivo immediatamente perché Dino cambiava volto. Si alzava, prendeva la sua macchina, si piazzava su quel divano lì e, con la macchina da scrivere sulle gambe, fregandosene se noi eravamo qui e parlavamo di tutt’altro, lui scriveva. Scriveva direttamente, tutto d’un fiato.
Ma era sempre
così?
Sempre la stessa storia: quando scriveva i racconti, quando scriveva gli
elzeviri. Non doveva essere un lavoro facile. E poi lui era uno che
doveva sempre tenere alto il tono e il livello delle cose che scriveva.
Per difendersi dalla mancanza di idee teneva sempre da parte quei
quattro o cinque articoli, da tirar fuori all’ultimo minuto. Mi è
capitato più di una volta di correre al Corriere a ritirare il pezzo di
emergenza consegnato al direttore – mi ricordo all’epoca era Spadolini –
perché rientrata in casa lo trovavo a scrivere, scrivere, scrivere.
Aspettavo, in silenzio, che finisse: «Almerina, me lo fai un favore? –
diceva sollevando le mani dai tasti della macchina per scrivere – Vai a
portare questo e ritirare l’altro, che io devo andare a vedere una
mostra». E io ripartivo.
Ma cosa pensava di
lui?
Lo accettavo così come era. Mi accorsi solo dopo che non lo conoscevo.
Avevo letto pochissime delle sue cose. Compravo il Corriere, leggevo la
terza pagina, e mi piaceva molto, ma non posso dire che conoscessi
Buzzati. Posso invece dire che conoscevo Dino e solo dopo, quando ho
cominciato a leggerlo, ho conosciuto Buzzati. E non sa quanto quelle due
persone ai miei occhi sono apparse diverse…
E il vostro
rapporto?
Avevamo un grande rispetto reciproco ma ognuno continuava ad avere i
suoi spazi. Pensi che non facevamo mai colazione insieme, lui andava
sempre da suo fratello, che abitava qui nello stesso palazzo; i due
appartamenti comunicavano per tramite dei balconi della cucina. Verso
l’una tornava dal Corriere per mangiucchiare qualcosa, a volte anche
solo un uovo bollito, insieme ad Augusto. Non era un grande mangione.
Sa quante volte se aveva da lavorare la sera ci si dimenticava persino
di mangiare? Il cibo era l’ultimo dei suoi pensieri. Ma c’erano alcune
cose che in casa non mancavano mai: il vino toscano, per esempio e del
buon salame. E poi il pane, che si doveva comprare solo in quell’unico
panificio.
Fu una sorta di
coabitazione?
Sapevamo entrambi fin dove potevamo arrivare. L’unica cosa che mi chiese
fu di smettere di lavorare. Da lì cominciai a seguirlo dappertutto, ma
naturalmente solo se era lui a chiedermelo, perché altrimenti io me ne
guardavo bene. Del resto ho sempre avuto il massimo rispetto della sua
persona. Pensi che se veniva un giornalista o un amico a trovarlo io
uscivo dalla stanza e me ne andavo, non c’era neanche bisogno che me lo
chiedesse. Lo capivo da un cambiamento dello sguardo che lo mettevo in
imbarazzo. Ma capii solo dopo il perché di quell’imbarazzo: non voleva
farmi conoscere le sue zone d’ombra, voleva tenermi al riparo dalle sue
ansie e dai suoi tormenti. Aveva un fortissimo senso di protezione nei
miei confronti. L’ho capito dopo, leggendolo. Questa per me e per lui fu
l’intesa più grande. In fondo, lui non voleva che conoscessi Buzzati.
Anche se io avevo intuito che viveva in un tormento continuo che però
cercava di non manifestarmi.
E lui che cosa
pensava di lei?
Il mio modo di essere lo divertiva. Io ero ciò che avrebbe voluto essere
lui. Era un provocatore ma non aveva il coraggio di esserlo fino in
fondo. E questo ha creato una complicità assoluta tra noi. A lui piaceva
il mio naturale anticonformismo, il mio desiderio di libertà. Il fatto
che non me ne importasse assolutamente nulla di quello che pensava la
gente.
E dopo la
scomparsa di Dino come è proseguita la sua vita?
Fu lui stesso a dirmi come andare avanti . Eravamo in clinica, erano due
o tre giorni prima della morte di Dino, c’era Indro presente. Come ho
detto, di solito quando c’era qualcuno che veniva a trovare mio marito
io uscivo dalla stanza; volevo che con i suoi amici potesse essere se
stesso. Anche in quell’occasione ho fatto per andarmene ma Dino mi fece
cenno di rimanere e poi disse: «Almerina, la tua salvezza è fare un
figlio. Fallo».
E lei lo ha fatto.
Mia figlia è nata nel 1979.
Del resto lui non
ebbe figli, eppure fu lui stesso a dire che si vive per creare e
procreare…
Ambedue non volevamo figli, lui per motivi suoi, credo soprattutto per
il terrore di poter trasmettere le sue angosce a un figlio e io perché,
oltre ad essere troppo giovane, sapevo che lui aveva una certa età.
Volevo godermelo minuto per minuto. Se avessi avuto un figlio con un
uomo che aveva sempre la valigia di fronte alla porta di casa per
partire se il direttore lo chiamava non avrei potuto più godere dei
momenti di vita insieme. Io volevo stare con lui. Siamo andati in
Brasile, siamo andati a New York. Se avessi avuto un figlio non avrei
potuto seguirlo da nessuna parte.
Ricordo che quando andammo a New York, incontravamo tutti i giorni pittori, artisti esponenti della Pop art, andavamo nei loro studi. E chi lo mollava... potevo lasciarmi sfuggire l’occasione di incontrare Andy Warhol?
Non c’è mai stato
un momento di noia.
Per lui era la normalità, ma per me tutto era una novità.
Poi venne l’ultimo anno. Quell’anno terribile iniziò con un momento che
non dimenticherò mai. Andavamo spesso a sciare. Quella volta dovevamo
rimanere in montagna per più di sette giorni. Deve sapere che la
frenesia della montagna di Dino era tale che di notte si alzava, apriva
l’imposta per vedere se il tempo era bello o brutto. Alle sette mi
svegliava, ci si preparava e si usciva di casa. Eravamo sulle piste
prima ancora che partisse la seggiovia.
Quel giorno Dino salì, fece una discesa e andò diretto verso la macchina. Si tolse gli sci e mi disse: «Andiamo a casa. Sono malato». Capii immediatamente che il tono era diverso. Così andai a casa a far le valigie, e tornammo a Milano. Del resto sapevo che se un tarlo lo arrovellava bisognava levarglielo. Quella volta però non era una fissazione. Ricordo che il medico come lo vide cambiò subito faccia. E gli prescrisse le analisi. In quel momento ho avuto il primo sentore della fine. Andai io stessa a ritirare le analisi, che avevamo voluto fare dal fratello di Arturo Brambilla, il suo migliore amico. Alberto mi fece sedere, e capii che i miei presentimenti erano fondati. Mi ricordo che sotto lo studio medico c’era una pasticceria. Io odio i dolci ma senza pensarci due volte entrai. Ho ancora chiara la sensazione di disgusto. Venni a casa. Lui mi aspettava. Mi disse di dargli le analisi. Poi aggiunse: «Da questo momento non ne parliamo più e tu mi fai il favore di non dirlo a nessuno, di non costringermi a fare nulla. Non voglio prendere neanche una pillola».
E lei lo ha fatto.
Sì, l’ho fatto. Anche se chiamai Umberto Veronesi per un consulto. Ci
invitò a cena a casa sua. Dopo cena, mentre Dino chiacchierava Umberto
mi prese da una parte e mi disse che non c’era niente da fare. Non si
poteva fare assolutamente nulla. La cosa assurda è che Dino da quel
momento ha aperto le porte alla malattia, mentre io ho cominciato a dare
i numeri. Per lui si era paradossalmente dileguata l’ossessione di tutta
una vita. Aveva la certezza che di lì a poco sarebbe finita…
Immagino che
quello sia stato il momento più difficile. E quello più bello?
Quando era a quel tavolo a dipingere. Disegnava anche fino alle quattro
o alle cinque del mattino. Del resto ha avuto sempre un rapporto
difficile con il sonno. Fin da bambino dormiva con la luce accesa e
voleva che anche nelle altre stanze ci fosse uno spiraglio di luce.
Pensi che se io stavo sveglia e leggevo lui dormiva serenamente, ma se
capitava che mi addormentavo, venivo scossa all’improvviso e aprendo gli
occhi mi ritrovavo con la sua faccia che mi fissava per capire se ero
viva o ero morta.
Ma è stata dura?
No, perché ci si abitua.
E lei piena di
vitalità, pronta a cogliere ogni minuto di quest’uomo tanto più grande
di lei…
Sa la verità? Non mi sono mai accorta della differenza di età.
Nonostante l’inquietudine, che peraltro lui con me non dava a vedere,
dentro era più giovane di me. Noi giocavamo molto, si era adeguato alla
mia età. Ma lui era così anche con i colleghi al Corriere: faceva le
scale a due per due, e se poteva fare uno scherzo non si tirava certo
indietro… non si dimentichi che lui era cresciuto in una famiglia di
quattro figli. Quando andavano a San Pellegrino giocavano con le
famiglie dei contadini… Ma anche quando ne combinavo una delle mie e lui
ne rimaneva affascinato quanto divertito…
Tipo?
All’angolo di via Montenapoleone c’era un negozio che confezionava i
vestiti per militari, famosissimo. Una volta mi son fatta fare un
mantello. Me lo fecero con tanto di mostrine e gradi militari. Era
troppo bello. Me lo misi così com’era e mi incamminai verso il Corriere
per andare a prendere Dino. In via Moscova, vicino a via Solferino, c’è
una caserma. Fuori della caserma c’erano due militari. Mi bloccarono e
mi portarono dentro. Non capivo quale fosse il problema, ignoravo che
non si possono portare i gradi. Quando riuscii a chiamare Dino corse
subito da me. Cercò di spiegare che la mia era stata solo una scelta
estetica, che i gradi mi sembravano una cosa divertente. E in effetti
era proprio così. Ero una suonata. Ma queste cose lo divertivano.
Gli piaceva la
televisione?
Noi non avevamo televisione. Dino la comprò alla madre per vedere Lascia
o Raddoppia? Ma ciò non significa che non fosse un grande estimatore
della modernità. Al contrario, pensi che in uno dei suoi racconti
preconizzò addirittura l’avvento del telefonino.
Ha parlato della
madre di Dino. Lei che idea si è fatta del loro rapporto?
È stato innegabilmente un rapporto complesso…. Ma bisogna avere sempre a
mente che la madre di Dino era una donna di inizio secolo. Quattro
figli. Adriano, lo scienziato di casa se ne andò prestissimo da casa e
dall’Italia. La Nina che si sposò prestissimo. Augusto e Dino che
rimasero al fianco della madre ma avevano due caratteri completamente
diversi: Augusto era più libero, mentre Dino aveva un che di devozione
nei confronti di questa donna coraggiosa, che si è sposata a una certa
età, e aveva dovuto allevare quattro figli da sola, di cui tre maschi.
Sa cosa regalò ai suoi figli (ai maschi naturalmente) per i quattordici
anni? Le chiavi di casa. Certo, non portò mai avanti la famiglia da
sola. Aveva cinque persone di servizio tra cui una cuoca, la “vecchia”
Angela, addetta soprattutto a Dino, perché lui poteva tornare anche alle
quattro di notte, alla chiusura del giornale e lei doveva essere lì
pronta a far la cena; e lui poteva arrivare anche con Emilio Radius, con
i suoi colleghi.
E lei ebbe mai un
rapporto con la signora Alba?
Non ci incrociammo mai. Però un anno dopo la morte di Dino, in occasione
della celebrazione di una messa in favore di mio marito, il prete di
famiglia, che non aveva avuto occasione di conoscermi personalmente, si
avvicinò a me e mi disse: lei dev’essere quella ragazza allegra che
andava ogni tanto in casa di Dino in viale Maino. La mamma di Dino gli
aveva raccontato di me, gli aveva descritto la mia voce, gli aveva
parlato della mia allegria. Gli aveva chiesto persino di cercarmi. E
pensi che io, finché la madre di Dino fu in vita, non sono mai andata da
sola a casa loro. Andavo con gli amici, soprattutto con la Maria Pezzi,
che è stata un’amica incredibile. E che ha condiviso tormenti e gioie
della nostra storia. Come la questione di Un amore…
Quale questione?
Lui non voleva che sapessi di Un amore, e in effetti io non ne seppi
nulla finché non lessi il libro. Solo allora capii tutto. A vederlo così
tormentato e perseguitato dai suoi pensieri mi ero convinta che fosse
malato. Ricordo che guardava continuamente il telefono, era ossessionato
dal telefono. Io, nella mia ingenuità credevo che aspettasse la
telefonata del giornale. Quando ho letto quel libro ho capito qual era
la sua malattia.
Ne è stata gelosa?
Confesso che me la sono presa da morire. Pensi che ero a Torino quando
Un amore uscì. Dopo aver letto il libro mi precipitai al Corriere.
Teoricamente dovevo essere contenta, non aveva il cancro. Era
innamorato, ma non di me. Mi sentii presa così in giro che gli feci una
scenata e gli dissi che non volevo più vederlo. Feci fatica per alcuni
giorni ad allontanarmi. Stavo bene con lui, e quindi mi mancava. Lui
poi, che era un uomo molto educato, alla mia richiesta di interrompere
ogni contatto non ha più telefonato.
Poi che successe?
Capitò che Gianni Santuccio, era ottobre, mi disse se potevo chiedere a
Dino di intercedere in una questione per lui. Senza neanche pensarci gli
telefonai: ciao sono Almerina. Sembrò cadere dalle nuvole, come se
avesse visto un fantasma. «Ma è vero? Sei proprio tu?» «Se ti chiamo…»
Mi disse: «Per favore posso venire a trovarti?» E il nostro rapporto
riprese. Erano passati alcuni mesi di allontanamento, da giugno a
ottobre del 1963. Il libro era uscito ad aprile. La sera stessa bussò
alla porta di casa mia. Naturalmente non era solo. Quando doveva
affrontare situazioni scomode non si presentava mai da solo. Quella sera
arrivò con un suo amico. Me lo ricordo ancora. Aprii la porta e rimasi
senza parole: mi sembrò di non riconoscerlo neppure. Un’altra persona.
Intanto aveva messo su due o tre chili, aveva il sorriso stampato in
faccia, non aveva più lo sguardo ossessionato. Era libero finalmente! Io
l’ho capito, e lì è cominciato tutto. Fino a pochi mesi prima avevo
visto il peggio di Dino, tanto da pensare che avesse poco da vivere. Ma
in quella sera di ottobre ho visto la vita, e non l’ho mollato più. Ho
aperto la porta alla vita e l’ho aperta anche a me stessa. Doveva essere
un giovedì o un venerdì. Sabato e domenica andammo a sciare.
Cristiana Vivenzio, redattore di Ideazione
(c)
Ideazione.com (2006)
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