Leo Longanesi, l'italiano contro

Una lezione di stile
di Maria Teresa Petti
Ideazione di marzo-aprile 2007

Un uomo elegante, cappello chiaro e paltò sul braccio sinistro, cravatta e giacca blu, appoggiato con la mano destra su un ombrello nero, il volto, con barba ben curata, leggermente reclinato all’indietro: è una statuetta appartenuta a Leo Longanesi che fu a lui molto cara e che campeggia sulla copertina del Borghese numero 41 del 1957. È il numero dedicato al suo fondatore venuto improvvisamente a mancare per un infarto il 27 settembre nel suo ufficio di via Bigli a Milano.

«Uomo irraggiungibile, irripetibile, inimitabile, incorruttibile. Artista originale. Scrittore parco, lindo, esatto, ardito, nuovo e antico. Scopritore, denunziatore, indicatore, propulsore, attivatore. Tutto genio e punto metodo, tutto intuito e nessuna obiettività. Pareva uscito da un romanzo di Hoffman nella sua miracolosa piccolezza fisica da cui scaturivano fiamme, dardi, boati, ghiaccioli, tutti insieme incandescenza e puntura di freddo sotto zero». Questo è l’estremo commiato di Giuseppe Prezzolini che pubblicò diverse opere con la casa editrice Longanesi, e che fu uno dei primi collaboratori del Borghese. Seguono i ricordi degli amici più cari e di coloro che lavorarono con Leo.

Chi fu Leo Longanesi? Fu, come lo ritraggono coloro che lo conobbero e lavorarono con lui, l’editore, l’organizzatore di cultura, il giornalista e il maestro di giornalismo, il talentuoso scopritore di talenti? O fu il tipografo, l’impaginatore, il grafico, il disegnatore, il pubblicitario, lo sceneggiatore e scenografo, il pittore? Fu tutto questo insieme, e lo fu creando uno stile unico e tuttora riconoscibile capace di esprimere tutte quelle vocazioni. Ha ragione Guglielmo Peirce – che presso la casa editrice Longanesi pubblicò Pietà per i nostri carnefici col quale vinse il Premio Marzotto – nel commemorare lo stile, il “gusto” tutto longanesiano che contraddistingue un’intera visione del mondo: «Il suo non era un semplice “gusto”. Era un indirizzo. Erano idee. Erano vedute politiche. Avrebbe voluto, gli sarebbe piaciuto che quella Italia passata, che quella cara Italia, fosse anche l’Italia di oggi. […] Non era, la sua, una scelta puramente estetica. Era una partecipazione, una immedesimazione nel corpo della nostra storia. Era tutta una serie di idee, d’indirizzi, di giudizi».

Longanesi incarnò le sue inclinazioni mantenendo sempre e comunque un’autonomia di pensiero (artistica e politica), mostrandosi uno spirito libero da ogni costrizione ideologica. Si sofferma su questo aspetto Giovanni Ansaldo, uno dei  suoi amici e collaboratori più stretti:  «Si può dire ch’egli riuniva tutto in sé, con un sincretismo di cui egli solo possedeva il segreto incomunicabile. […] La influenza sua […] fu quella di un pungolatore di fantasie, di un suscitatore di dubbi, di un attentatore alle moli dei sistemi e delle ideologie consacrati».

Originale sempre (dall’abbigliamento al modo di parlare), era amante del “bel gesto” che lui stesso ricollegava ad un mondo ormai passato. Ebbe un carattere diretto e schietto, provocatorio, arguto e spregiudicato, di certo non sentimentale e non ideologico, variabile nei giudizi ma lapidario. «Aveva l’arroganza del disinteresse – scrivono Montanelli e Staglieno nella biografia del 1985 – il piacere del superfluo, dell’inutile, del fine a se stesso, e l’orrore della ripetizione. Non pronunciò mai due volte la stessa battuta. Ogni nuovo incontro con lui era una première». Di certo fu moderno in ogni forma d’espressione pur rimanendo legato indissolubilmente alla tradizione.

Giuseppe Marotta, autore presso l’editore Longanesi, ricorda: «quei suoi giudizi sempre appena usciti dalla bottega dell’arrotino». E Vincenzo Cardarelli, amico e collaboratore di Longanesi già dai tempi de L’Italiano (fu per il tramite di Cardarelli che Leo conobbe il pittore Armando Spadini e ne sposò la figlia Maria), ne richiama alla memoria le capacità comunicative e provocatorie ricordando il grande parlatore, nei cui discorsi «era assente ogni presentimento della fine». In effetti per lui avevano importanza l’immediatezza e le apparenze come inequivocabili strumenti d’espressione e d’interpretazione. E proprio l’immediatezza fu una delle sue doti più evidenti: egli seppe esprimerla nel suo modo fattivo e rapido di lavorare e di scrivere. Celebri divennero presto i suoi aforismi e le sue battute spigolose. Non a caso fu un ottimo pubblicitario, capace di inventare lo spot, la formula ideale per sintetizzare un concetto e attrarre l’attenzione. E non a caso fu un disegnatore, perché il tratto per lui aveva la forza evocativa dell’impatto emotivo, anche polemico, ed era in grado di esprimere attraverso l’immagine concetti altrimenti inesprimibili.

A detta di chi lo conobbe fu avaro e prodigo. Piuttosto parsimonioso nell’utilizzo del denaro (erede, del resto, di una tradizione familiare borghese nella quale il risparmio aveva la sua importanza), fu prodigo nella diffusione del proprio sapere e infaticabile divulgatore di cultura: in questo, con gli amici, senz’altro non si risparmiava. Mario Missiroli – che ebbe con Longanesi una lunga, seppure altalenante, amicizia personale – ricorda l’ammaestratore e divulgatore di cultura: «Leo spiegava agli amici l’architettura moderna, gli impressionisti francesi, Bodoni, con una verve piena di risorse, di richiami, di impreviste analogie, mescolando la pittura con la politica, la cronaca del giorno con l’arte tipografica, la caricatura dei gerarchi romani, che deliziava i gerarchi provinciali, con la parodia dell’imperialismo […] Non sono mai riuscito a capire come, vivendo in un mondo irreale, astratto, assolutamente arbitrario, possedesse, poi, un senso così esatto e penetrante della realtà circostante, che lo rendeva, fra l’altro, un consigliere giudiziosissimo e utilissimo, nonostante la sua totale incapacità di provvedere ai casi propri».

Da Bagnacavallo a Bologna
Ma andiamo per gradi. Nacque a Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, nel 1905. Suo padre Paolo, industriale, proveniva da una famiglia di agiati coltivatori della media borghesia romagnola. Sua madre Angela era discendente dei Marangoni, ricchi proprietari terrieri. Leo amava raccontare del nonno e dello zio materno, due fratelli molto diversi: lo zio Rinaldo, reduce garibaldino, era un uomo tutto d’un pezzo, dalla mentalità rigida legata alle tradizioni borghesi; il nonno Leopoldo, detto Poldino, che era stato amico di Andrea Costa, si definiva invece socialista, con una vocazione anarchica. Malgrado le divergenze politiche, i due fratelli erano uniti da un comune modo di vivere nel quale era importante la gestione della casa, delle proprietà, delle incombenze ed abitudini giornaliere. E molto giocò quest’atmosfera familiare conservatrice nella formazione del piccolo Leo. La mamma Angela, poi, gli trasmise la sua giovialità, il suo senso di appartenenza alla classe borghese, l’orgoglio, l’ambizione.

La provincia romagnola fu il nido dell’infanzia. Bologna, dove la famiglia si trasferì nel 1911, sarà non solo il luogo dell’adolescenza, ma la città del cuore. Il decoro e il risparmio della borghesia bolognese rispecchiavano allora in toto la copiosità e la parsimonia dello stile di vita della famiglia Longanesi. Fu poi la guerra a scombinare gli equilibri e a mescolare i ceti. Nel giovane Leo si fece strada un sentimento antisocialista che, unito a un forte patriottismo, lo porterà a soli quindici anni a dichiararsi fascista. Non fu squadrista per la sua giovane età, ma era presente quando la violenza squadrista prendeva il sopravvento. E fu suggestionato dalla promessa fascista che sembrava riunire insieme le eterogenee convinzioni della famiglia Longanesi. L’adolescente Leo era attratto dalla carica innovativa e rivoluzionaria del fascismo come “movimento” nonché dalla componente anarchica di un fascismo guascone e romagnolo nel quale identificarsi.

Molto precoci furono le prime collaborazioni giornalistiche, e la sua vita da studente alla facoltà di giurisprudenza di Bologna (non conseguirà mai la laurea) – crucciata soltanto da un’ormai conclamata bassa statura – trascorse all’insegna della formazione intellettuale tra amicizie, letture e viaggi. È permesso, Il Toro, Il Dominio furono le prime riviste con le quali collaborò lasciando da subito un’impronta goliardica e satirica. Si rivelarono ben presto importanti le relazioni personali intessute: in particolare l’amicizia con Leandro Arpinati, federale fascista di Bologna, e con Mino Maccari che nel 1926 diverrà direttore de Il Selvaggio (rivista fascista ideata da Angiolo Bencini alla quale Longanesi offrirà il proprio contributo con articoli e caricature del tutto fuori del comune) ma anche quelle con Camillo Pellizzi e Curzio Malaparte. Nel 1925 il giovanissimo Longanesi divenne direttore de L’Assalto, organo della federazione fascista di Bologna (ma dovette lasciare l’incarico a causa di una satira sul senatore Giuseppe Tanari).

Ma il vero esordio avvenne nel 1926 quando Longanesi fondò L’Italiano, settimanale artistico-letterario (poi quindicinale, in seguito di discontinua periodicità) che restò in vita fino al 1942, e che sarà la rivista della sua vita, nella quale egli si identificò totalmente. Il primo numero uscì il 14 gennaio, col sottotitolo di Rivista settimanale della gente fascista. Da subito L’Italiano si presentò con propositi di sostegno agli aspetti rivoluzionari del fascismo e con la volontà di alimentare il rinnovamento morale degli italiani; e si proponeva di farlo attraverso un uso provocatorio e originale della stampa e della lingua. Lo dicono bene Montanelli e Staglieno nella già citata biografia: «L’estro e l’inventiva longanesiana si sposavano a quelli che erano gli obiettivi primari: impedire l’imborghesimento del fascismo, sostenerne l’aspetto rivoluzionario e “rassista”, colpire a fondo gli ultimi avversari di Mussolini e “inventare” un’arte e una letteratura “fasciste”». L’Italiano non smise mai di promulgare queste idee. Sicché, nel momento in cui il fascismo si avviò verso una “normalizzazione”, Longanesi si fece portavoce di una sottintesa opposizione interna tutta bolognese, restando da una parte apertamente legato al regime (è di questo periodo la celebre frase longanesiana “Mussolini ha sempre ragione”), ma mantenendo dall’altra sempre viva e graffiante la satira, a suo avviso costruttiva e “rivoluzionaria”, nei confronti del potere. (È la stessa posizione rintracciabile nel Vademecum del perfetto fascista del 1926, pamphlet nel quale Longanesi metteva nero su bianco la propria interpretazione del fascismo). Montanelli e Staglieno riassumono in una battuta i rapporti fra L’Italiano e il fascismo: «L’importante era dispiacere a Mussolini quel tanto che bastasse per potergli piacere ancora» e dunque «obbedire disobbedendo». In realtà L’Italiano fu sempre sotto il controllo attento di Mussolini, e le uniche armi che Longanesi continuò ad usare furono l’inattesa spregiudicatezza, l’attenzione sempre vigile, lo sguardo imprevedibile e, soprattutto, la satira che gli consentiva di porre davanti ad ognuno i propri errori. Riuscì così, malgrado le pressioni della censura, a mettere sotto la lente dell’ironia e della caricatura l’intero costume di un’epoca.

Da Omnibus al Borghese
Seguirono gli anni romani, durante i quali Longanesi si occupò del rotocalco Cinema diretto da Vittorio Mussolini, e affinò le sue molteplici doti artistiche, occupandosi di arredamento, di grafica e di cinema scrivendo alcune sceneggiature. Fu a Roma che conobbe e sposò Maria Spadini dalla quale ebbe tre figli. Nel 1937 fondò Omnibus, il primo vero rotocalco italiano: un settimanale di attualità che, tra politica e letteratura, offrì una visione del tutto originale dell’Italia fascista. Il fascismo aveva bisogno di consenso, ed Omnibus nelle intenzioni di Mussolini doveva essere un organo di propaganda. Di fatto fu, secondo Montanelli «l’unico foglio capace di corbellare gli aspetti più deteriori del fascismo, tanto da venir quasi subito soppresso. Con Omnibus Longanesi inventò uno stile, ma soprattutto – attraverso la fronda – avviò all’antifascismo molti giovani che, dopo il ’45, avrebbero finito per accusarlo di fascismo». La spregiudicatezza e l’anticonformismo di Omnibus determinarono la popolarità di Longanesi, il gran successo del foglio ma anche la sua sospensione.

Dopo l’8 settembre del ’43 fu costretto a riparare in Abruzzo e a Napoli (con Mario Soldati). Poi eccolo a Milano, dove negli anni successivi pubblicherà i suoi pamphlet: Parliamo dell’elefante, In piedi e seduti, Il destino ha cambiato cavallo, Ci salveranno le vecchie zie?, Una vita. Qui fondò la casa editrice Longanesi che, in breve tempo, riuscì a pubblicare molti titoli con grande successo. Leo aveva la giusta sensibilità per fiutare il talento, e seppe farne un ricettacolo di autori destinati alla notorietà. Lo dice molto bene Montanelli quando evidenzia in Leo il perspicace scopritore di talenti e il maestro nell’arte e nel gusto tipografico: «Con tutti i loro capitali, con tutte le loro macchine, con tutti i loro consulenti, con tutta la loro organizzazione, gli altri editori non reggevano il passo di quel Longanesi spregiudicato che, come loro, non leggeva i manoscritti che gli offrivano, ma, al contrario di loro, sapeva annusarli […] Così Longanesi si mise a ricreare una sua letteratura, suscitando nuovi talenti, risvegliando quelli vecchi, e inventando, in combutta con artigiani e operai di una tipografia fuorimano, un tipo editoriale nuovo, di straordinaria eleganza, che portava il segno sicuro del suo stile sempre nuovo, ma sempre quello».Tra il ’45 e il ’50 usciva periodicamente anche il catalogo delle novità editoriali, intitolato “Il libraio”; e Leo seppe trasformare anche quel semplice bollettino editoriale in un prodotto elegante e di alto livello.

Nel 1950 fondò il Borghese che fotografava, con l’ormai notoriamente audace, forse più disilluso, occhio critico la situazione dell’Italia dell’epoca. Riuscì ad essere, il Borghese, secondo l’ennesima calzante definizione montanelliana, «un’antologia di vita italiana» che seppe distinguersi dal qualunquismo per i suoi forti accenti polemici. Etichettato ingiustamente da molti come “nostalgico”, in realtà Longanesi, con il Borghese, inseguiva il suo progetto di sempre: utilizzare la stampa come una passerella dei vizi e delle virtù italiane. Era ciò che aveva sempre tentato di fare, anche in epoca fascista. Era la sua vera vocazione, descritta molto bene da Emilio Cecchi secondo il quale Leo «in un senso morale e culturale, fu una di quelle “sentinelle perdute”, di quei “disperati”, che, in certe epoche, servono intrepidamente da catalizzatori». Certo, in questi anni si accentuarono il pessimismo, il disprezzo per il conformismo, la costante nostalgia – in questo senso davvero tale – per le antiche virtù piccolo-borghesi delle “vecchie zie” di stampo ottocentesco, da contrapporre alla nuova e ricca borghesia ormai in voga. Non a caso nel 1953 Longanesi scriveva: «Le vecchie zie annusano l’aria e si rendono conto, esse sole, che qualcosa di grave sta accadendo sotto i loro occhi, qualcosa che riguarda noi uomini di mezza età, noi che non ci accorgiamo di nulla, perché leggiamo soltanto i giornali; e i giornali, da cinquant’anni, in Italia recano soltanto quelle verità a pagamento che sono gli annunci funebri. Il resto lo ignoriamo, il resto ci annoia. Solo il presente, solo la cronaca che muore ogni sera, come la gloria di Coppi, ci seduce. E il solo annuncio funebre che non appare mai sui giornali, fra due linee nere, la sola notizia seria, grave, severa è che la morale è morta e che viviamo senza accorgerci della sua assenza». Longanesi era nel pieno della sua battaglia intellettuale contro ogni forma di compromesso, di soffocamento della libertà. C’era ancora molto da dire e da fare, ma Leo Longanesi morì improvvisamente per un infarto a Milano il 27 settembre del 1957, nel suo ufficio, solo, tra i suoi sogni, i suoi progetti e le sue carte.

 

 


Maria Teresa Petti, bibliotecaria, studiosa di Letteratura contemporanea. Dirige la biblioteca della Fondazione Ideazione.

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