Dino Buzzati, un borghese grande grande

Racconto fantastico di una vita borghese
di Maria Teresa Petti
Ideazione di novembre-dicembre 2006

È il 29 gennaio del 1972 quando il Corriere della Sera titola in prima pagina: «È morto Buzzati». La terza pagina è il tributo di Indro Montanelli, Carlo Bo ed Eugenio Montale all’amico e collega che per gran parte della sua vita lavorò in quel giornale.

Dino era nato il 16 ottobre del 1906 a San Pellegrino, una località vicino Belluno, residenza estiva della sua famiglia. Era una agiata famiglia dell’alta borghesia: il padre di Dino, Giulio Cesare, era professore di Diritto internazionale all’Università di Pavia e alla Bocconi di Milano; sua madre proveniva dalla ricca aristocrazia veneziana. I Buzzati Traversa risiedevano durante l’inverno a Milano, nella centrale via San Marco, luogo cardine della vita di Dino: in quella zona la casa paterna, il liceo Parini che frequentò da studente e la redazione del Corriere della Sera, dove, come è noto, lavorerà per circa quarant’anni. Terzogenito di quattro figli, Dino ebbe un’infanzia borghese modello: Milano e San Pellegrino, la scuola e la montagna, la famiglia e i più cari amici. Questo fu l’imprinting della sua personalità. Per scoprire l’uomo in fieri val la pena di sfogliare le lettere scritte, a partire dal primo anno di liceo, da Dino ad Arturo Brambilla, suo migliore amico (raccolte in Lettere a Brambilla, De Agostini, Milano, 1985). Da questa corrispondenza, testimone di un’amicizia durata tutta la vita, ecco le parole che consentono un primo approccio al mondo buzzatiano. Eccovi i sogni e gli scoramenti di un adolescente, i desideri e le paure di un giovane uomo, ecco in nuce i temi-chiave della sua opera, ecco le metafore fondamentali della sua vita. Ne emerge un giovane fortemente timido ma fornito di grande ambizione; spesso in bilico tra la paura di sentirsi inadeguato rispetto alle aspettative altrui (e, soprattutto, proprie) e la grande ansia creativa. Ecco poi l’amore per le scalate in montagna (amore incondizionato) che diverrà un tema ricorrente nella sua espressione artistica, dalla pittura alla scrittura. Luogo concreto e magico allo stesso tempo, la montagna sarà presente nella sua opera e nella sua esistenza come rappresentazione della sfida, come brama di conquista della vetta, come massima espressione di libertà. Solo nell’ultima fase della sua vita, quando si ammalerà, le amate montagne che aveva saputo sognare, disegnare, descrivere ed eleggere a simbolo per eccellenza, mostreranno il loro lato oscuro, e Buzzati annoterà sul suo diario: «Di me lassù non è rimasto niente» e ancora «non siete più quelle di una volta, non mi incantate più […]».

Le Lettere a Brambilla fanno scorgere i sentimenti più profondi che si sgomitoleranno nella sua scrittura: il desiderio di sentirsi amato (smaniosamente onnipresente); l’avvertimento del tempo che scorre inesorabile; l’attesa costante dell’uomo fino all’incontro ineluttabile con la morte. E ancora, fanno scoprire l’idea buzzatiana della scrittura come rivalsa, come unica possibilità d’espressione, come possibile via di fuga dal reale; l’idea di scrittura come intreccio tra vero e verosimile, come contaminazione tra naturale e soprannaturale; e la ricerca nel fantastico di un rifugio, come alternativa al presente; e ancora la sofferenza, inevitabile compagna.

Dalle pagine di una corrispondenza che sembra un diario – tanta è la sincerità dell’amicizia, quasi una simbiosi – emergono le prime emozioni scolastiche e le scoperte letterarie. Vien fuori lo studente, poi il soldato (Buzzati partirà militare nel 1926) e sullo sfondo quella vena di romanticismo che contraddistingue sia l’uno che l’altro.

Ne viene fuori il ragazzo che nel 1928 invia una lettera di presentazione a Eugenio Balzan, allora direttore del Corriere della Sera e che, dopo sette mesi, viene assunto. E ne viene fuori il giovane aspirante giornalista, ambizioso ma pessimista, capace di grandi sogni di gloria e atroci buchi neri nello scontro col reale. Saranno anni duri per lui, soprattutto per la costante ansia creativa, dove il giornale è un luogo nel quale sente di non riuscire ad emergere né a tirar fuori il meglio di sé, e dove la scrittura è un diario, un’annotazione, una bozza, o forse un’idea da mettere a punto nell’insicurezza della realizzazione. Dino vive le sue forti emozioni tra lo scacco continuo del lavoro quotidiano e l’idea sempre incipiente del romanzo della sua vita, tra il porto sicuro della famiglia e della madre («era l’unica persona che veramente, se io facevo qualcosa, se avevo un piccolo successo, ne era felice. […] Questo è l’unico tipo di amore – per quello che conosco io – che veramente realizza in modo perenne (cioè senza squilibri) questa partecipazione meravigliosa, che è proprio l’amore del prossimo» dirà a Yves Panafieu, al quale ha concesso una lunga ed eloquente intervista nell’ultimo periodo della sua vita raccolta in Dino Buzzati: un autoritratto (Mondadori, Milano, 1973) e le tante passioni amorose che, come fuochi di paglia, accendono la quotidianità facendolo soffrire per la loro fugacità.

L’avventura in via Solferino procede: nel ’28 Buzzati si laurea e nel ’29 viene assunto definitivamente, passando attraverso un apprendistato duro, tra le grandi delusioni e il desiderio inarrestabile di diventare un buon giornalista.

Bisognerà aspettare il 1933 per vedere pubblicato dalle edizioni Treves-Treccani-Tumminelli Bàrnabo delle montagne, il suo primo romanzo, un libro nel quale cominciano a prendere forma i temi e i generi della sua scrittura: il mito della montagna attraverso il genere fantastico. Bàrnabo è un guardaboschi, innamorato della vita in montagna che, per una propria disattenzione che lo ha portato a non inseguire dei bracconieri, viene accusato di viltà, perde il lavoro ed è costretto a scendere in pianura rinunciando al mondo che ama, ai grandi silenzi, agli spazi, agli odori montani, e che vive sperando nel riscatto finale. Un romanzo intimistico e insieme emblematico, dal quale nel 1994 sarà tratto un film di Mario Brenta. Intanto prosegue la vita da cronista. Da quegli anni, infatti, e fino al ’39, Buzzati si occuperà di cronaca fascista per il Corriere.

Poi, nel ’35 sarà pubblicato, sempre per Treves-Treccani-Tumminelli, Il segreto del bosco vecchio, un racconto fantastico nel quale Buzzati darà vita a Sebastiano Procolo, un vecchio burbero che eredita un immenso bosco (il “bosco vecchio”, appunto) che ben presto svelerà il proprio lato magico: Buzzati darà consistenza reale e voce ai venti, ai geni degli alberi, agli uccelli, agli insetti. Ecco dunque agli esordi la letteratura fantastica di Buzzati: un fantastico che non è in contrapposizione con la realtà, ma sopraggiunge inaspettatamente nella vita dell’individuo. Un fantastico vicino al quotidiano, che si mescola con esso, fatto di piccole cose, di gesti consueti capaci di destare impensabili sorprese. Anche da questo romanzo sarà tratto un film nel 1993, con Paolo Villaggio nei panni del colonnello Procolo, per la regia di Ermanno Olmi.

Negli anni a seguire Buzzati pubblicherà molti racconti, in particolar modo su La Lettura, il supplemento letterario del Corriere della Sera. Ma il libro che aveva nel cuore da sempre sarà finito nel ’39 e dato alle stampe nel ’40, mentre Dino è in partenza per Addis Abeba come inviato del Corriere. Si tratta, ovviamente, del romanzo Il deserto dei Tartari, capolavoro dello scrittore bellunese. Ne è protagonista il soldato Giovanni Drogo, che trascorre tutta la sua vita nella solitaria Fortezza Bastiani in attesa della grande occasione che dia un significato alla monotonia del quotidiano e un senso finale all’esistenza. In lui si specchiano lo scrittore, il lettore e l’uomo – che ha l’ingrato compito di districarsi negli ingranaggi a volte incomprensibili della vita.

Mentre affida alla scrittura il senso dell’esistenza, Buzzati si trova dunque in Africa, in una condizione dapprima del tutto sconfortante, ma alla quale poi si adatterà, perfino con entusiasmo. Nel ’40 sarà imbarcato sull’incrociatore Fiume dal quale invierà articoli sui generis, nei quali emergono più che i fatti le persone, più i sogni e le paure che la guerra in sé. (Dirà Montanelli a tale proposito: «L’unico che riuscì a raccontare delle battaglie navali fu Buzzati. Ma perché? Perché Buzzati sfuggiva alla censura in quanto dai suoi racconti il povero censore – e in genere il censore era un cretino, perché solo un cretino si può mettere a fare il censore – non riusciva a capire in quale secolo, in quale mare si era svolta la battaglia che Buzzati raccontava. Buzzati infatti ne faceva una favola…»).

E ancora come corrispondente di guerra proseguirà fino al ’43, finché, sarà richiamato a Milano e continuerà a lavorare per il giornale, sebbene cambino man mano i direttori, i colleghi, le linee politiche. Continua a lavorare al Corriere e pensa ai suoi libri, alla sua voglia mai soddisfatta fino in fondo di vivere per creare. Nel ’45 una fiaba: La famosa invasione degli orsi in Sicilia, pubblicata a puntate sul Corriere dei Piccoli, in cui un esercito di orsi scende dalla montagna per combattere, e vincere, contro un esercito di esseri umani. E, accanto alle parole, ecco i disegni, e dunque quel connubio tra scrittura e arte figurativa che rimarrà centrale nella sua produzione artistica.

Nello stesso anno, mentre in Italia sta modificando drammaticamente lo scenario politico, il Corriere cambia nome (in Corriere della liberazione), linea politica e direzione. E Buzzati, sebbene tacciato da parte di alcuni di collaborazionismo, mantiene il suo posto. Ancora un nuovo nome (Il Nuovo Corriere), poi il quotidiano viene chiuso fino al 1946. Alla riapertura Buzzati riprenderà a lavorarvi come inviato, raccontando i fatti di cronaca più scottanti. Dal ’50 al ’63 sarà anche vicedirettore del settimanale Domenica del Corriere, riscuotendo un gran successo di pubblico.

Nel frattempo, siamo negli anni del difficile dopoguerra, Buzzati compone Paura alla Scala, che trasforma in letteratura la paura borghese della minaccia comunista. È il 1948 e l’invito a scrivere su quest’argomento gli arriva da Arrigo Benedetti, allora direttore dell’Europeo (sulle cui pagine lo scritto uscirà in quattro puntate), sulla scia dell’attentato a Togliatti. In questo racconto la Scala di Milano, luogo borghese per eccellenza, diviene oggetto di un possibile attacco da parte dei Morzi, immaginario gruppo di rivoluzionari. La scrittura diviene la chiave d’interpretazione del reale: il reale diviene un racconto fantastico ma, come sempre nell’opera buzzatiana, i due piani si intersecano e si sovrappongono.

Nel ’50 viene pubblicato per i tipi di Neri Pozza In quel preciso momento, una sorta di zibaldone, che trasforma in riflessioni i temi di sempre. Nel ’51 il Corriere pubblica la raccolta di racconti Il crollo della Baliverna. Gli anni ’50 sono anche gli anni dei testi teatrali, da Un caso clinico, rappresentato a Milano (ebbe gran successo anche a Parigi con l’adattamento di Albert Camus) a La fine del borghese.

E se da un lato questo è per Buzzati il periodo dei riconoscimenti (1954: premio Napoli per Il crollo della Baliverna, ex equo con Vincenzo Cardarelli per il suo Viaggio di un poeta in Russia; 1958: premio Strega per la raccolta Sessanta Racconti) e della notorietà, dall’altro non si arrestano la sua smania creativa e l’insoddisfazione della costante sfida con se stesso. Nel 1960 pubblica Egregio signore, siamo spiacenti di…: una raccolta di annotazioni, aforismi, riflessioni. È come se Buzzati togliesse il velo davanti al reale e spiegasse finalmente in cosa consista il vero destino dell’uomo.

Nel 1961 muore la madre, la donna alla quale era stato legato per tutta la vita. E con lei se ne vanno la spensieratezza dell’infanzia e la spregiudicatezza della gioventù.

È il 1963 quando viene dato alle stampe Un amore, il romanzo che fece scandalo per la sua disomogeneità rispetto ai temi trattati fino ad allora da Buzzati, nonché per la tematica in sé, considerata scabrosa. Un amore è la storia, velatamente autobiografica, di Antonio Dorigo, un architetto milanese che si innamora perdutamente di una ragazza squillo, e che diventa succube di questo amore a senso unico. Il suo sentimento infatti non è ricambiato e Dorigo sprofonda sempre più in un tunnel di umiliazione, dal quale non riesce ad uscire. Molti allora accusarono lo scrittore bellunese di aver tradito le proprie inclinazioni letterarie, molti non vi riconobbero l’autore di storie fantastiche che sembrò catapultarsi improvvisamente nella realtà. In verità, Buzzati amava dire che «tutti gli scrittori e gli artisti nella loro vita, per lunga che sia, dicono ciascuno una cosa sola! Chi con grande respiro, chi con esile fiato, ma sono sempre identici a se stessi» e lascia dunque intendere che la storia di Dorigo non è poi in totale antitesi con quella di Drogo nella Fortezza Bastiani. Per certi versi si tratta soltanto di un’altra faccia della stessa medaglia. Dirà Buzzati, ancora nell’intervista a Panafieu, a tale proposito: «In me è avvenuta un’inversione cronologica. Prima il tema morte, poi il tema vita-amore. Però si tratta di un’inversione solo apparente. I due temi ci sono sempre stati nei miei racconti. Sono strettamente uniti, relativi l’uno all’altro. Vita, morte, angoscia, mistero sono parole? In realtà si tratta sempre di un certo modo di sentire, desiderare, aspettare, voler vivere, e infine di essere delusi». Per quanto strano possa sembrare, arrivato a questo punto della propria espressione artistica, non è il genere letterario, non è il tema trattato e non è neppure la distinzione tra reale e fantastico ad interessare lo scrittore. Importante è offrire la chiave di lettura, che poi è la vera costante della sua scrittura. In effetti Buzzati ha sempre interpretato in modo molto personale il rapporto tra reale e fantastico intercalando i due piani fino a fonderli. Ha lavorato nello spazio che resta tra vero, verosimile e fantastico. Ha infiltrato il mistero nella quotidianità; ha trasformato il reale in una favola e viceversa. Dunque anche una storia così terrena e cruda come l’amore non corrisposto di un borghese per una prostituta può trovare il suo posto nel mondo buzzatiano: la speranza e l’attesa sono temi di sempre; ad essi si aggiunge, da adesso in poi, l’amore. Dino, l’uomo, sente di aver scoperto il vero amore e poiché per lui la scrittura è il suo modo di vivere, non fa altro che continuare ad essere se stesso scrivendo un romanzo che non avrebbe potuto non scrivere.

Nel 1963 muore l’amico Arturo Brambilla. Se ne va via con lui per sempre un’altra parte di Dino: le corse in bicicletta, le scalate in montagna, le fantasie adolescenziali. Di se stesso in quel momento, ancora nell’intervista a Panafieu, Buzzati dirà: «Io dopo la sua morte in un certo senso sono stato un sopravvissuto. In un certo senso sono subito diventato vecchio… sono diventato l’omino che va al cimitero, una sera di novembre».

Gli anni ’60 segnano successi professionali e personali. Buzzati si sposa nel ’66 con la giovane Almerina Antoniazzi, trovando l’agognato amore e la meritata serenità emozionale, continua a fare il giornalista con molto successo, e aumenta ancora la sua notorietà anche grazie ad adattamenti teatrali e cinematografici di sue opere. Sono anni di grande creatività. Nel ’66 pubblica Il Colombre e altri cinquanta racconti, nel ’69 Poema a fumetti. È un’opera importante quest’ultima, nella quale si fondono alcuni aspetti essenziali dell’arte buzzatiana. È una trasposizione in versione moderna e fumettistica del mito di Orfeo che va negli inferi a riprendersi la sua Euridice. I disegni e il testo si combinano in un percorso artistico inusuale. Buzzati affonda completamente negli ormai consueti temi dell’amore e della morte attraverso un intersecarsi innovativo di scrittura e disegno.

Nel 1968 viene stampata La boutique del mistero, antologia di suoi racconti. Nel 1971 Buzzati pubblica il suo ultimo libro, Le notti difficili: una raccolta di racconti ed elzeviri scelti da lui. È un po’ il suo testamento letterario, un libro amaro, una riflessione estrema sulla vita e sulla morte.

Il ’72 è l’anno della malattia e Dino Buzzati sa che ben presto giungerà al fatidico appuntamento. È ancora la scrittura ad accompagnarlo nell’ultimo viaggio. Le annotazioni sul suo diario ci parlano di un uomo consapevole del proprio destino «[…] Bene, il sottoscritto ancora qui presente ma per poco io credo, ha ricevuto l’avviso di partenza. […] E adesso! Non so se disperazione o paura, non sono le parole giuste. Piuttosto un sentirsi come abbandonato, solo come non era mai successo prima, e vedere in modo fortissimo la stupidità di tutte le cose che non siano un po’ di bene, un po’ di allegria e di amicizia».

Infine disegnerà una poltrona vuota, la sua.

 


Maria Teresa Petti, bibliotecaria, studiosa di Letteratura contemporanea. Dirige la biblioteca della Fondazione Ideazione.

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