Martin Heidegger, filosofia e retorica

L'essere e l'ineludibilità della retorica
di Vittorio Mathieu
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Heidegger si trovava di fronte alla definizione di metafisica data dagli storici hegeliani: “scienza dell’essere in quanto essere”. Gli scolastici lo avevano chiamato ipsum esse e identificato con il Dio della Bibbia. Anche Aristotele aveva chiamato quella che noi diciamo “metafisica”, oltre che filosofia prima, “teologia”. Ma di un simile oggetto si può parlare o ci si deve limitare a dire che non se ne può parlare (come aveva detto Plotino dell’Uno)? Osserva S. Agostino: «Non sarebbe Dio se tu lo conoscessi». E Wittgenstein: «Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere».

Di qui una “teologia negativa”, che si limita a dire come Dio non è (ad esempio limitato, variabile nel tempo, eccetera). All’inizio della sua carriera Heidegger sembrò destinato a insegnare teologia (cattolica) in questo senso. Ma il suo destino era un altro. Husserl, venuto dalle matematiche, da buon ebreo escludeva che fosse lecito farsi di Dio un’immagine sensibile, ma ci sono le matematiche che “vedono” la verità con altri occhi, e la vedono con certezza. Vedono quelle che la tradizione aveva chiamato “essenze”: non l’essere, ma modalità proprie dell’essere. Qualcosa di analogo, secondo Husserl, potrà fare anche una «filosofia come scienza rigorosa», accertando i rapporti tra modi dell’essere che si mostrano, non come dati sensibili, ma come «essenze eidetiche», chiare solo alla mente. Gli eide nel greco platonico sono “immagini”, ma per la Fenomenologia non immagini proiettate sul fondo della caverna. Esse si palesano alla mente dialogando, dunque nella “dialettica”.

Lasciando la teologia cattolica, Heidegger prese a lavorare e a pubblicare nella cerchia della scuola “fenomenologica”. Professore a Marburg, capitale del neokantismo, non poteva non fare i conti anche con Kant (e su ciò era solito insistere in particolare H. G. Gadamer), che aveva negato la dimostrabilità dell’esistenza di Dio (non certo il suo essere); e fece perfino i conti con l’oscuro modo di esprimersi di Duns Scoto. Ma di ciò non diremo. Per capire ciò che Heidegger dice di Aristotele ci fermeremo sulla sua abiura della fenomenologia in Sein und Zeit, che della fenomenologia è in certo modo il rovesciamento.

Husserl si staccava da un ambiente ancora pervaso di positivismo e gli opponeva la matematica: come la matematica non descrive una realtà empirica, così non la descrive la filosofia: essa descrive una realtà che si vede con gli occhi della mente, non del corpo. In questo vedeva giusto il Frege. Heidegger dirà però una cosa completamente diversa, in certo senso opposta: la filosofia non descrive affatto un mondo di essenze analogo al mondo dell’esperienza; rimanda indirettamente a un “altro”, a cui non è lecito attribuire una realtà simile a quella delle cose. Una dottrina corrispondente, nel realismo, alla fenomenologia di Husserl sarebbe semmai quella di Nicolai Hartmann, che andò a Berlino sulla cattedra offerta a Heidegger e da lui rifiutata. Heidegger coltivò un modo tutto diverso di staccarsi dal positivismo, nonché da Hegel, dallo stesso Kant e soprattutto dalla scolastica.

In Italia Heidegger fu studiato originariamente da Carlo Mazzantini, da giovanissimo sensibile a Nietzsche, poi neoscolastico e allontanatosi, grazie anche a Heidegger, dalla neoscolastica. Fu studiato da Nicola Abbagnano che ne riprodusse puntualmente la terminologia rovesciandone il senso (da esistenzialismo negativo in positivo). Fu poco o punto studiato nell’ambiente neohegeliano o idealistico, da cui Pareyson sfocerà nella gnosi attraverso l’ultimo Schelling. Lo storico De Ruggiero, seguace di Croce in politica ma di Gentile in filosofia, quando volle prolungare fino al Novecento la sua Storia della filosofia, si preoccupò della fama di nescio quid maius di un pensatore uscito dalla scuola fenomenologica, Martin Heidegger. Ma non ne dedusse la necessità di studiare il nescio quid maius, bensì di studiare Husserl e la fenomenologia: cosa che fece con risultati modesti. Infine Enzo Paci espresse il parere che Husserl fosse “più esistenzialista” di Heidegger.

Tutto ciò fece sì che in Italia si parlasse dell’esistenzialismo come di una branca della fenomenologia: ma la verità è che Heidegger deriva da Husserl per opposizione, come per opposizione deriva dal neokantismo e soprattutto (ex diametro) dalla neoscolastica. D’altro canto, prima che si fissasse definitivamente a Friburgo, Heidegger doveva pur essere chiamato qua e là da Facoltà filosofiche che avevano una fisionomia ben definita e desideravano conservarla. Inevitabile, quindi, che si facesse passare di volta in volta per neokantiano, per neohusserliano e, in prima battuta, con una caratteristica che in seguito avrà cura di occultare più di qualsiasi altra: di neoscolastico e neotomista.

Si può certamente parlare dell’essere: l’essere si disvela; ma non a guisa di un oggetto che si lasci descrivere. L’essere si disvela come appartenente agli enti, e questi non si lasciano rappresentare solo nella loro fattualità (che interessa le scienze empiriche), ma si lasciano anche interpretare nel loro reciproco corriferirsi e nel loro alludere con ciò a un fondamento. Come tali, questi enti esistono ma non sono l’essere: avvengono, divengono, mutano, nascono e muoiono. Enti per eccellenza di questo tipo sono gli uomini, la cui esistenza ha un fondamento ben diverso da quello dell’esserci di un minerale. Gli uomini esistono in società, più o meno primitive, e in esse “si realizzano” senza ridursi alla fattualità di una res. La loro esistenza, quindi, è una coesistenza, un Miteineinandersein, che non è solo un trovarsi accanto, ma manifesta quell’essere che, mentre non si mostra “ in sé”, si mostra nella coesistenza. Esso si mostra, però, restando al tempo stesso celato, secondo l’interpretazione che Heidegger dà della parola alétheia, o verità: disvelamento di un essere che rimane velato.

Dell’autenticità delle etimologie di Heidegger, o in generale delle sue interpretazioni del classico, i filologi hanno dubitato; e si è giunti perfino a scrivere un libro in proposito. Eppure la filologia di Heidegger è più autentica di quella di Giambattista Vico che, pure, faceva della filologia una delle due radici della verità. Anche a proposito di Aristotele certe interpretazioni heideggeriane possono essere riviste, ma ciò non diminuisce il loro valore, come non diminuisce quello di Vico il suo essere un neoplatonico che conosceva poco di Plotino.

Anche le traduzioni di Heidegger da Aristotele a volte sono parafrasi. Valga ad esempio il passo del De anima, 415 a 25: «L’operazione più naturale ai viventi sviluppati e non difettosi (che non nascano per generazione spontanea) è il produrre un altro simile a sé: l’animale è un animale, la pianta è una pianta, in modo da partecipare per quanto possibile al sempiterno e al divino». Segue nelle lezioni su Aristotele del 1924 il commento, che heideggerizza così: «Il mettere al mondo è una determinata modalità dell’essere, orientata secondo l’idea di fondo dell’essere che hanno i greci. Nel procreare un vivente generando un altro della stessa specie, il vivente trattiene se stesso nel proprio essere. La generazione è il modo in cui un vivente esiste per sempre, perché essere, per i greci, significa essere presente; e precisamente essere presente sempre. Risulta da ciò che partecipare del divino non significa trovarsi in un qualche rapporto religioso con Dio: il divino non ha a che fare con la religione, è una precisazione del concetto di essere come essere sempre. Tradurre “divino” con religiosità è pura invenzione».

Essere e Tempo
Heidegger è un filosofo decisamente originale in virtù della sua nuovissima ontologia, che si ripropone di parlare dell’essere parlando degli essenti: degli “enti” in senso forte, in cui l’Essere parla nel suo silenzio. I filosofi e, a loro modo, i poeti “ascoltano” questo silenzio dell’essere simmetricamente, come da due monti opposti. La vita degli esistenti per eccellenza, ossia degli uomini, è un divenire: un susseguirsi di “eventi”, di cui la storia rintraccia i legami. E il loro susseguirsi è il tempo, in cui troviamo l’essere negli eventi. L’essere “eventuale” può essere così, ma potrebbe anche essere altrimenti o non essere affatto. Quella che Heidegger chiama “possibilità” è possibilità di essere, o possibilità del sì, ma sempre anche del no: di non essere quello che si è, o anche di non essere affatto. E, questo, non alla fine dell’esistenza, ma lungo tutto il suo corso: fin dalla nascita l’esistenza è un «essere per la morte».

Se perciò il discorso (il parlare, o logos, che è anche ragione) è la possibilità autentica dell’esistenza, lo stesso parlare è anche la possibilità in cui l’esistenza s’imbroglia, per una tendenza sua propria a trapassare nell’immediato, nella moda, nella chiacchiera, lasciandosene guidare. Insieme con la faccia positiva, la possibilità heideggeriana – che non è un poter fare bensì un poter essere – ha dunque sempre anche una faccia negativa. Ogni valore è possibilità del corrispondente disvalore. E questo è il tempo, nel quale soltanto troviamo l’essere. In Essere e tempo Heidegger analizza la temporalità in funzione di una ontologia così definita, e promette una seconda parte, in cui parlerà effettivamente dell’essere; ma poi non la scrive, perché sa che dell’essere si può parlare solo a proposito dell’evento: non è un oggetto di cui si possa parlare direttamente.

Ciò detto capiamo il modo in cui Heidegger tratta la Retorica aristotelica, affermando (in parte contro lo stesso Aristotele) che la retorica non è una conoscenza, non ha un tema o un oggetto, e non è una tecnica da imparare (come pensavano i sofisti). Tra tutti gli appunti di lezione che costituiscono l’opera di Aristotele, gli appunti sulla retorica hanno per Heidegger un privilegio perché non hanno un oggetto, ma si riferiscono al modo di coesistere degli uomini, e a un (triplice) modo di parlarsi. «La determinazione fondamentale dell’essere stesso dell’uomo è il coesistere. E tale coesistere ha la sua possibilità fondamentale nel parlare, e precisamente nel colloquiare: parlare come esprimersi parlando di qualcosa. Né il logos entra in funzione solo in questa determinazione fondamentale, bensì anche quando Aristotele si interroga, appunto, sulle possibili aretaì. L’indagine in proposito si articola in base alla ricerca che Aristotele stesso conduce intorno all’essere dotati di ragione».

Per raggiungere il suo scopo il retore deve però avere certe doti: una sufficiente (mai perfetta) conoscenza dei fatti, delle norme, delle consuetudini; una adesione sincera alla verità; una capacità di presentarla in una forma bene accetta agli uditori. Come sempre, tali doti possono rovesciarsi nel loro contrario, che l’Accademia platonica e il Liceo aristotelico identificano con la sofistica. I canoni della retorica buona (che ancora il Manzoni opporrà alla cattiva nella prefazione ai Promessi Sposi) erano stati indicati da Platone nel Fedro, e come tali sono ricordati ancora ai giorni nostri dallo storico della retorica umanistica Quentin Skinner. Ma l’Occidente oggi comincia appena a recuperare il senso autentico della retorica, che in età romantica era andato perduto in quell’“eloquenza” a cui Verlaine raccomandava di «torcere il collo». E dalla mistificazione della retorica viene anche una mistificazione della dialettica, del parlare in comune, del dialogo (tra sordi) venuto di moda nel secondo Novecento.

Ciò fu avvertito da Heidegger già negli appunti di lezione su Aristotele: «La retorica attuale è un ostacolo alla comprensione della logica aristotelica. Nell’edizione dell’Accademia di Berlino la Retorica è stata collocata al fondo. Non si sapeva che farsene, dunque mettiamola alla fine: dimostrazione di totale incapacità. Da tempo la tradizione ha cessato di capire la retorica, divenuta una semplice disciplina di scuola già nel periodo ellenistico e nel primo medioevo. Da tempo il senso originario della retorica era andato perduto».

Parlandosi, gli uomini costituiscono il loro vivere insieme, la loro coesistenza, in cui può rivelarsi autenticamente l’esistenza. Può anche rivelarsi inautenticamente, per l’ambivalenza di cui si è detto. Però parlando di Aristotele Heidegger insiste sul lato positivo della possibilità, mentre in Sein und Zeit ne mostrerà mirabilmente il lato negativo del parlare, che è la chiacchiera: il Geschwätz o Plauderei, il bavardage. Oggi le nostre società sono talmente immerse nella chiacchiera che dovremmo essere grati a Heidegger per avercene disvelato il fondamento “ontologico”.

La convivenza umana è “sociale” (per tradizione platonico-aristotelica), quindi l’ontologia di Heidegger è tutta rivolta alla società. Ciò non significa che sia socialista, neppure nel senso del nazionalsocialismo. Può darsi che per un momento Heidegger si sia illuso che alcune delle categorie sociali (disparatissime) al seguito di Hitler capissero la sua filosofia; ma sappiamo anche – nonostante le ignobili speculazioni in proposito – che, al contrario, tutti coloro che seguivano Hitler furono perfettamente consci che Heidegger era incompatibile con il nazismo. In comune c’era solo il rifiuto dell’ebraismo: ma questo rifiuto era talmente diffuso, a oriente del Reno, da non significare nulla. In Heidegger era rifiuto di Husserl, in funzione della impossibilità (essa stessa paleotestamentaria) di dare a Dio un’immagine.

Sostanzialmente fedele ad Aristotele, la teoria heideggeriana della retorica lo è per lo meno nel problema. La retorica non ha un oggetto da studiare, bensì uno scopo: persuadere parlando, principalmente nella vita politica, in vista delle deliberazioni; secondariamente in tribunale, in vista del giudizio su ciò che è avvenuto; in terzo luogo nelle solennità, come retorica encomiastica (o, sotto la faccia negativa, accusativa e deprecatoria: filippiche e catilinarie).

Ciò è identificato da Heidegger con il prendersi cura delle cose: «Ogni curarsi è in sé un andare in cerca, un tendere a qualcosa: a un bene che c’è sempre come pronunziato. Tale andare in cerca porge orecchio a ciò che viene detto: alla presentazione di che cosa e come vada cercato. Vediamo più chiaramente che la vita che si prende cura, e che implica il parlare, parla in modo da ascoltarsi. La “vita pratica con ragione” parla in modo da ascoltarsi. Quando non sia parlare genuino, Aristotele lo qualifica come àlogon, irrazionale. Ciò non significa che manchi di ogni riferimento al parlare, ma che non si riferisce ad esso nel modo migliore».

Rimane l’equivoco Nietzsche. Heidegger stesso si serve a tutto spiano di Nietzsche, per mettere in luce la faccia negativa dell’“essere eventuale”. Anche in Italia Abbagnano insisté molto sulla figura di Nietzsche, come prototipo del fallimento esistenziale. Dopo la guerra ci si liberò da un Heidegger nazificato con la nietzschemania, che spesso raggiunse parossismi ridicoli (come quando si riesumarono le composizioni musicali di un autore che, peraltro, è uno dei massimi scrittori di lingua tedesca). A scorno di questa mania – diffusa in Italia come in Francia e in America – conviene ricordare l’opera sarcastica di Anacleto Verrecchia.

Dire l’Essere ascoltando il silenzio
La fortuna di Heidegger in Italia si lega, attraverso Nietzsche, al nichilismo: nulla è, tutto non è. Nel prospettare la possibilità negativa che l’“essere” rappresenta, rispetto agli enti; Heidegger aveva mostrato che la nostra età – età tecnologica – porta inevitabilmente al nichilismo, perché confonde l’esistente con il “dato” e il vero con un rapporto estrinseco tra dati. Il neopositivismo, in altre parole, è l’esito nichilistico del “ballo Excelsior” positivistico. Nietzsche era partito dal nichilismo (che Eraclito formulò in un frammento icastico: «come spazzatura gettata a caso il più bello dei mondi») e lo aveva negato con la cosiddetta «volontà di potenza», che meglio sarebbe tradurre «volontà di valore»: non esistono le idee platoniche come valori riconoscibili in sé, ma esiste il valore quando la volontà lo vuole. Il valore dunque è artificiale e la civiltà della tecnica si propone precisamente di farlo: dunque non può che sfociare nel nulla.

Severino, riprendendo Heidegger, proclama il nichilismo come conseguenza inevitabile quando si pensi il divenire in quanto passaggio dall’essere al non essere o viceversa. Il divenire dunque sarebbe, non è solo in ciascun punto un essere per la morte, come per Heidegger, ma è l’essere della morte. L’essere del nulla. Non si afferma per questo che l’apparenza del divenire in realtà non sia: se non fosse non se ne parlerebbe, perché non si può dire il non essere, come non si può dire l’essere. L’apparenza certamente è ma non nella forma in cui ne parla l’empirismo, come passaggio di una qualità dal non essere all’essere o viceversa. Questo modo di “salvare l’apparenza” mostrai molto tempo fa che è tipico dell’idealista inglese F. H. Bradley , che erroneamente viene classificato come “neohegeliano”.

Impostando al modo di Bradley il rapporto tra Apparenza e realtà (1896), cioè mostrando che l’apparenza ci sembra interamente fatta di relazioni, ma che il tutto di un insieme di relazioni può non essere affatto relazionale e relativo (lo mostra in modo esemplare un brano di buona musica) si sfugge al relativismo e al nichilismo. Ma per questo non si deve tornare a Parmenide (e continuare a dire «l’essere è il non essere non è né si può dire»). Occorre, con Platone, «uccidere il padre» Parmenide e affermare che, in qualche modo, il non essere si può dire. Lo si può dire heideggerianamente parlando degli enti, e “ascoltando il silenzio”.

In questa direzione si possono utilizzare le considerazioni heideggeriane sulla retorica, cioè sull’arte di comunicare la verità parlando di ciò di cui si può parlare, cioè degli enti, delle cose, dei rapporti, ma guardando silenziosamente all’essere, sia dal monte della filosofia, sia in forma poetica.

Io aggiungerei: anche in forma scientifica, purché non si dimentichi che la scienza costruisce rapporti o relazioni tra dati di cui non penetra la natura ontologica. In altre parole: esiste una retorica anche della scienza; e non esistono senza retorica neppure le matematiche. Dei giochi linguistici del formalismo siamo costretti a parlare con discorsi del linguaggio comune, dunque con discorsi retorici. Tutte le operazioni formali sono rappresentabili solo con metafore, a cominciare dalle operazioni aritmetiche (divisione, sottrazione, elevazione a potenza, eccetera). Lo stesso comportamento di una macchina di Turing o “macchina di decisione” – che su ogni casella di un nastro incide uno di due segni, 0 e 1, o la lascia bianca per raggruppare un certo numero di segni “insieme” – è descrivibile solo retoricamente con immagini metaforiche come “prima”, “dopo”, “sopra”, “sotto”, eccetera. Il “rigore” di una dimostrazione (esso stesso una metafora) senza una “dimensione in più” rispetto a tutto ciò che è relazione diverrebbe rigor mortis e la tecnica sfocerebbe nel nulla. Al nichilismo della scienza nella nostra età si teme che finisca col collegarsi un nichilismo della vita associata. Ciò spiega che concordino nel parlare di questo pericolo un filosofo della scienza come Marcello Pera e un teologo come Joseph Ratzinger. Per costruire rapporti che non crollino e minaccino di cadere nel nulla occorre parlare anche intorno ai rapporti: non con la chiacchiera ma con la retorica in senso buono.

Logos e dialogo
Per la nozione del coesistere nella polis come “parlare insieme” conviene rifarsi, anziché a Parmenide e a Nietzsche, a Eraclito. Contro Parmenide, Eraclito è il massimo rappresentante tra i cosiddetti presocratici di un essere precisamente eventuale, non afferrabile come “essere di per sé”, bensì solo nell’evento o nel divenire. Egli lo chiama precisamente logos, o discorso; ma discorso che dice senza dire: che non afferma né nega, bensì semaìnei, allude, come i discorsi della Pizia. Il logos è un accordo che si coglie solo sotto il disaccordo, quale si manifesta nel parlare comune come discussione. E le testimonianze ci ricordano che Eraclito sdegnava di parlare con i suoi concittadini; e che, richiesto del perché tacesse, avrebbe risposto «perché voi parlate». Nel linguaggio oggi di moda possiamo dire che per ragionare insieme, non meno politicamente che scientificamente, occorre conversare, colloquiare, discutere, ma non “dialogare” con la presunzione che un dialogo privo di principi comuni sia capace di annullare la distinzione tra il logos come “discorso” e il logos eracliteo come «fulmine che tutto timoneggia».

Per contro colui che in Italia si accorse per primo della grandezza di Heidegger, Carlo Mazzantini, fu accusato dal collega Abbagnano di vedere nel logos di Eraclito l’ipsum esse degli scolastici cattolici. Mazzantini era bensì passato di lì, ma appunto Heidegger lo aveva tratto fuori, tanto da fargli dire che per parlare opportunamente di Dio occorre essere al tempo stesso teisti, politeisti e atei. Essere cristiani, egli diceva, significa capire i greci; e aggiungeva che se, per assurdo, fosse stato necessario obliarli, non si sarebbe professato cristiano bensì ellenico. A distanza di molti decenni da quei dibattiti di Torino (città che riuniva in sé la Germania antiprussiana di Nietzsche, la Toscana emigrata in Argentina di Mazzantini e la Magna Grecia di Abbagnano), le lezioni di Heidegger sulla retorica ci portano alla situazione politica attuale, col suo parlare a vuoto: faccia negativa di una faccia positiva spesso invocata come “dialogo”. Heidegger chiama la faccia positiva Mitsprechen e la fonda su una ragione come fondamento (Grund) invisibile del visibile. Le sue parole non ci danno che qualche speranza e forse ci tolgono qualche illusione, ma ci consolano degli aspetti funesti che sembra assumere a volte, per noi, la Zeitlichkeit o temporalità.

 


Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei, presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione.

(c) Ideazione.com (2006)
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