Martin Heidegger, filosofia e retorica

Heidegger, Vico e la "sapienza poetica"
di Paola Liberace
Ideazione di gennaio-febbraio 2007

Qual è il rapporto tra la retorica e il pensiero di Martin Heidegger? Per rispondere a questa domanda possiamo dirigerci almeno in due direzioni. La prima è indicata dalle lezioni che Heidegger tenne negli anni Venti, caratterizzati da un profondo interesse speculativo e didattico per la filosofia aristotelica: in particolare, il seminario di Marburgo sulla “Retorica”, risalente al semestre estivo del 19241. La seconda direzione passa per l’elaborazione originale del suo pensiero che vive altrettanto della peculiarità espositiva – tanto scritta quanto orale – che della propria profondità intrinseca. La retorica in Heidegger e la retorica di Heidegger: i due poli tra i quali ci si muove sono distinti, ma non irrelati; e la traccia che dall’uno conduce all’altro è nutrita dalle testimonianze degli allievi di Heidegger, che riferiscono della sua abilità didattica almeno quanto della cogenza del suo filosofare. Tra gli studenti che nel ’24 erano accorsi ad ascoltare il filosofo, da poco chiamato a Marburgo – nella stessa università di Nicolai Hartmann e di Rudolf Bultmann2 – erano presenti, tra gli altri, Hans Georg Gadamer e Hannah Arendt. Proprio a Gadamer si devono i ricordi più penetranti del periodo marburghese, culminato poi con la pubblicazione di Sein und Zeit3.

All’epoca il percorso heideggeriano, ancora interno alla fenomenologia, si muoveva già verso nuovi lidi: ancora Gadamer riconosce che Heidegger costruiva davanti ai suoi studenti, lezione dopo lezione, il proprio progetto filosofico, alternativo non solo rispetto a Husserl, ma allo stesso Aristotele. Non a caso, dunque, Gadamer figura in posizione privilegiata nell’antologia di interviste curata da Antonio Gnoli e Franco Volpi, emblematicamente intitolata L’ultimo sciamano. Conversazioni con Heidegger. Oltre a quella dell’allievo eccellente, il libro propone le voci del figlio Hermann, curatore dell’edizione completa dei suoi scritti; di Ernst Jünger, che incontrò più volte Heidegger in particolare dopo la guerra; dello storico Ernst Nolte, che per qualche tempo frequentò le lezioni del filosofo. Un discorso a parte merita l’ultima intervista, quella ad Armin Möhler, allievo di Carl Schmitt, che non conobbe direttamente Heidegger ma fu amico tra gli altri di Jünger e di Kojève, ed ebbe l’occasione di studiare con Karl Jaspers.

Delle due direzioni sopra descritte, Gnoli e Volpi scelgono quindi di esplorare la seconda: quella che, attraverso la testimonianza viva di chi ha avuto l’opportunità di ascoltare il pensiero heideggeriano e vivere la sua epoca, conduce a ricostruire una personalità affascinante, caratterizzata da un eloquio irresistibile. La nota rievocazione tratta dalle memorie di Karl Löwith introduce la figura di Heidegger in tutta la sua potenza ammaliatrice: «Heidegger era soprannominato “il mago di Meßkirch”... Era un piccolo grande uomo misterioso, un sapiente incantatore, capace di far sparire dinanzi agli astanti quel che aveva appena mostrato»4. A rigore, le parole di Löwith sembrerebbero escludere pressoché ogni relazione tra l’incantesimo heideggeriano e l’abilità retorica: «Nelle sue lezioni parlava senza gesticolare e senza effetti retorici, concentrando lo sguardo sui fogli manoscritti che teneva davanti a sé. L’unico espediente retorico era un’accorta sobrietà e una freddezza espositiva, nonché la calcolata tensione che egli conferiva allo svolgimento rigoroso delle sue tesi»5. In queste parole riecheggia una tradizionale diffidenza, sedimentata nel linguaggio comune, in base alla quale l’aggettivo “retorico” evoca una calcolata finzione: così, Löwith oppone la “sapienza” dell’incantatore agli “espedienti” del mestiere. L’associazione della retorica con l’inganno, la sua identificazione con la non-verità, appartengono a una linea interpretativa di stampo razionalista: la retorica, scissa dalla sapienza, è imparentata con l’artificio, velato di un riflesso fraudolento.

Nella storia della retorica esiste d’altro canto una linea opposta al filone critico riflesso nelle parole di Löwith: un’interpretazione che definisce le strutture retoriche come necessità del pensiero, non soltanto della parola. Prima ancora della novecentesca rivalutazione della disciplina, un grande filosofo italiano aveva posto una pietra miliare lungo il percorso di ridiscussione del pregiudizio antiretorico: Giambattista Vico ha, tra gli altri meriti, quello di aver restituito le figure retoriche a una dimensione intrinseca alla natura del linguaggio, e non frutto della sua perversione. Per Vico – che insegnò Retorica all’Università di Napoli dal 1699 al 1741 – i tropi sono gli strumenti attraverso cui l’uomo si accosta al mondo, lo interpreta, lo elabora in categorie poetiche che precedono storicamente e fenomenologicamente quelle logiche6. Protagonisti di quest’operazione di comprensione del reale non sono eruditi subdoli, pronti a utilizzare le costruzioni retoriche per abbindolare le masse, ma uomini ignoranti e curiosi. Caposaldo della “Scienza nuova” vichiana è infatti il rovesciamento delle ipotesi “addottrinate” sull’origine del linguaggio, in particolare sulla valenza della poesia, che va di pari passo con il ribaltamento dell’immagine “colta” dei primordi dell’umanità7. Nella ricostruzione vichiana i protagonisti dello stato di natura, incapaci di pensare razionalmente, racchiudono in sé le caratteristiche dei poeti – inventori dei miti, rozze raffigurazioni degli eventi naturali e storici –, dei re – i primi a offrire protezione dalle oscure forze naturali, dapprima alle famiglie, poi ai deboli accorsi sotto la loro tutela – e dei sacerdoti – mediatori con le divinità, nate dalla loro stessa fantasia poetica per rendere concepibili i primitivi terrori e pudori.

Poeti e sacerdoti non sono impostori: profeti di una realtà fittizia, che dispiegano il velo della parola ornata o della ieraticità rituale per plagiare i profani secondo i loro intenti; ma essi stessi sono creatori e seguaci di una verità superiore persino all’evidenza8. Le parole di Vico riconducono a Heidegger – non tanto per suggerire un accostamento tra i due pensatori nel nome della retorica (già autorevolmente tenta-to9: ma più pertinente alla retorica in Heidegger che di Heidegger), quanto per meglio penetrare, con l’aiuto della teoria vichiana, la figura dello Heidegger “sciamano”. Nelle interviste raccolte da Gnoli e Volpi ritorna l’enfasi sull’atmosfera creata da Heidegger a lezione: non è un caso che tanto Löwith e Jünger quanto Gadamer e Nolte per descriverla facciano riferimento alla magia. Nolte si sofferma sulla «potenza ammaliatrice che le sue parole esercitavano sugli ascoltatori»10, e riporta l’esclamazione del fisico con Weiszäcker, dapprima allievo di Heidegger: «Non capisco neanche una parola, ma questa è filosofia!». La battuta sembrerebbe smentire la distinzione tracciata da Hermann Heidegger tra l’oscurità dei testi heideggeriani e l’entusiasmo suscitato dalle sue lezioni: come ha ricordato altrove Gadamer, gli studenti del seminario di Marburgo erano di frequente assaliti dal dubbio se l’argomento delle lezioni fosse il pensiero aristotelico o non piuttosto quello dello stesso Heidegger. Probabilmente il talento didattico di Heidegger, più che sull’efficacia nel chiarificare argomenti complessi, si fondava su un coinvolgimento irresistibile: Nolte riferisce la sensazione di assistere a un evento, Gadamer lo chiama “spettacolo della natura”. Quali riti metteva in opera Heidegger per sortire la sua fascinazione? Il suo sguardo implacabile, che secondo Nolte «sembrava avesse la forza di leggerti dentro», è ormai un topos; Jünger ricorda i «lunghi silenzi» con i quali il filosofo intervallava le domande «elementari ma essenziali», e parla di una «forza magnetica» del pensiero, dell’«evidenza stringente di un interrogare che attrae e convince l’interlocutore»11.

Ancora una volta, una notazione essenziale proviene però dalla sensibilità di Gadamer, impressionato dai tentativi heideggeriani «di trovare un vocabolo filosofico nuovo per cogliere il senso dell’esistenza umana»12. Cesure mirate, procedere interrogativo, e soprattutto la logopoiesi, fulcro del filosofare di Heidegger: definirli “strumenti retorici” è possibile, se con questa espressione non intendiamo “effetti” o “espedienti” dai riflessi ingannevoli, ma possibili vie per l’espressione di un pensiero del tutto innovativo. In questo senso è utile ricorrere alla teoria vichiana, nella quale i tropi sono il percorso indispensabile per la nascita delle parole e quindi come delle idee. Le figure del linguaggio e del pensiero appaiono così mezzi imprescindibili per lo “sciamano” Heidegger, che come i primi poeti teologi si trova di fonte all’esigenza di inaugurare una visione della realtà e dell’uomo al suo inizio. Attraverso la lente vichiana, la retorica di Heidegger acquista una relazione insospettata con l’aspetto “magico” della sua personalità filosofica: a condizione di insistere sul carattere non aleatorio della sua fictio linguistica. La sapienza “da incantatore” è in fondo una “sapienza poetica”13, creatrice per necessità e non per esercizio fine a se stesso. L’escogitazione di vocaboli inauditi, se accostata alla mitopoiesi vichiana, appare tutt’altro che un miscuglio di giochi di parole: Heidegger che, ancora nelle parole di Löwith, costruiva «un edificio concettuale che poi lui stesso demoliva»14, non è un pifferaio magico che si diverte a confondere gli allievi, ma un sacerdote della poiesis, che evoca e mostra, con parole e silenzi mai ascoltati prima, il percorso di un nuovo pensiero.

Note
1.       M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie (Sommersemester 1924), hrsg. von M. Michalski, Klostermann, Frankfurt a.M. 1918 (d’ora in poi GA18).
2.       Cfr. R. Safranski, Ein Meister aus Deutschland – Heidegger und seine Zeit, Fischer, Frankfurt a. M., 1998, pp. 152 sgg.
3.       Gadamer è tornato più volte sull’argomento della personalità di Heidegger e del rapporto con lui intrattenuto, nelle numerose interviste e dichiarazioni degli ultimi anni della sua vita. In una delle interviste concesse alla rai, Gadamer riferisce tra l’altro come Heidegger tentasse di persuadere lo stesso Husserl che Aristotele potesse essere considerato un fenomenologo a tutti gli effetti. Come le altre rilasciate dal filosofo per l’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, l’intervista è disponibile in rete (www.emsf.rai.it/gadamer/interviste/27_ermeneutica/ermeneutica.htm).
4.       L’ultimo sciamano – Conversazioni con Heidegger, a cura di A. Gnoli e F. Volpi, Bompiani, Milano 2006, p. 7.
5.       Ibidem.
6.       Non a caso tra i maggiori studiosi di Vico, tanto in Italia quanto all’estero, figurano esperti di retorica e linguistica che hanno ampiamente esplorato l’importanza dei tropi nella filosofia vichiana. Basterà citare gli scritti di Andrea Battistini (La degnità della retorica: studi su G.B. Vico, Pacini, Pisa 1975; La sapienza retorica di G.B. Vico, Guerini e associati, Milano 1995; Introduzione a G.B. Vico, Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano 1990, pp. XI-XXXI; e con E. Raimondi Le figure della retorica – una storia letteraria italiana, Einaudi, Torino 1990); il saggio di M. Mooney, Vico in the tradition of rhetoric, tr. it. di G. De Michele Vico nella tradizione della retorica, Il Mulino, Bologna 1991; e i contributi di T. De Mauro (pp. 279-295) e G. Dorfles (pp.577-591) negli atti di G.B. Vico: an international symposium, edited by G. Tagliacozzo, The John Hopkins University Press, Baltimore and London 1969. Sulla relazione tra figure retoriche, favole mitologiche e categorie logico-poetiche in Vico cfr. P. Liberace, “Il problema estetico-linguistico in G.B. Vico”, in Atti del convegno “Vico tra l’Italia e la Francia” – 1998, a cura di M. Sanna e A. Stile, Guida, Napoli 2000 (“Studi Vichiani”, n° 31).
7.       Cfr. soprattutto la sezione denominata “Logica poetica”: «Per tutto ciò si è dimostrato che tutti i tropi [...] i quali si sono finora creduti ingegnosi ritrovati degli scrittori, sono stati necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natìa proprietà [...] E qui s’incomincian a convelleter que’ due comuni errori de’ gramatici: che ‘l parlare de’ prosatori è proprio, improprio quello de’ poeti; e che prima fu il parlare da prosa, dopo del verso» (G.B. Vico, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, in Opere, op. cit., p. 591).
8.       «Talché, se bene vi si rifletta, il vero poetico è un vero metafisico, a petto del quale il vero fisico, che non vi si conforma, deve tenersi a luogo di falso» (G.B. Vico, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, in Opere, op. cit., p. 513). Secondo Vico i sacerdoti-poeti-re non spacciano storielle false a scopo edificante, ma credono loro stessi alle storie che inventano: «In tal guisa, i primi poeti teologi si finsero la prima favola divina, la più grande di quante mai se ne finsero appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dei, ed in atto di fulminante: sì popolare, sì perturbante ed insegnativa ch’essi stessi, che sel finsero, sel credettero, e con ispaventose religioni [....] il temettero, il riverirono e l’osservarono” (G.B. Vico, Princìpi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, in Opere, op. cit., p. 572-573).
9.       Si deve a un altro celebre allievo di Heidegger, Ernesto Grassi, la proposta di una simile chiave di lettura: cfr. E. Grassi, Vico and humanism, tr. it. Vico e l’umanesimo, Guerini e associati, Milano 1992. La preminenza della parola poetica, secondo Grassi – che cerca in Vico un punto d’incontro tra l’heideggerismo e l’umanesimo – avvicinerebbe il pensiero vichiano a quello heideggeriano nel comune rigetto della parola razionale, chiusa all’ambito in cui sorge la realtà umana. Più di recente l’incontro tra Vico e Heidegger è stato proposto da P. Carravetta, “Reflections on Rhetorics and Hermeneutics in Vico and Heidegger”, in All’ombra di Vico. Testimonianze e saggi vichiani in ricordo di Giorgio Tagliacozzo, a cura di F. Ratto, Sestante, Acquaviva Picena 1997, pp. 211-222.
10.       L’ultimo sciamano – Conversazioni con Heidegger, a cura di A. Gnoli e F. Volpi, Bompiani, Milano 2006, p. 99.
11.       Idem, pp. 47-48.
12.       Idem, p. 67.
13.       La “sapienza poetica”, che dà il titolo al secondo libro della Scienza nuova vichiana, è una sapienza “volgare”, naif e irriflessa, opposta alla sapienza “riposta”, frutto di meditata dottrina, dei filosofi e dei metafisici. Per Vico non c’è peggior errore che trascurare la distanza di condizione e di mentalità tra i primi uomini e i loro tardi interpreti; l’effetto più evidente di questo fraintendimento è l’attribuzione di significati allegorici alle favole mitologiche, che raccontano invece – in forma poetica – verità fisiche e storiche.

14.       L’ultimo sciamano. Conversazioni con Heidegger, a cura di A. Gnoli e F. Volpi, Bompiani, Milano 2006, p. 7.

 


Paola Liberace, giornalista, è direttore generale della Fondazione Ideazione.

(c) Ideazione.com (2006)
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