Leo Longanesi, l'italiano contro

La via italiana al libertarismo
di Luciano Lanna
Ideazione di marzo-aprile 2007

«Eravamo molto fascisti», ha annotato il giornalista toscano Paolo Cesarini ricordando in un bellissimo libro scritto in prima persona – Italiani cacciate il tiranno, ovvero Maccari e dintorni – l’epopea della sua generazione: quella degli “strapaesani”. Sul finire degli anni Venti del Novecento, erano infatti tanti i ventenni che si riconoscevano nelle pagine del Selvaggio, la rivista diretta da Mino Maccari, che dal 1924 al ’42 diede anima e forma al movimento di Strapaese. Il Selvaggio era nato a Colle Val d’Elsa, nella campagna senese, il 13 luglio 1924, un mese dopo l’uccisione di Matteotti: proprio mentre in molti stracciavano la tessera del partito di Mussolini, questi giovanissimi tornavano all’attacco e reclamavano la loro rivoluzione generazionale. Dalla campagna toscana, dove veniva creato quel fogliaccio (“battagliero fascista”, si leggeva sotto la testata che era contrassegnata da due motti: “marciare, non marcire” e “né speranza, né paura”) si rilanciavano le parole d’ordine diciannoviste, quelle dei fasci della fondazione milanese a piazza San Sepolcro. «Un fascismo anarchico» lo definì Indro Montanelli. «Un fascismo libertario», secondo Giano Accame, per il quale anche se si tratta di una «occasione mancata», si tratta comunque di una potenzialità ideale, di un atteggiamento esistenziale che, al di là della sua concretizzazione storica, è però presente nell’immaginario della cultura italiana come di ciò «che avrebbe potuto essere il fascismo in versione libertaria».

«Eravamo – ha appunto spiegato Cesarini per dare il senso di quella temperie – molto fascisti. Romano Bilenchi aveva addirittura la tessera, invidiatissima, del 1922, di quando aveva appena tredici anni, io credo del ’26 o ’27. Ci consideravamo anzi esemplarmente fascisti soprattutto perché, secondo noi, le gerarchie tradivano la rivoluzione». Dei futuri sodali di questa pattuglia generazionale, l’unico, allora davvero troppo piccolo, che non riuscì a far proprio fino in fondo questo clima, fu forse solo il giovane pescarese Ennio Flaiano. E comunque nell’Antipatico 1960, l’almanacco che pubblicava l’editore Vallecchi, il futuro sceneggiatore del film La dolce vita pubblicherà una sua poesia per rievocare le passioni d’inizio secolo del suo amico Maccari e della “sua” generazione:

«Mino, ricordi la Marcia su Roma? / Io avevo dodici anni, tu ventuno. / Io in collegio tornavo e tu a Roma / guidavi la squadraccia dei Trentuno. / Mino, ricordi? Alle porte di Roma /ci salutammo. / Avevi il gagliardetto / il teschio bianco, il pugnale tra i denti. / Io m’ero tolto entusiasta il berretto / ricordi? Tu eri perfetto / nella divisa di bel capitano. / Io salutavo agitando il berretto. / Tu andavi a Roma, io andavo a Milano».

Tra questa generazione di intellettuali c’era, indubbiamente, Leo Longanesi. Negli anni Trenta davanti al Caffè Aragno di Roma il giovane di Bagnacavallo teneva banco lì, insieme a quella pattuglia di intellettuali… E tutto era iniziato con una lettera del giovane Leo a Maccari: ai primissimi tempi del Selvaggio scrive a Mino e gli propone la sua collaborazione avvertendolo, a scanso di equivoci, che si è posto un solo scopo nella vita: fare tanti quattrini. Maccari si convinse che in un’epoca di retorica e di sbandierati ardori disinteressati quel giovane doveva essere davvero fuori del comune. I due si incontrarono e si avviò l’intreccio tra il foglio di Colle Val d’Elsa e L’Italiano, una rivista messa su da Longanesi dopo la sua adesione ai postulati di Strapaese. Il sodalizio durò fino alla fine della guerra e si interruppe solo per ragioni geografiche, perché la fine delle ostilità trovò il senese in Versilia e il romagnolo a Napoli. E dopo, le posizioni si invertirono ancora: Longanesi a Milano per partecipare da editore e direttore del Borghese al decollo della città lombarda, Maccari di nuovo a Roma nella sua cattedra all’Accademia e collaboratore del Mondo.

L’icona dell’anarchico Biberkopf
Ebbene, a metà degli anni Venti questa generazione aveva eletto come propria icona letteraria di riferimento non un eroe della Grande Guerra o un reduce del Risorgimento ma nient’altro che un un libertario: Franz Biberkopf, l’anarchico ribelle protagonista del romanzo Berlin Alexanderplatz di Alfred Doeblin, pubblicato in Italia nel febbraio del ’31. «Ci piacque moltissimo – ha ricordato Cesarini – ma di più ci incantò il suo eroe Franz Biberkopf». Costui è un anarchico, omicida, ladro e mantenuto, che combatte la sua drammatica vita nella Berlino dell’immediato primo dopoguerra, tutta popolata di personaggi alla Grosz.

Tra gli episodi che incantarono quei ragazzi “molto fascisti” ce n’era uno che li esaltava: è quello in cui Biberkopf perde un braccio per una sciagurata impresa ladresca ed è costretto, per vivere, a chiedere l’elemosina. Ma lo fa da par suo: mettendosi, cioè, il distintivo di mutilato di guerra. «Questo – si legge in Italiani cacciate il tiranno – ci mandava in visibilio. A tutti i complessi di vittimismo che toccano ai giovani, i tempi singolari aggiungevano che noi ci sentissimo schiacciati come pidocchi da folle di benemeriti reduci: di guerra, di Fiume, di squadrismo, di marcia su Roma, e poi sansepolcristi, antemarcia, sciarpe littorio, volontari, mutilati, decorati, anche padri di famiglie numerose. Legioni e legioni di italiani, per la grandissima maggioranza nel pieno della virilità, che ci chiudevano completamente l’orizzonte». Era questo lo stato d’animo che animava la più colta e motivata giovane generazione italiana tra la fine degli anni Venti e i Trenta. E a riflettere bene sul senso di questa contestazione silenziosa, «si scopre – confessa Cesarini – che dell’Italia unita fummo la prima generazione che cominciasse a sentire una certa pienezza per quel vivere melodrammatico, sospettando che dovesse esserci un modo di vivere più serio, con meno squilli di cornette, meno eroismi, meno martiri sempre presenti». Ed ecco perché, «l’anarchico Biberkopf, che issava sulla prova della sua furfanteria l’attestato di una grande benemerenza combattentistica, faceva la nostra amara vendetta». Una simbolica contestazione sul piano dell’immaginario, una dissacrazione creativa. E, allo stesso tempo, un’epifania di quello che quei ragazzi “molto fascisti” consideravano il loro massimo ideale di riferimento: la libertà. Quel romanzo, infatti, si concludeva con una specie di canto libertario: «Andiamo verso la libertà, avanti verso la libertà, il vecchio mondo deve crollare, destatevi all’aria fresca dell’aurora». E spinti da questa passione quei ragazzi si entusiasmavano anche per L’Armata a cavallo di Babel e per L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence.

Ecco, al di là delle particolari contingenze storico-politiche, questi giovani intellettuali sono stati sicuramente lo specchio di una sensibilità che potremmo definire la “via italiana al libertarismo”, uno stato d’animo che, al di là della loro collocazione – nel fascismo o nel postfascismo – non può che accomunarli in un sentimento individualista e anarcoide. «Longanesi – disse di lui Mario Monti, che fu suo editore nel dopoguerra – era un piccolo borghese anarchico e, come tutti gli anarchici, veniva anche lui dalla borghesia. Era anarchico per eredità familiare, materna, per il nonno, il Papa, Mazzini… Era un anarchico puro».

Molto di questo stato d’animo lo ritroveremo, andando avanti negli anni, negli scritti e nello stile di Ennio Flaiano. Anche questo intellettuale pescarese cresciuto a Roma, dopo la guerra d’Etiopia torna nella capitale e va ad abitare nel centro della città, a via dei Greci, nel quartiere dove gravitano gli artisti, tra il Caffè Greco e la Trattoria Il Gambero, e lì conosce Mino Maccari, Vincenzo Cardarelli, Orfeo Tamburi, Mario Pannunzio e, soprattutto, come più volte ricorderà, Leo Longanesi. Annoterà nei suoi celebri taccuini: «Mario Pannunzio e Leo Longanesi ebbero un’importanza decisiva perché mi fornirono i mezzi per mettermi a scrivere. Aggiungerò, di cose di cui non sapevo assolutamente niente…». Flaiano infatti cominciò a scrivere proprio su Omnibus, la seconda rivista diretta da Longanesi. Erano quelli gli anni della Roma intellettuale anteguerra, in cui prima di via Veneto gli artisti si incontravano nei Caffè al centro di Roma o alla fiaschetteria Beltramme, da Cesaretto, in via della Croce. Li chiamavano gli “intellettuali da caffè”: «Questa accusa mi è stata rivolta spesso – ricorderà lo stesso Flaiano – senza turbarmi troppo […] le più belle serate le ho trascorse per anni nei caffè con persone la cui amicizia era già un giudizio: Cardarelli, Barilli e Longanesi. Mi è rimasto il debole di preferire il caffè al salotto, al club, all’anticamera».

Fenomenologia di una generazione
Questa generazione libertaria altro non è che la continuazione delle vicende di quei frondisti maccariani di cui abbiamo già detto. Una generazione di cui Leo era indubbiamente l’anima e il portabandiera. «Non ricordo – ha rievocato Stefano Vanzina, il regista più noto come Steno – quando lo conobbi, ma so che mi parve di averlo sempre conosciuto. Simpatizzammo subito. Allora noi dei giornali umoristici eravamo snobbati dalla cultura ufficiale. Leo Longanesi, invece, si dimostrò subito amico e interessato al nostro Marc’Aurelio, al gruppo di Metz, Mosca e Marchesi, e questo mi piacque. Lui che dava del lei a tutti a me diede subito del tu. Fu allora che diventai amico di Longanesi: cominciai ad andare a casa sua e a vederlo tutti i giorni. Fu Leo che mi introdusse nel mondo del cinema».

Così, nel 1943, anche Ennio Flaiano, che anni dopo diventerà forse il più importante sceneggiatore del dopoguerra (da I vitelloni a La dolce vita), partecipa alla sceneggiatura di un film diretto proprio da Leo Longanesi, Dieci minuti di vita. Leo aveva iniziato a girare il film con un cast di primo piano: Assia Noris, Alida Valli, Clara Calamai, Gino Cervi e Vittorio De Sica. E alla sceneggiatura, oltre al giovane Flaiano, parteciparono Orsola Nemi (che poi sarà una delle firma di punta del Borghese) e il giovane Steno. Le riprese del film, purtroppo, avviate negli studi Titanus, dovettero interrompersi l’8 settembre, data chiave per le vicende longanesiane.

Longanesi e quegli intellettuali, insomma: Maccari, Pannunzio, Steno, Flaiano, Cardarelli, Mario Soldati. Ma anche Indro Montanelli, Giuseppe Berto, Elio Vittorini, Arrigo Benedetti, Vincenzo Talarico, Giuseppe Comisso, Luciano Bianciardi, Gian Carlo Fusco, Gualtiero Jacopetti… Cosa li accomuna, oltre il loro specifico ondivagare tra una casa e l’altra, sempre inquieti, sempre irregolari? Quella che potremmo definire, appunto, la via italiana al libertarismo, uno stato d’animo mai inquadrabile, sempre irrisolto. Montanelli, ad esempio, fascista e seguace dell’ex anarchico Berto Ricci che rompe col regime sulla guerra di Spagna, colpevole di non aver vergato reportage eroicizzanti a favore del regime, e che nel dopoguerra verrà schiacciato a destra malgrado la sua continua simpatia – testimoniata fino agli ultimi anni di vita – per gli anarchici. O Giuseppe Berto che, dopo la sua guerra in camicia nera e la sua lunga prigionia nel Fascist’s criminal Camp nel Texas, dirà: «Sono partito da un collettivismo nel quale mi sarei annullato pur di servire gli altri, anche il mio fascismo ebbe questo carattere. E sono arrivato a un accanito individualismo». Arriverà a definirsi «anarchico per rassegnazione e per disgusto». E anche Berto, come Flaiano e come Steno, venne lanciato da Longanesi che, nel ’47 gli pubblicò il primo romanzo, Il cielo è rosso, scritto negli anni di prigionia in America.

Nel dopoguerra, meglio di altri, Flaiano riassunse il sentimento comune di tutta questa generazione intellettuale: «La nostra generazione l’ha preso in culo. I preti da una parte, i comunisti dall’altra». Una frase breve che probabilmente sarebbe piaciuta e sarebbe stata condivisa, ancora, da Longanesi, da Maccari, da Berto, da Montanelli, da Bianciardi, da Fusco, da Steno. Ma anche dall’ex fascista di sinistra ed ex comunista Elio Vittorini che, romperà subito con Togliatti sul tema della libertà della cultura e finirà anni dopo nelle file dei radicali, oppure da un altro ex comunista e poi anticomunista come Ignazio Silone, che arriverà a definirsi anche come un socialista senza partito e un credente senza Chiesa e, soprattutto, un cristiano libertario. 

Di tutti questi intellettuali, Longanesi resta il primo, il più lucido, il più refrattario all’incasellamento. E, nel contempo, il trascinatore di talenti.

Nel secondo dopoguerra, ad esempio, Flaiano, che si occupa di cinema a tempo pieno, si ritrova con Leo, che è partito con l’avventura della sua casa editrice. E Longanesi rinnova al pescarese l’antico invito a scrivere un romanzo. Ricorderà lo stesso Flaiano: «Dovevo rivederlo a Milano, nel duro inverno del ’46. Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”». Tre mesi di tempo, non un giorno di più. E a questo invito seguì una lettera di Longanesi, del 27 febbraio dell’anno successivo: «Il termine massimo che le posso concedere è di una settimana o poco più, vale a dire Lei dovrebbe farmi avere tutto qui a Milano il 12 marzo perché il 13 abbiamo il turno presso il linotipista. Nel caso che Lei ritardi, dobbiamo attendere la fine di aprile e non sappiamo più quando usciremo».

Nel marzo del ’47 Flaiano consegna a Longanesi Tempo di uccidere. È come se lo scrittore fosse stato trascinato da Longanesi nell’impresa che lo porterà a vincere il primo Premio Strega.

Quando le copie del libro sono stampate, l’editore continua a consigliare l’insicuro romanziere: «Carissimo Flaiano, penso che il libro sarà in vendita dopo il 15 maggio. Si faccia avanti con il Premio della Bellonci. Non abbia timidezze: si faccia fotografare in cento modi e faccia pubblicare i ritratti. Cerchi di parlare alla radio, si comporti insomma come un Guglielmo Marconi. Bisogna battere Moravia». E il primo Premio Strega andò a Flaiano, come Leo aveva esattamente previsto: 92 schede a favore contro le 34 di Bigiaretti…

Nel ’49 – il primo numero è del 26 febbraio – Flaiano viene chiamato da Mario Pannunzio come caporedattore della rivista degli azionisti, Il Mondo. E al Mondo, Flaiano si occupa soprattutto delle fotografie, della scelta delle foto, cosa che lui, Benedetti e Pannunzio avevano imparato proprio da Leo. «Con una foto in mano, io divento un leone», era il vanto di Longanesi. E anche questo episodio mette in evidenza quanto, in realtà, accomunasse gli irregolari del Mondo a quelli che con il Borghese – la rivista che Longanesi fondò a Milano l’anno successivo – sono stati a loro contrapposti da una vulgata consolidata ma inconsistente. E anche questo – malgrado la facile schematizzazione che vorrebbe Il Mondo a sinistra e il Borghese a destra – la dice lunga sull’anima libertaria della cultura italiana nel secondo dopoguerra.

Fatto sta che, nell’aprile del ’54, nonostante Flaiano sia ormai il caporedattore del Mondo, Leo Longanesi, che continuava a scrivergli, gli ricorda in una lettera gli articoli promessi per il suo Borghese e aggiunge: «Da I vitelloni non si potrebbe cavar fuori un libro? Il tema è buono e il libro si venderebbe molto». Flaiano ci pensa. «Quando si mette a scrivere il secondo romanzo? Perché non manda nulla al Borghese?», si chiede tra sé e sé. Quel filo rosso tra i due non si spezzò mai, nonostante tutto.

E subito dopo la morte di Leo, scriverà Flaiano al comune sodale Mino Maccari: «Caro Maccari, ero a Fregene quando ho saputo dai giornali la fine di Longanesi e ho pensato a te ch’eri suo vero amico. Volevo scriverti. Ho scritto invece un piccolo ricordo sul Diario notturno, di cui mi sono pentito perché ho visto che tutti si sono gettati a scrivere di Longanesi e a rivendicarlo. Volevo togliere il pezzo, non è stato possibile. Io ho voluto ringraziarlo di quello che aveva fatto per me e mi è sembrato un saluto onesto. Ma tuttavia sono pentito. Oggi è meglio tacere quando le cose ci toccano davvero. C’è troppo giornalismo in giro. Non aggiungo altro. La sua fine è stata un dolore per tutti quelli che gli volevano veramente bene. Ma così, ogni giorno che passa scivoliamo sempre più verso la zona dell’ombra, confortati solo dalla volgarità del mondo che avanza, e che non condividiamo più».

E sulle pagine de Il Mondo, per la rubrica “Diario notturno”, lo stesso Flaiano aggiungerà: «I giornali danno la notizia della morte di Leo Longanesi. I giornali ormai non ci danno che cattive notizie, un giorno finiremo per leggerci anche la notizia della nostra morte; ma quella di stamani era più che una cattiva notizia: mi è parsa insidiosa e scoraggiante. Longanesi morto è più di un amico perduto, è la fine di un incontro e di uno spettacolo. Ho pensato a lui durante il giorno e ho capito che gli volevo bene e che lui me ne voleva: ma era il bene “di una volta”, quello che non si dice e porta a continui e reciproci perdoni».

Vale la pena leggere l’articolo-necrologia fino alla fine: «Ho ricordato – aggiungeva Flaiano – come l’avevo conosciuto vent’anni fa, in una birreria dove, dopo quattro chiacchiere mi disse: “Si metta a scrivere e non perda tempo”. Me lo ordinò addirittura, senza spiegarmi le ragioni che io non vedevo chiare. Era il suo modo di convincere i pigri e i delusi della mia specie […] Sei anni dopo lavoravamo insieme a un film e l’8 settembre lo sorprese mentre lo stava dirigendo. Era il suo primo film, mai finito, la storia di un vecchio anarchico che mette la bomba sotto un palazzo e poi va ad avvisare tutti gli inquilini che hanno ancora dieci minuti di vita. Era certo lui, Longanesi, il vecchio anarchico». Un vecchio anarchico sulle tracce della via italiana al libertarismo.

 


Luciano Lanna, giornalista e scrittore, direttore responsabile del Secolo d’Italia.

(c) Ideazione.com (2006)
Home Page
Rivista | In edicola | Arretrati | Editoriali | Feuilleton | La biblioteca di Babele | Ideazione Daily
Emporion | Ultimo numero | Arretrati
Fondazione | Home Page | Osservatorio sul Mezzogiorno | Osservatorio sull'Energia | Convegni | Libri
Network | Italiano | Internazionale
Redazione | Chi siamo | Contatti | Abbonamenti| L'archivio di Ideazione.com 2001-2006