Dino Buzzati, un borghese grande grande

Un popolo felice
di  Dino Buzzati
Ideazione di novembre-dicembre 2006

In quel paese, la giustizia sociale ha raggiunto una perfezione che non si è mai sentita. Al paragone, le più note Nazioni socialiste, non diciamo la Russia che è socialista per modo di dire, ma perfino l’Inghilterra, la Danimarca e la Svezia potrebbero benissimo andare a nascondersi, con la testa in un catino.

Non che in quel paese siano tutti uguali per censo, prestigio, livello sociale, perché questa sarebbe una noia da morire e tanto varrebbe non essere mai nati. Semplicemente le cose sono organizzate in modo che tutti, per una ragione o per l’altra, sono contenti, questo sì. E allora, per delucidare le idee, diamo qui alcuni esempi di primaria importanza.

In quel paese, tanto per cominciare, i soldati portano delle meravigliose divise rosse e blu che è una bellezza vederli, con alamari e bottoni d’oro, colbacchi di peli pregiati o berretti con fregi ricamati pure in oro a seconda delle stagioni, bandoliera, sciabola, sulle maniche galloni arabescati che arrivano fino alla spalla, stivaloni fin sopra il ginocchio di autentica pelle bianca, addirittura. E a momenti mi dimenticavo gli speroni. Su questa bellissima uniforme che non saprei spiegare dettagliatamente come è fatta, ma comunque è di effetto formidabile, i soldati appendono le decorazioni. Siccome le guerre, grazie a Dio, non mancano, e loro sono veramente bravi, di medaglie ciascuno ne ha una bella quantità. Molti ne hanno il petto interamente ricoperto e quando camminano tintinnano come sonagliere richiamando al davanzale della finestra le belle servette. Qualcuno, siccome sul petto non è più rimasto spazio disponibile, si attacca le medaglie anche sulla schiena, cosicché anche chi si trova alle spalle può dire: «Giù il cappello, cittadini, che passa un valoroso».

Così i soldati. Anche dei caporali la divisa è magnifica, però con qualche rifinitura in meno. Un po’ meno per il caporalmaggiore, un po’ meno per il sergente e così via, ormai avete capito. Quando si arriva agli ufficiali, di alamari non se ne parla più, restano solo i bottoni d’oro, e piccoli anche quelli. Di grado in grado, tutto si fa più semplice e disadorno. I generali, non che siano proprio in cenci, ma poco ci manca. E quando compare uno vestito tutto di grigio senza bottoni, né fregi, né medaglie, né galloni, né bandoliera, né sciabola, con gambali di cartone verniciato, che noi qui scambieremmo per uno spazzino, allora tutti scattano sull’attenti e suonano le trombe perché quello è sua eccellenza il comandante in capo dell’esercito.

In quanto alla paga, succede qualcosa dello stesso genere. Quella dei soldati semplici è altissima, un po’ meno quella dei caporali, eccetera. E il comandante in capo che abbiamo visto poco fa, quando viene il 27 del mese, riscuote uno stipendio assolutamente striminzito, quel tanto che gli basta per non crepare di fame e non un centesimo di più.

Cosicché in quell’esercito tutti sono contenti. Quelli che sono in basso perché guadagnano molto,  hanno bellissime divise e molte decorazioni al valore, quelli che sono in alto perché comandano e questo dà loro una grande soddisfazione. E in una tale atmosfera di generale appagamento, le cose, come è facile arguire, vanno per il meglio e le guerre si vincono una dopo l’altra che è un piacere.

In quel paese, i meno abbienti, terrazzani, braccianti, manovali, faticatori delle braccia e della schiena, abitano in case splendide, appartamenti modernissimi se in città, con supercondizionamenti d’ogni genere; ville, cottages, palazzine se in campagna. Belle anche le case dei mezzadri, degli operai qualificati, ma un po’ meno. Salendo poi nelle categorie sociali, le abitazioni si fanno sempre più nude e piccole. I ricconi, i potenti, si acconciano in vere topaie. Una catapecchia di paglia e fango, o poco più, ospita il capo dello Stato.

Insomma si manifesta qui il principio su cui si regge la vita di quel popolo: ai poveri cioè toccano quelle che noi qui stimiamo cose ricche, ai ricchi quelle che noi stimiamo cose povere. Si obbietterà: come è possibile? Se uno ha molti soldi disponibili, preferirà comprarsi una dimora sontuosa e comodissima piuttosto che un misero abituro; perché infatti non dovrebbe farlo?

Non lo fa per un semplice motivo: che le capanne, gli abituri, le grotte costano infinitamente più dei palazzi di marmo con riscaldamento a pannelli radianti e frigo incorporati nella muratura; e questo non già perché la paglia e la lamiera ondulata siano più cari del porfido o del duralluminio, il che sarebbe eccessivamente strano, ma perché in quel paese tutte le cose umili sono colpite da spaventose tasse. Ne consegue che solo i ricchi e i potenti possono permettersi il lusso di possederle, e proprio per questa loro difficoltà, esse acquistano un pregio straordinario, quindi sono ambitissime, pur se vili in sé,quale segno di dovizia, successo, aristocrazia e raffinatezza. Cosicché tutti sono contenti; i poveri diavoli di abitare delle case bellissime e gli abitanti delle grotte e dei tuguri di trovarsi all’apice della piramide sociale con tutte le soddisfazioni relative.

La stessa meravigliosa regola che attua un automatico e pieno compenso a tutte le disparità di fortuna, si ritrova applicata in ogni altro campo della vita.

Per esempio nei mezzi di locomozione. Sono i contadini, gli sterratori, la gente di misere risorse a possedere le gigantesche auto fuori serie, smaltate d’onice con paraurti babilonesi di platino massiccio. Le cosiddette utilitarie sono in mano dei capo ufficio e dei dirigenti di azienda. In quanto ai grossi industriali, ai famosi chirurghi, agli attori cinematografici, essi adoperano le biciclette, che in quel paese costano veramente un occhio della testa per le imposte che vi gravano. Ma i massimi capitalisti, latifondisti, produttori cinematografici, per non parlare dei ministri e dei sommi magistrati, vanno esclusivamente a piedi, ciò che è geloso privilegio degli uomini al vertice della gloria e del potere (e che agli altri è severamente inibito da severe leggi e carichi fiscali). Cosicché – ripetiamo anche qui – per un verso o per un altro, tutti sono pienamente soddisfatti.

Altro esempio sintomatico, le donne. Sono i poveracci (poveracci, s’intende, in senso relativo, vogliamo dire gli uomini ai gradini più bassi della scala) che vanno a spasso, fanno l’amore e si sposano con le più splendide figliole. In corrispondenza con il grado di successo e di agiatezza, le mogli si fanno via via meno belle e appetitose. In alto, nell’olimpo dell’aristocrazia, non che le femmine siano proprio tutte scorpioni, ma certo insistere nella descrizione del loro fisico sarebbe ingeneroso. d'altra parte le donne brutte, per lo stesso fatto di essere esclusività dei maggiorenti, acquistano, per il noto fenomeno dello snobismo, sovrana potenza del creato, un’attrattiva particolarissima. E avvengono perciò dei casi tipici: giovani che hanno per mogli delle Mariline Monroe, ma cascano innamorati marci di certe sofonisbe dal naso a becco e dalla silhouette di balena (però così distinte, così chic!).

Gli esempi potrebbero essere moltiplicati a volontà, così da riempire intere pagine: applicazioni, tutte, del principio enunciato poco fa, per cui le cose da noi stimate di massimo valore toccano al povero e viceversa. Ma fra i tanti, uno non possiamo trascurarlo, essendo di massima importanza. Eccolo: per una singolare disposizione della natura che in quel paese sembra conformarsi al costume generale, sono gli uomini privi di risorse e di cultura a raggiungere le più venerande età. E, in linea generale, la durata della vita è in proporzione inversa della capacità economica, del prestigio, del potere, della fama. I maggiori beniamini della sorte, chissà come, se ne vanno nel fiore dell’età per malori repentini, quando non vengono condannati a morte e decapitati dopo processi sbrigativi.

Di modo che, anche in questo caso, possiamo concludere che tutti quanti sono felici: gli sfortunati perché vivono a lungo e i fortunati perché, nella loro breve vita, possono assaporare i più ambiti beni della terra, come ricchezza, fama, autorità, i quali sono oltremodo gradevoli, almeno dicono.

E poi c’è, per i condannati a morte , la consolazione dell’ultimo pasto, che è sempre buonissimo: con caviale, salmone affumicato, lasagne al pesto, selvaggina rara, champagne, tartufi, verdure assortite, gorgonzola stravecchio, dolce, gelato e, a chi piace, anche caffè.

 

 

 

Il presente brano è stato tratto da Siamo spiacenti di..., Mondadori, Milano, 1975, pp. 220-223. © Arnoldo Mondadori Editore, Milano.

 

Si ringrazia Almerina Buzzati per aver concesso i diritti di pubblicazione.

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