Peter Bauer, economista irregolare

Contro il terzomondismo
di Tiziano Buzzacchera
Ideazione di settembre-ottobre 2006

Ci sono intellettuali e intellettuali. Alcuni vendono bene i propri prodotti e inseguono il sogno di una repentina popolarità accarezzando la scommessa del conformismo ideologico. Altri, invece, coltivano pazientemente idee magari fuori moda, forse estranee a quello che il consesso dei sapienti ha stabilito essere degno di considerazione, ma per nulla inattuali.
Peter Bauer (1915-2002) rientra senza dubbio in quest’ultima categoria. Ungherese di nascita, inglese di adozione, Bauer, liberista adamantino, assunse il ruolo del bastiancontrario, schivando perennemente e serenamente le nubi del politicamente corretto e le favole fuori tempo massimo balbettate dai fiancheggiatori della pianificazione. Bastiancontrario Bauer lo fu per quella sua instancabile volontà di sfidare il rosario delle certezze ammuffite degli anticapitalisti ad oltranza, di coloro che si illudevano che un comitato centrale avrebbe inevitabilmente restituito ordine al caotico universo della cosiddetta “anarchia” della produzione capitalista. Nulla di più falso, eppure, mentre oggi pronunciarsi fieri avversari delle insidie del comunismo può sembrare un gioco facile facile, un due più due che fa quattro, all’epoca in cui Bauer si conquistò una cattedra presso la London School of Economics, queste verità potevano al massimo essere sussurrate a mezza bocca.
Lord Bauer offrì un contributo del tutto particolare alla causa del liberalismo classico, di chi riconosce nello Stato minimo e nel libero scambio le condizioni essenziali per la fioritura della civiltà: la sua attenzione si rivolse infatti alla development economics un ramo dell’economia dominato, negli anni Sessanta e Settanta, dalle vestali del collettivismo. Al tempo, l’ortodossia galleggiava sulle coordinate del foreign aid come antidoto alla malattia del sottosviluppo, convinta della necessità di corpose trasfusioni di denaro dai paesi ricchi al Terzo Mondo per spezzare il «circolo vizioso del sottosviluppo». Tuttavia, se oggi un numero sempre crescente di esperti comincia a dubitare dell’efficacia dell’aiuto in moneta e se perfino i policy-makers si sono resi conti che l’elargizione di denaro da parte delle nazioni occidentali non può bastare per sanare il dramma della povertà e, infine, che l’abbattimento dei dazi e l’apertura dei mercati sono fattori fondamentali per lo sviluppo, lo dobbiamo in gran parte alla lezione di Peter Bauer, che finirà per essere definito dall’Economist come l’«Hayek dell’economia dello sviluppo». Un giudizio lusinghiero ma non esagerato. Il settimanale inglese ha sottolineato infatti che, se Hayek ha anticipato il crollo dell’economia pianificata e ci ha costretto a stropicciare gli occhi di fronte all’orrore del totalitarismo, Lord Bauer ha svelato la triste realtà del terzomondismo.

Sviluppo e proprietà privata
I suoi primi lavori, The Rubber Industry (1948) e West African Trade (1954), propongono uno dei temi chiave della riflessione di Bauer, che verrà poi riproposto e approfondito nel suo testo capitale, From Subsistence to Exchange: la proprietà privata e lo scambio come elementi imprescindibili per affrancare le nazioni arretrate dall’inverno dell’indigenza. Al contrario, non c’è alcuna moderazione o “tatto” nel criticare la superstizione del piano, che è una grave minaccia alla libertà individuale nonché un clamoroso abbaglio dal punto di vista economico, ma che Bauer ritiene essere anche figlia di quella indifferenza verso la realtà che caratterizza la contemporaneità. Da questo fenomeno discende anche quell’altra “indifferenza” che, in quanto economista dello sviluppo, vede con occhio privilegiato e che intuisce minare le possibilità di crescita delle popolazioni povere: l’indifferenza – appunto – verso il commercio e il ruolo che esso ha nell’espandere «il raggio delle scelte individuali». Per lo studioso inglese dev’essere questo il fine dello sviluppo economico. Tuttavia, Bauer non scivola mai nella confusione tipicamente moderna fra “potere” e “libertà”. In altre parole, la nozione di libertà come assenza di coercizione, che è poi il nucleo concettuale attorno al quale ha ruotato il liberalismo classico e che è stato riscoperto in anni recenti da pensatori come Murray N. Rothbard e Hans-Hermann Hoppe, non va accostata a quella di “opportunità” come enumerazione di più stili di vita alternativi che possono essere condotti.
La libertà, insomma, è eminentemente negativa e lo si evince ancor meglio dalla rigorosa delimitazione dei compiti dello Stato che egli avanza: la protezione delle persone e della proprietà. Ogni estensione dell’azione dello Stato oltre la sua funzione di “guardiano notturno” costituisce un’indebita manomissione dell’ingranaggio del mercato e una palmare violazione dello spazio destinato alle libere decisioni private. Bauer, sulla falsariga dell’Hayek di The Road to Serfdom, è perfettamente consapevole, in primo luogo, dell’inferiorità morale del collettivismo rispetto al libero mercato e, da ultimo, dei pericoli che accerchiano il destino della libertà individuale. Il fine ultimo dei pianificatori non era tanto o, perlomeno, non solo quello di controllare l’economia, bensì di rifare la società. La «religiosità secolarizzata e millenaristica» del dogma comunista era già stata opportunamente messa in evidenza dallo stesso Bauer, il quale non manca neppure di criticare minuziosamente le giustificazioni economiche e “scientifiche” avanzate a favore dell’economia di piano, scrutandole soprattutto dal punto di vista dell’economia dello sviluppo.

Sviluppo e crescita demografica
Nel libro che meglio esprime le opinioni di Bauer sui temi del suo tempo, From Subsistence to Exchange, lo studioso inglese non esita a sbriciolare alcuni dei miti più radicati nelle fila delle accademie filo-socialiste e del progressismo di matrice sessantottina. Un delicato argomento affrontato in quelle pagine è, ad esempio, quello del controllo delle nascite. Bauer non si schierò mai a fianco dell’intellighenzia per proclamare la necessità di fermare la crescita demografica. È piuttosto una prerogativa dei genitori quella di decidere se dare alla luce o meno dei figli. Il che non significa che questo diritto delle famiglie avrà conseguenze negative per la società. In primo luogo, avere degli eredi può spingere gli individui ad aumentare la produttività e, al fine di garantire un futuro più sereno ai primi, accrescere il tasso di risparmio, che è poi la benzina dello sviluppo economico. Malthus viene messo a testa in giù: il pericolo di malnutrizioni e di mancanza di risorse come conseguenza di una “eccessiva” espansione della popolazione non è annotabile in paesi ad alto sviluppo economico e, contemporaneamente, elevata densità demografica, come Taiwan, Singapore ed Hong Kong. Sono piuttosto le regioni sottosviluppate ad essere vittime delle carestie, a causa di un uso meno efficiente della terra e di una cultura della sussistenza che fermenta anche grazie alle restrizioni al commercio con l’Occidente. La ragione per cui nazioni meno sviluppate emergono dalla povertà, allora, può essere proprio la crescita della popolazione, perché essa promuove la formazione di nuovi consumatori e di nuovi produttori, accrescendo la divisione del lavoro. Non solo. Bauer è particolarmente critico verso coloro che pretendono di decidere che cosa sia utile o meno per i singoli individui. Di fronte ad esperti che proclamano che la nascita di un figlio va a detrimento dell’utilità sociale e del benessere individuale, egli ricorda che la felicità non può essere oggettivamente definita, non riesce ad essere ingabbiata in diagrammi e curve. C’è un sapore di paradossalità in chi sventola la bandiera del contraccettivo libero: da un lato, si proclama che l’Occidente non dovrebbe “violare” le altre culture, bensì porgere loro solo un garbato omaggio (o, in casi estremi, una venerazione piuttosto pedante); dall’altro, si vuole imporre ai paesi più arretrati uno standard morale esterno, quello del controllo della popolazione, appunto.
È il foreign aid, tuttavia, la grande leggenda che Bauer smonta pezzo per pezzo, in un bellissimo capitolo ricco di spunti. Comincia anzitutto ricordando come, in realtà, l’aid costituisca solo un trasferimento di ricchezza e non un aiuto vero e proprio. La precisazione linguistica ha un risvolto politico: l’aid non allevia le sofferenze dei poveri da pubblicità, che fanno capolino nei giornali o negli spot televisivi, ma finisce nelle tasche di governi corrotti e liberticidi. È la meccanica del processo decisionale che conduce a questa triste conclusione: sono i governi che si scambiano moneta, non c’è rapporto diretto fra bisognosi e donatori. Lo Stato si scopre Robin Hood all’incontrario: trasferisce denaro dai poveri dei paesi ricchi ai ricchi dei paesi poveri.
Inoltre, il Terzo Mondo non esiste: non c’è un blocco unico che agisce come un sol uomo, con un’unica volontà, è semplicemente una nozione funzionale alla politica dell’estorsione di denaro ai contribuenti occidentali. Eppure, la retorica del foreign aid si fa scudo di una muraglia intellettuale, esibisce scientificità ed avanza pretese: più reddito, più risparmio; più risparmio, più investimenti; più investimenti, più crescita; è questa la posizione dominante. A prescindere dal fatto che questo punto di vista confonde risparmio e denaro, Bauer evidenzia come il risparmio sia possibile anche a partire da attività su piccola scala, senza bisogno di alluvioni monetarie. Altrimenti, non saremmo in grado di spiegare uno degli eventi più straordinari degli ultimi secoli: la Rivoluzione Industriale. Anzi, se adottassimo la famigerata teoria del “circolo vizioso della povertà” non saremmo neppure in grado di capire come gli esseri umani abbiano potuto progredire, visto che il mondo è un sistema chiuso che non ha ricevuto aiuti. Avere denaro, sottolinea Bauer, è il risultato e non la precondizione dello sviluppo.
Contrariamente a quel che si pensa, l’aid costringe le popolazioni dei paesi arretrati a mantenersi in una condizione di povertà per due ragioni: crea dipendenza ed instilla l’idea che il progresso economico sia possibile non già grazie ai propri sforzi, alle proprie motivazioni, ma ai sussidi concessi da altri. C’è un altro motivo: il foreign aid garantisce a regimi dittatoriali di perpetuare il loro potere, messo altrimenti in serio pericolo da politiche palesemente dannose. L’aid, infine, è alla radice di un fenomeno a cui ogni liberista guarda con preoccupazione: la politicizzazione della vita, l’equazione deleteria fra società e Stato. Gli individui sono incentivati a prestare meno attenzione all’attività produttiva e a concentrarsi sugli esiti del processo politico, minando le basi della crescita.
Ben più che sulle giustificazioni economiche, l’aid riposa sul senso di colpa degli occidentali. Solo che questa colpevolizzazione intransigente dell’Occidente non regge. La povertà dell’Africa non è conseguenza della ricchezza dell’Europa o dell’America; è, semmai, il segnale di un uso errato delle risorse da parte delle popolazioni africane. È piuttosto il (poco) commercio con le nazioni ricche ad aver contribuito al progresso materiale dei paesi poveri. La marcata differenziazione di reddito fra paesi sviluppati e paesi arretrati non può essere ricondotta a un presunto sfruttamento dei primi nei confronti dei secondi, perché il commercio non è un gioco a somma zero, quanto piuttosto un processo in cui ogni attore viene retribuito a seconda del valore che produce per la società.
Questa enfasi sul mercato come processo, che lo avvicina all’elaborazione teorica di economisti del calibro di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, è anche uno dei più importanti contributi di Bauer alla teoria dello sviluppo, sebbene non sia l’unico. Israel Kirzner, infatti, nel bel saggio che Ideazione ospita in questa sezione, illustra anche altri apporti dello studioso inglese. Bauer, e Kirzner lo pone in evidenza, fu estremamente critico verso l’impiego di metodi matematici e statistici nell’economia. Questo elemento riconduce evidentemente agli insegnamenti della Scuola Austriaca, avversaria feroce della positivizzazione e della matematizzazione della scienza economica, che ha a che fare con azioni umane razionalmente orientate, finalizzate a perseguire uno scopo, e non con esseri che agiscono secondo schemi fissi e prevedibili. La bulimia del metodo matematico-statistico diventa allora la causa di un’incomprensione del presente, perché impedisce il ricorso alla storia per interpretare la realtà.
Bauer, dunque, come altri isolati liberisti, non fu costretto solo a scontrarsi con le maggiori illusioni sociali e politiche del tempo, ma anche con le più sedimentate convinzioni accademiche. E, come altri liberali, è riuscito a scavare una nicchia in cui far germogliare nuove idee. La società libera era la grande preoccupazione di Bauer. E la società libera gli ha dato ragione.


Tiziano Buzzacchera, studente di Scienze politiche e Relazioni internazionali all’Università di Padova, collabora con l’Istituto Bruno Leoni.

(c) Ideazione.com (2006)
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