Non vi fate ingannare: l’economia e la finanza sono materie semplici,
lineari nelle loro architetture. E le recenti questioni bancarie sono roba
semplice, anzi semplicissima. Quando, però, in questo impasto si
mescolano la politica e la magistratura, la vicenda si complica. Due grandi
banche straniere, la spagnola Bilbao e l’olandese Abn Amro, a metà
di quest’anno hanno deciso di staccare un assegno da 14 miliardi di
euro per comprarsi due malandate e sonnacchiose banchette italiane, la Bnl
e l’Antonveneta. Gli stranieri, per comodità chiamiamoli così,
hanno messo sul piatto un prezzo da capogiro. I banchieri di Madrid e Amsterdam
hanno dovuto spiegare ai propri azionisti che per controllare una banca
in Italia occorreva pagare un biglietto di ingresso: un sovrapprezzo senza
alcuna giustificazione nei conti delle società. Ma, seguendo il filo
del loro ragionamento, era un biglietto che valeva la pena di pagare, vista
l’arretratezza del nostro sistema creditizio e considerati i margini
di miglioramento dei conti delle banche da conquistare. Si trattava, ovviamente,
di una scommessa. Gli stranieri erano infatti già presenti con quote
importanti nelle due banche italiane ma, non avendo la maggioranza, comandavano
in condominio. E si può anche dire che gli olandesi di Abn non abbiano
gestito Antonveneta in maniera brillante, confermando la loro fama più
di mercanti di banche che di banchieri tout court. Diverso discorso per
gli spagnoli del Bilbao, che si sono fatti accompagnare nella scalata da
soci italiani e di peso come Diego della Valle e le Generali.
A beneficiare di queste operazioni, i risparmiatori italiani che avrebbero
goduto di un po’ di sana concorrenza e gli azionisti di Bnl e Antonveneta
che, grazie al sovrapprezzo, si sarebbero pagati un viaggio con i parenti
alle Maldive. In potenziale difficoltà sarebbero stati, invece, gli
altri istituti di credito italiani: se la scommessa degli stranieri fosse
stata ben calcolata, avrebbero dovuto correre ai ripari.
Il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, a cui spetta l’autorizzazione
ai cambi di proprietà nelle banche, con un piede spingeva sul freno
delle autorizzazioni a comprare degli stranieri e con l’altro premeva
sull’acceleratore per la formazione di cordate alternative. Di punta
e di tacco ha autorizzato, stancamente, Abn e Bilbao e agevolato, velocemente,
gli italiani di Unipol e di Popolare di Lodi. Grazie a qualche sotterfugio
tecnico, gli italiani si sono così trovati in pole position. Un peccato
per il mercato, un bene per Fazio e il sistema bancario più conservatore.
Il tutto sfruttando i codicilli dei regolamenti e gli angoli più
oscuri della nostra legislazione.
La vicenda sarebbe terminata qua, con il solito refrain. È sempre
stata la bacchetta del governatore a menare le danze in Italia. Fu lui a
bloccare due scalate nel marzo del 1999 nei confronti di Capitalia e dell’allora
Comit da parte di San Paolo e Unicredito. Fu lui a consegnare nel 2001 la
bresciana Bipop a Capitalia, eliminando le alternative straniere che si
erano comunque presentate. E sempre da via Nazionale partì la regia
per estromettere dalla guida di Mediobanca lo scomodo amministratore delegato
Vincenzo Maranghi, l’unico nel panorama creditizio italiano a non
tremare davanti ai diktat di palazzo Koch.
Invece la partita non solo non si avvia a concludersi come da copione, ma
si preannuncia ancora infuocata. Il governatore, intercettato e pubblicato
sui giornali, rischia di vedere ridotto di molto il suo peso istituzionale.
Il fatto è che, questa volta, gli amici di Fazio hanno toccato un
filo ad alta tensione: quello di Corriere della Sera, Rizzoli e Rcs. Chi
osa avvicinarsi da quelle parti deve essere ben autorizzato. Infatti, dal
milieu dei difensori di quella baggianata che si chiama “italianità
delle banche”, sono saltati clamorosamente fuori anche gli scalatori
della Rcs.
La scalata da parte dell’immobiliarista Stefano Ricucci alla Rizzoli
(di cui è arrivato a controllare circa un quinto del capitale) è
solo apparentemente estranea al risiko bancario. Ricucci è anche
un azionista forte di Bnl ed è collegato e finanziato da Gianpiero
Fiorani, numero uno della banca Bipielle che vuole scalare Antonveneta,
e intimo di Emilio Gnutti, che ha un pezzettino di cuore in tutte le partite.
Quando si capisce, e si capisce subito, che la difesa dell’italianità
di Bnl e Antonveneta è in mano agli stessi che hanno intenzione di
scalare il Corriere della Sera, il banco salta. E con esso il suo tutore
nel sistema creditizio, Antonio Fazio.
È questa la chiave di lettura con la quale si ribaltano cinquant’anni
di protezionismo bancario. In una sorta di rincorsa che testimonia per l’ennesima
volta l’eterogenesi dei fini, l’establishment si è visto
attaccato a casa sua e, in preda al panico, ha rispolverato l’attenzione
per il mercato e per le regole, che da tempo aveva riposto. E allora si
scopre improvvisamente che Fazio è stato un giocatore e non un arbitro
della partita bancaria. Come se la doppia Opa del ’99 non avesse rivelato
la stessa cosa, come se la vicenda Bipop traghettata in Banca di Roma non
fosse della stessa pasta, come se l’estromissione di Maranghi fosse
stata decisa dai cherubini. Solo oggi si scopre quello che tutti sanno e
sapevano da anni e che le stesse banche straniere avevano messo in conto,
firmando un assegno tanto generoso proprio per cercare di fare “un’offerta
che non si poteva rifiutare”.
La capziosità del ragionamento è strabiliante. Come detto,
gli stranieri hanno offerto cifre da capogiro per le due zitelle bancarie
e altrettanto alte sono state le controfferte italiane per restare al passo.
Ebbene il mercato, fatto dai risparmiatori e dagli azionisti, ha solo da
guadagnare dalla guerra tra scalatori. Non certo l’assetto delle regole,
come al solito modellate dall’Authority di vigilanza. Ma questo è
un altro discorso. Piuttosto viene da chiedersi come mai non si sia fatto
ricorso all’argomento della difesa del mercato e dei risparmiatori
solo pochi mesi fa, durante lo scandalo delle obbligazioni Cirio prima e
dei bond Parmalat poi. Si tratta quantomeno di un’omissione di vigilanza
o di connivenza da parte delle Autorità di controllo che ha polverizzato
i risparmi di duecentomila risparmiatori.
La realtà è che con le obbligazioni ci giocano e ci perdono
i risparmiatori: tanti ma male organizzati. Con le proprietà delle
banche si toccano interessi di pochi, ma ben radicati, mentre con il Corriere
della Sera si va proprio al cuore del potere del nostro indebitato establishment.
Che tiene al giornale ben più che alla reputazione del mercato.
In questo scenario di poteri leggeri e quattrini che pesano, il compito
della magistratura è stato, come si dice, un gioco da ragazzi. Trincerandosi
dietro lo scudo dell’obbligatorietà dell’azione penale
e le interessate denunce di parte, si è arrivati perfino al paradosso
di affidare ai Palazzi di giustizia le interpretazioni contrattuali degli
oggetti sociali delle società. Sarebbe troppo comodo, come spesso
si fa, vedere nell’intervento dei pubblici ministeri, una «supplenza
del ruolo che spetterebbe alla politica». I loro interventi a censura
di comportamenti per lo meno ineleganti di tutti gli attori coinvolti appaiono,
piuttosto, chiaramente diretti a rafforzare lo status quo. O, se si preferisce,
funzionali al mantenimento degli attuali assetti del nostro capitalismo.
Che si tratti proprio di questo, cioè di una condizione più
vicina alla collateralità con il potere che alla sua supplenza, è
provato da una serie impressionante di ipocrisie mediatiche e istituzionali.
Il signor Gnutti da Brescia, già condannato per insider trading in
primo grado, diventa ora impresentabile. Ma come azionista chiave di Telecom
e della scatola che la controlla, Olimpia, non lo è altrettanto?
Quando il Gip di Milano, poche settimane fa, lo interdice dalle funzioni
per due mesi, al Monte dei Paschi scoprono che debbono congelare la sua
carica di vicepresidente. Ma, viene da chiedersi, non bastava, giustizialismo
per giustizialismo, una condanna di primo grado, per retrocederlo nelle
sue funzioni senesi?
È nell’intreccio perverso tra politica, magistratura, media
e affari che si deve dunque più correttamente inquadrare lo scontro
in corso per il controllo di Bnl e Antonveneta. Lasciamo perdere il mercato
e le sue regole.
Nicola Porro,
capo della redazione economica de il Giornale.
(c)
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