Sono accadute molte e rilevanti cose
in questi ultimi due mesi nel centrodestra italiano. Il convegno nazionale
dei Circoli della Libertà a Montecatini, e ancor più la manifestazione di
Roma contro la Finanziaria del governo Prodi, con due milioni di
partecipanti, sono state solo le punte dell’iceberg, lo sbocco finale di un
lavoro di riorganizzazione e di riposizionamento avviato sin dai mesi
apparentemente soporiferi dell’estate. L’importanza dei due eventi, cui
Silvio Berlusconi ha impresso il proprio marchio (drammatico a Montecatini,
trionfale a Roma), sta proprio nell’aver rimesso in moto pubblicamente il
cammino del centrodestra, avviando così una nuova fase della vita politica
nazionale, a partire dal rimodellamento delle forze oggi all’opposizione.
Una strategia di reazione alla sconfitta elettorale e al pessimo avvio dell’azione del governo Prodi, certamente, ma anche un impulso alla riorganizzazione di un’area politica che non aveva poi troppo da piangersi addosso per il risultato dello scorso aprile, nel quale si potevano e dovevano individuare molti spunti positivi per la ripresa dell’azione politica. Ne avevamo scritto a lungo sui numeri post-elettorali di Ideazione, strappando il velo delle vedove inconsolabili per le poltrone di governo perdute, e spingendo i dirigenti politici a mettersi subito al lavoro. Perché, per parafrasare una citazione forse troppo abusata, il voto del 13 aprile aveva reso chiaro che gli elettori unitari del centrodestra c’erano, ora toccava dar loro il partito.
Passata l’amarezza e qualche
inevitabile turbolenza post-elettorale, ci si è rimboccati le maniche. Da un
lato l’azione dei partiti, dunque l’organizzazione, la tattica, il
coordinamento parlamentare (dove ci sono ancora molte cose da registrare),
la strategia per superare l’impasse a cui la vittoria mutilata del
centrosinistra ha consegnato il paese. Dall’altro il bagno di folla,
l’inaspettata e travolgente “discesa in piazza” del popolo di centrodestra
che ha sorpreso solo chi in questi dodici anni si è attardato in
sociologismi di plastica, e l’incontro con migliaia di giovani pronti a
rimettere in moto l’entusiasmo che nel 1994 fece nascere non una somma
algebrica di partiti orfani di ruolo e funzione politica, ma una cosa nuova,
anzi due: Forza Italia e poi l’alleanza che sdoganò l’ex msi e la Lega,
creando per il nostro paese le condizioni affinché prendesse forma, per la
prima volta dopo l’esperienza del centrismo degasperiano, un centrodestra di
tipo nuovo.
La nascita di un partito atipico come Forza Italia, guidato da un outsider carismatico come Silvio Berlusconi, offuscò l’altra novità, la nuova alleanza politica, peraltro determinata dal verificarsi della prima condizione. A rileggerla con gli occhi di oggi, quella intuizione fu il vero colpo di genio politico, il seme originario del partito unitario che oggi si cerca di costituire. Lo schema era semplice, eppure straordinario se si pensa alle condizioni di frammentazione del centrodestra italiano nel 1993 (diviso fra leghismo separatista, post-fascismo immaginario e spezzoni democristiani alla deriva): Forza Italia come cardine centrale, partito ponte del sodalizio costituito al Nord con la Lega di Umberto Bossi e al Sud con il Movimento sociale italiano che Gianfranco Fini aveva ormai avviato sulla strada di Alleanza nazionale. Diversi anche i nomi delle due coalizioni: Polo delle Libertà quello del Nord, Polo del Buongoverno quello del Sud. Venne giudicata una debolezza, un semplice cartello elettorale. E sul tempo breve si rivelò tale, con la caduta in pochi mesi del primo governo Berlusconi. Ma è stata in realtà una scelta strategica e lungimirante: quando ha avuto il tempo di sedimentarsi, nelle battaglie di opposizione della seconda metà degli anni Novanta, e di trasformarsi in alleanza politica con le elezioni del 2001 e con l’esperienza dei cinque anni di governo successivi, questo sodalizio ha rappresentato la vera novità dello scenario politico post-tangentopoli. Su di essa poggia ancor oggi la speranza che la lunga transizione italiana possa concludersi con successo, fornendo ai cittadini un approdo sulla sponda della modernizzazione del sistema politico e istituzionale.
Se teniamo presente lo schema che,
sul centrodestra, fu all’origine del nuovo sistema politico, non sorprende
la scelta attuata da Pier Ferdinando Casini in queste settimane. Quello che
oggi si chiama udc, risultato di scomposizioni e riunioni delle componenti
democristiane che scelsero di stare con i moderati, è in realtà un partito
estraneo all’alchimia che si realizzò in quei mesi. Fu il consiglio di
Arnaldo Forlani a spingere Casini (e allora Mastella) ad agganciarsi alla
coalizione di Berlusconi ed è anche onestamente vero che Casini ha poi
sostenuto con lealtà e convinzione la sua parte in tutti questi anni di
“militanza” nelle varie edizioni del centrodestra, dal Polo alla Casa delle
Libertà. E tuttavia l’udc resta estranea rispetto allo schema della Seconda
Repubblica, al bipolarismo, e forse anche all’alternanza fra coalizioni
diverse. Le difficoltà innegabili del nuovo sistema politico italiano non
inducono i democristiani ad accelerare le riforme non compiute, piuttosto
instillano la nostalgia per un sistema bloccato al centro che ricaccia le
estreme ai margini della competizione e che riserva ai professionisti del
Palazzo (più che della politica) il margine per fare e disfare governi e
coalizioni. È la scomposizione dei poli, non il loro consolidamento,
l’obiettivo finale dell’udc. Marco Follini lo ha capito prima e meglio di
Casini e ha compiuto prima di lui la scelta di rompere con «questo
centrodestra». Una sfida non solo a Berlusconi ma a tutti coloro che in
questa nuova fase hanno trovato ruolo e funzione.
Il partito unitario della libertà con il suo riferimento europeo nel Partito popolare, e il partito democratico che si tenta di far nascere nel centrosinistra con il rispettivo riferimento continentale nel Partito socialista europeo, rappresentano invece la strada necessaria per disincagliare la macchina istituzionale del nostro paese e indirizzarla verso la strada indicata, ormai tredici anni fa, dal referendum sul maggioritario che rivoluzionò la politica italiana. Strada alla quale, nonostante le delusioni e le incertezze di oggi, gli italiani non vogliono rinunciare, come ribadiscono ogni volta che sono chiamati in causa dai loro partiti. Forse perché questo sistema non sarà certo il migliore possibile, ma fa sentire il cittadino più protagonista di quanto non accadesse in passato. Che il meglio fosse ieri, forse, è solo una nostalgia per il tempo che passa.
Nei due mesi appena passati, dunque,
il centrodestra si è messo in marcia verso il partito unitario. E il
percorso può essere meno cervellotico e meno complesso di quello che ha
preso piede nel centrosinistra. La spinta dell’elettorato è chiara e
univoca. Da tempo scriviamo che i simpatizzanti della Casa delle Libertà
sono più determinati e più lucidi rispetto ai loro rappresentanti politici.
Non è idolatria della gente o vocazione populistica ma la semplice
osservazione delle cose. Ed è strano che i politici non ascoltino la voce
dei loro elettori, il loro desiderio e la loro speranza. Ma la novità è che
oggi il partito unitario può nascere anche avendo sciolto il nodo della
leadership che sembra aver avvelenato i rapporti fra Berlusconi e Casini. La
novità è nel ticket Berlusconi-Fini, battezzato nella notte di Piazza San
Giovanni anche da Bossi che riserva alla sua Lega il decisivo ruolo che la
csu bavarese svolge nei confronti della più grande cdu tedesca. Silvio
Berlusconi, con l’intatto carisma, è indispensabile per la nascita e
l’affermazione di un progetto come il partito unitario. Gianfranco Fini ne
può assicurare il futuro, la prosecuzione e forse anche una certa caratura
politica, con il completamento del processo di modernizzazione di an
attraverso l’ingresso nel Partito popolare europeo, via partito unico. Dal
coordinamento dei gruppi parlamentari alla nascita di Circoli trasversali
sul territorio, fino a liste elettorali comuni, alle Amministrative e poi
alle Europee del 2009: questo può essere il percorso. Sempre che lo si
voglia.
***
Con questo numero si conclude, dopo
tre anni esatti, la mia esperienza di direttore della rivista Ideazione. È
una mia scelta, motivata dal desiderio professionale di misurarmi con altre
sfide, all’estero, oltre quelle intense già vissute in Italia. Ringrazio la
società editrice per quello che mi ha dato in tanti anni e per aver provato
a trattenermi. La ringrazio ancor di più per avermi offerto, nello stesso
tempo, l’opportunità di soddisfare i miei desideri restando nei ranghi di
Ideazione come corrispondente per l’Europa da Berlino. So che è uno sforzo
importante per la società e cercherò di onorarlo al meglio, con la stessa
passione che mi ha accompagnato in questi tredici, lunghi anni. Ai lettori
un ringraziamento di cuore per aver seguito con crescente interesse la
complessa operazione di rinnovamento della rivista avviata nel 2004:
rimanendo con Ideazione, non si tratta di un addio ma di un arrivederci.
Così come un arrivederci è quello che indirizzo ai redattori, ai miei
redattori. Senza il loro aiuto, senza la loro tenacia in mesi assai
difficili, non sarei andato da nessuna parte. Se ora vado a Berlino lo devo
anche a loro. Mi piace credere di aver restituito loro qualcosa: che ci sia
un po’ di mio nella loro crescita professionale. Ora è il momento di uscire
dal guscio. Un ringraziamento affettuoso a chi ha sostenuto il micidiale
compito di assistermi in questi anni. Un abbraccio al personale della
segreteria, del settore grafico, dell’amministrazione e a tutti i
collaboratori che mi hanno arricchito della loro intelligenza. Infine, un
“in bocca al lupo” sincero a chi avrà il compito di succedermi.
Pierluigi Mennitti, direttore di
Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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