Tre settimane drammatiche per il mondo dell’informazione. Da quando,
il primo aprile scorso, le condizioni di Giovanni Paolo II si erano aggravate
ed era iniziata, implacabile e inarrestabile, l’agonia del grande
Pontefice, i media vecchi e nuovi – giornali, radio e tv, siti web,
blog – sono diventati a tempo pieno instancabili fucine di sottili,
dottissime discussioni sulla teologia, sulla filosofia, sulla sociologia
e sulla politica della Chiesa cattolica. Prima sul bilancio del lungo pontificato
di Papa Wojtyla, quindi nei pronostici pre-Conclave e finalmente nelle valutazioni
e nei vaticini sul nuovo Pontefice, Benedetto XVI.
Sapevamo che quando parlano di calcio gli italiani si trasformano in un
popolo di allenatori e selezionatori e sognano tutti un posticino sul ring
del “processo” di Biscardi. Ora abbiamo scoperto che la loro
seconda passione è quella di essere teologi, filosofi o almeno vaticanisti
di complemento e di sedere nel salotto di Vespa o nell’arena di Ballarò
o, se proprio tutto va male, nel tinello di Cucuzza. È meglio aspettare
per i verdetti. Lo stesso implacabile nemico di Joseph Ratzinger, il teologo
Hans Kung, gli ha concesso i cento giorni di rigore prima di giudicarlo,
come si fa con ogni governicchio che si appresta a governare. «Dopo
vedremo: chissà, potrebbe verificarsi un piccolo miracolo»,
ha detto con sarcasmo l’icona del dissenso, il portavoce del progressismo
militante, l’antipapista a servizio (e cachet) permanente. Benedetto
XVI è avvisato.
Per ora, aspettiamo che si esaurisca la caccia alle differenze e alle somiglianze
tra il vecchio e il nuovo Papa, per creare un’immagine buona per tutti
gli usi. Quando si comincerà a fare i conti con il fatto che il mondo
ha perso un grande protagonista e ne ha, con ogni probabilità, acquistato
un altro destinato a segnare la storia di questo inizio millennio? Il tentativo
è di contrapporre il Papa buono, quello ormai santificato negli incredibili
indimenticabili giorni di inizio aprile, con il suo successore. Eugenio
Scalfari, l’autoproclamato gran sacerdote dell’ortodossia illuministica
italiana, su La Repubblica, addirittura definisce Giovanni Paolo II «un
prete contadino con un concetto arcaico della religione»: meno male
che «lo riscattava agli occhi dei non credenti l’autenticità
e la spontaneità delle sue movenze, così poco teologiche e
così radicate invece nel vissuto delle sue esperienze». In
queste parole si annusa l’acre e astioso fumo prodotto dal falò
che dovrebbe distruggere anche le tracce dell’immensa produzione di
volumi di filosofia teoretica e morale, di scritti letterari e poetici,
di encicliche, lettere apostoliche, messaggi, omelie, discorsi del poeta,
drammaturgo, professore, sacerdote, vescovo, Pontefice Karol Wojtyla.
Nell’attesa degli eventi chiarificatori, dunque, è meglio in
effetti fermarsi per ora agli inizi dei due Pontificati, facendo l’unica
comparazione parallela possibile: è un atto di umiltà, ma
anche di prudenza, perché nessuno è in grado di prevedere
gli sviluppi che ci attendono. Basta rileggere le cronache che hanno preceduto
l’ultimo Conclave – uno dei più brevi e dei meno combattuti
della storia – per verificare il flop anche dei più sagaci
e smaliziati esperti in elezioni e pronostici. Joseph Ratzinger “non
poteva” essere eletto: troppo anziano, troppo conservatore, troppo
debilitato fisicamente, troppo duro ed esplicito, troppo freddo… troppo
Ratzinger. Il futuro resta imperscrutabile: è una lapalissiana regola
generale che è tanto più valida per lo sviluppo dei Pontificati.
Riflettiamo. Il Pontificato del giovane (58 anni) Giovanni Paolo II è
stato il secondo come durata – a parte il leggendario esordio di San
Pietro – ma avrebbe potuto benissimo durare soltanto meno di tre anni,
se nel maggio 1981 nel segno del fato o di Fatima non si fosse neutralizzata
la micidiale pallottola di Ali Agca. Chi avrebbe potuto prevedere nel 1978
l’imminente fine dell’impero sovietico e la demolizione del
muro dell’infamia e della cortina di ferro che tagliavano in due l’Europa,
geograficamente, politicamente, socialmente, ideologicamente e teologicamente?
E chi può avventurarsi oggi a pronosticare la durata del regno dell’anziano
(78 anni) Benedetto XVI o l’esito degli scontri di civiltà
che sono in corso nel pianeta?
Dunque, è il 22 ottobre 1978. Seguiamo con Domenico Del Rio, uno
dei suoi più attenti biografi di Wojtyla, cosa succede in piazza
San Pietro. Giovanni Paolo II, eletto sei giorni prima, celebra la liturgia
che inaugura il Pontificato e ne indica l’intenzione centrale nella
linea della missione alle genti. Una missione che esige una proiezione planetaria,
nel superamento di ogni limitazione ideologica o geopolitica. Sul sagrato
di San Pietro il Papa si rivolge al mondo ed enuncia il programma ad extra,
quello che maggiormente è destinato a contare in un Pontificato che
si rivelerà più di messaggio che di governo.
Fratelli e Sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!
La
chiamata ad aprire le porte a Cristo nel 1978 fu intesa essenzialmente come
una sfida ai regimi atei del comunismo. E come tale il Papa la riproporrà
il 25 gennaio 1998 a Cuba. Ma l’intendimento era più vasto,
tant’è che egli quella chiamata la riproporrà tale e
quale ai popoli europei quando tutti i comunismi del continente saranno
tramontati: «All’inizio del mio Pontificato ho invitato i fedeli
riuniti a Roma in piazza San Pietro di aprire le porte a Cristo. Oggi ripeto
il mio appello al vecchio continente: Europa, apri le porte a Cristo!»
(Vienna, 20 giugno 1998).
Il suo predecessore Paolo VI – non tenendo conto della brevissima
parentesi di Giovanni Paolo I – aveva incarnato la Chiesa sofferente
che non riusciva più a farsi ascoltare da una società in crisi,
dilaniata dal terrorismo nel cuore dell’Europa (il brigatismo rosso
in Italia e in Germania, l’Eta in Spagna, l’Ira in Gran Bretagna),
con le guerriglie nell’America Latina delle dittature e della teologia
della liberazione e con le guerre più o meno sante dell’Asia
islamista. Non dimentichiamo che si era nel pieno degli “anni di piombo”,
l’apogeo del post-Sessantotto, giunto dopo dieci anni di convulsione
e confusione alla sua deriva: dall’utopia al nichilismo, alla frantumazione
e dispersione dei valori, al trionfo del relativismo morale, politico, religioso.
Dalla quasi invettiva di Paolo VI contro quel Dio che non aveva saputo o
voluto salvare la vita del suo amico Aldo Moro si passa, quasi inaspettatamente,
al grido di rivolta di Giovanni Paolo II che invitava tutti a non «avere
paura», ad «aprire, anzi spalancare la porta a Cristo»,
a ribellarsi a coloro che volevano fiaccare e magari conquistare la società
con il terrore, quelli che perseguivano una teologia che voleva liberare
l’uomo dai bisogni sfamandoli con l’odio di classe, dettato
dai testi sacri del marxismo anziché dall’amore evangelico.
Quell’ottobre del 1978 fu l’inizio di una riscossa e veniva
da Karol Wojtyla che per 40 anni – senza soluzione di continuità
tra il tallone di ferro dell’occupazione nazista e la dittatura coloniale
sovietica – aveva vissuto nella sua Polonia nel regno della paura,
del silenzio imposto, del conformismo di sopravvivenza. Nell’aprile
del 2005, a piazza San Pietro – tornata ad essere l’ombelico
del mondo – è risuonato di nuovo quel fermo invito, meno gridato
certamente ma sicuramente altrettanto fermo. Questa volta a lanciarlo era
Joseph Ratzinger, che aveva avuto origini ed esperienze diverse ma insieme
incredibilmente segnate dalla stessa contaminazione con la barbarie nazista
e con l’imperialismo sovietico che aveva diviso in due la sua Germania.
Certo, al futuro Benedetto XVI, a differenza del suo predecessore, nessuno
poteva imporre il silenzio, allora come adesso. Ma egli ha dovuto fare i
conti con quella che ha chiamato la “dittatura del relativismo”,
l’arroganza e lo strapotere del nuovo conformismo capace di schiacciare,
o rendere impotente o almeno macchiettizzare chi “osa” esprimere
concetti che non seguono l’ultima moda o l’ultima parola d’ordine
dei grandi sacerdoti del modernismo a tutti i costi.
Il neo-Papa chiude la sua omelia di insediamento facendo un riferimento
diretto, esplicito, senza complessi, senza reticenze.
In
questo momento il mio ricordo ritorna al 22 ottobre 1978, quando Papa Giovanni
Paolo II iniziò il suo ministero qui sulla Piazza di San Pietro.
Ancora, e continuamente, mi risuonano nelle orecchie le sue parole di allora:
“Non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!”.
Il Papa parlava ai forti, ai potenti del mondo, i quali avevano paura che
Cristo potesse portar via qualcosa del loro potere, se lo avessero lasciato
entrare e concesso la libertà alla fede. Sì, egli avrebbe
certamente portato via loro qualcosa: il dominio della corruzione, dello
stravolgimento del diritto, dell’arbitrio. Ma non avrebbe portato
via nulla di ciò che appartiene alla libertà dell’uomo,
alla sua dignità, all’edificazione di una società giusta.
Il Papa parlava inoltre a tutti gli uomini, soprattutto ai giovani.
È forte in questo Papa la volontà di seguire la strada indicata
dal suo predecessore, che egli stesso standogli al fianco per 23 anni come
tutore della Fede aveva aiutato a definire e costruire tra mille difficoltà
e contestazioni interne ed esterne alla Chiesa. Sicuramente egli farà
sue anche le parole che ebbe più volte a ripetere Karol Wojtyla:
«Molti sono stati contestati prima di me. Anche San Paolo, anche Gesù
Cristo. Guai se il romano Pontefice si spaventasse delle critiche e delle
incomprensioni!».
Nel caso di Giovanni Paolo II, si poteva soltanto supporre a quali scenari
di paura si riferisse. Con Benedetto XVI non ci sono misteri. Lo aveva chiarito,
in modo ritenuto brutale e antipolitico per un presunto candidato al seggio
di Pietro, ai Cardinali prima del Conclave, ripetendolo con sbalorditiva
coerenza – visti i tempi – in libri, conferenze e interviste
nel corso degli ultimi anni, in significativo crescendo nei mesi scorsi.
Il suo è un appello rivolto al cuore e alle menti d’Europa,
protetta ed evangelizzata da quel Benedetto di cui ha voluto assumere il
nome lanciando e accettando una sfida. Ecco le sue parole:
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole di aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro. L’Europa, per sopravvivere, ha bisogno di una nuova – certamente critica e umile – accettazione di se stessa, se essa vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità [...] è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere senza costanti in comune, senza punti di orientamento a partire dai valori propri.
Anche
qui c’è continuità con Giovanni Paolo II, che aveva
fatto della ricerca delle radici e della riaffermazione dell’identità
nazionale, europea, umana un tema fisso del suo Pontificato. Non per cercare
contrapposizioni, che ha respinto con la forza delle sue parole e dei suoi
gesti, ma nella convinzione che per dialogare bisogna avere coscienza di
sé: ci si legittima reciprocamente solo se si parte da profili precisi,
da una conoscenza approfondita, da una storia che non si può cancellare.
Chi ascolterà e raccoglierà la sfida di Papa Ratzinger? Ancora
una volta è difficile e azzardato fare pronostici. Ma qualche indicazione
c’è. Da una parte, un esempio eclatante dei risultati ai quali
può portare un approccio ai valori della società per eccesso
di relativismo.
Il 21 aprile, tra l’elezione e l’incoronazione, la Camera dei
deputati della Spagna neo-socialista di Josè Luis Rodriguez Zapatero
ha approvato una legge che istituzionalizza il matrimonio tra omosessuali.
È l’ennesima e per ora più pesante provocazione di una
sinistra giunta inopinatamente al potere sull’onda emotiva di un attentato
terroristico e che ora nasconde la sua insipienza resuscitando i vecchi
fantasmi delle “Due Spagne”, quella anarcoide e anticlericale
e quella “cattolicissima”, che si sono contrapposti negli anni
Trenta in una terribile e sanguinosa guerra civile. Poche settimane prima,
Zapatero ha sottoposto a referendum, con enfasi propagandistica, la Costituzione
europea. Ma non ha neanche preso in considerazione di adottare la stessa
procedura su un tema di rilevanza costituzionale come questo, che tocca
la struttura della famiglia e della società, il vissuto dei cittadini.
Che succederebbe se un domani – non impensabile o imperscrutabile
– cambiasse la maggioranza e i nuovi governanti decidessero di cambiare
o annullare la legge, una legge ordinaria? Nella logica imposta da Zapatero,
sarebbe un atto normale, addirittura dovuto.
Dall’altra parte, la conferma che in altri settori del pensiero e
della politica, si riscontra un’assoluta assonanza di analisi e di
volontà di azione che prescinde da distinguo certamente importanti
ma di un altro livello tra chi parla in nome della Religione e chi lo fa
in nome della Politica. Basta leggere il volume Senza radici, scritto a
due mani dal cardinale Ratzinger e dal presidente del Senato Marcello Pera.
Il commento più puntuale è nella recensione di mons. Rino
Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense:
Meraviglia che da due fronti così diversi, quali quelli di Joseph Ratzinger e Marcello Pera, agli stessi interrogativi possano giungere risposte similari e convergenti. Il teologo e il filosofo laico non solo si confrontano, ma delineano spazi di azione su cui confluiscono per disegnare un cammino comune da perseguire. Ironia della sorte. In un paese come il nostro, che ha voluto sottolineare sempre l’indipendenza del mondo “laico” da quello religioso, fino a sfiorare l’incomunicabilità tra i due, tocca al prefetto dell’ex Sant’Uffizio e al presidente del Senato della Repubblica mettersi a tavolino per abbozzare una sintesi su alcuni obiettivi da perseguire insieme. La posta in gioco deve essere davvero importante.
Non si può non concordare: sì, la posta in gioco è davvero importante. Chissà se questo basterà ad evitare di cadere nella tentazione di strumentalizzare la discussione e anche di dilaniarsi alla ricerca della purezza ideologica, della piena coincidenza di analisi e ricette politiche e sociali.
Franco Oliva,
corrispondente di Ideazione da Madrid.
(c)
Ideazione.com (2006)
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